Quando Enea nel VI libro dell’Eneide discende agli inferi, incontra per l’ultima volta Didone, ormai tra le ombre dei morti; dopo essersene sorpreso e adombrando l’ipotesi di esserne responsabile, dice per giustificarsi:
invitus, regina, tuo de litore cessi,
«senza volerlo regina mi sono allontanato dalla tua spiaggia».
Facciamo un passo indietro. Nel I libro del poema Virgilio aveva raccontato l’incontro tra la regina di Cartagine e il pio Enea, fato profugus, umanamente accolto da Didone dopo il naufragio. Nel IV libro avevamo assistito all’esplosione della storia d’amore, favorita per motivi diversi sia da Venere sia da Giunone: dopo essere stato ospitato e soccorso, Enea se ne era andato improvvisamente, ubbidendo agli ordini di Mercurio e rispondendo con queste parole a Didone che tentava disperatamente di dissuaderlo: desine meque tuis incendere teque querellis; / Italiam non sponte sequor, «Smettila di infiammare me e te con le tue lamentele: / non di mia volontà seguo l’Italia» (IV, 360-361). Ebbene, così Virgilio descrive la reazione dell’ombra di Didone alle parole di Enea: illa solo fixos ocuols aversa tenebat, «ella teneva gli occhi fissi al suolo, girata dall’altra parte».
Mi sono sempre chiesto se l’assenza di volontarietà nel compiere il male sia o no un’attenuante. Comunemente la mancanza di intenzione è addotta come giustificazione plausibile; tuttavia diversi autori sostengono il contrario. In questo articolo cercherò di fornire qualche spunto di riflessione.
Iniziamo da un breve dialogo di Platone che affronta specificamente questo tema, l’Ippia minore; vediamone un riassunto. La discussione parte da una questione posta da Socrate al sofista Ippia di Elide, il quale aveva tenuto un discorso su Omero (364b):
ἀτὰρ τί δὴ λέγεις ἡμῖν περὶ τοῦ Ἀχιλλέως τε καὶ τοῦ Ὀδυσσέως; πότερον ἀμείνω καὶ κατὰ τί φῂς εἶναι;
«Ma cosa ci dici a proposito di Achille e di Odisseo? Chi dei due dici che è migliore e secondo cosa?»
Ippia risponde così (364c):
φημὶ γὰρ Ὅμηρον πεποιηκέναι ἄριστον μὲν ἄνδρα Ἀχιλλέα τῶν εἰς Τροίαν ἀφικομένων, σοφώτατον δὲ Νέστορα, πολυτροπώτατον δὲ Ὀδυσσέα.
«Dico infatti che Omero ha fatto Achille come l’uomo migliore tra quelli giunti a Troia, Nestore il più sapiente, Odisseo il più multiforme nell’ingegno».
L’aggettivo πολύτροπος è usato qui al superlativo nell’accezione negativa di «scaltro», «tessitore d’inganni», diversamente dall’Odissea, dove invece caratterizza positivamente l’eroe fin dal primo verso. Ippia cita, a sostegno della sua idea, alcuni versi (Iliade, IX, 308-314) da cui risulta quanto Achille sia ἁπλούστατος καὶ ἀληθέστατος, «schietto e veritiero al massimo» (364d):
Διογενὲς Λαερτιάδη, πολυμήχαν’ Ὀδυσσεῦ,
χρὴ μὲν δὴ τὸν μῦθον ἀπηλεγέως ἀποειπεῖν,
ὥσπερ δὴ κρανέω τε καὶ ὡς τελέεσθαι ὀίω·
ἐχθρὸς γάρ μοι κεῖνος ὁμῶς Ἀΐδαο πύλῃσιν,
ὅς χ’ ἕτερον μὲν κεύθῃ ἐνὶ φρεσίν, ἄλλο δὲ εἴπῃ.
αὐτὰρ ἐγὼν ἐρέω, ὡς καὶ τετελεσμένον ἔσται.
«Laerziade di stirpe divina, Odisseo dalle molte risorse, / è necessario certo manifestare francamente il pensiero, come lo realizzerò e come penso che si compirà; / infatti mi è odioso come le porte dell’Ade colui, / che una cosa occulti nel cuore, un’altra dica. / Ma io dirò come anche sarà compiuto».
L’episodio è quello dell’ambasceria; in questi versi Achille, dopo aver accolto amichevolmente Fenice, Aiace e Odisseo, giunti allo scopo di convincerlo a deporre la sua ira, rifiuta sdegnato la proposta di Odisseo che su mandato di Agamennone gli ha promesso, in cambio del ritorno ai posti di combattimento, una ricca ricompensa: sette tripodi, dieci talenti d’oro, venti lebeti, dodici cavalli campioni e in più sette donne lesbie, oltre a Briseide (con la quale, assicura, Agamennone non si è ancora accoppiato), subito, e dopo la conquista di Troia altre venti tra le prigioniere (le più belle dopo Elena); infine bottino a non finire. Al ritorno in patria Agamennone gli avrebbe poi dato in sposa una delle tre figlie (Crisotemi, Laodice, Ifianassa) con sette castelli in dote.
Ippia deduce dai versi citati, che mettono in antitesi i due eroi, la contrapposizione dei due caratteri, ἀληθής τε καὶ ἁπλοῦς, «veritiero e schietto» il carattere (τρόπος) di Achille, πολύτροπός τε καὶ ψευδής, «dall’ingegno multiforme e falso» quello di Odisseo.
Ippia argomenta sulla falsità di Odisseo giocando sui termini τρόπος («carattere, ingegno») e πολύτροπός («dal multiforme ingegno»), in quanto dalle parole di Omero emerge il carattere (τρόπος) ἀληθής τε καὶ ἁπλοῦς, «veritiero e schietto» di Achille, πολύτροπός τε καὶ ψευδής, «dall’ingegno multiforme e falso» di Odisseo. In caso contrario il poeta non avrebbe contrapposto così i due eroi.
A questo punto Socrate si avvale di una furbizia logica: in un primo momento afferma che il più scaltro in realtà è Achille, perché nei versi successivi prima dice a Odisseo che non tornerà a combattere ma l’indomani partirà con la nave (vv. 356-61) e poco dopo dice invece ad Aiace che aspetterà Ettore presso la sua nave (vv. 654-655). Siccome infatti Odisseo οὐδὲν γοῦν φαίνεται εἰπὼν πρὸς αὐτὸν ὡς αἰσθανόμενος αὐτοῦ ψευδομένου, «è evidente che non gli dice niente come se si fosse accorto che sta mentendo» (371a), ne consegue che Omero ha fatto Achille tanto scaltro da superare Odisseo nella sua stessa arte della menzogna, concedendosi addirittura il lusso di contraddirsi davanti a lui. Come minimo Achille e Odisseo sono dunque sullo stesso piano.
La furbizia consiste nel fatto che Socrate vuol indurre Ippia a dire che in realtà Achille non voleva mentire ma che (371e):
ταῦτα ὑπὸ εὐηθείας ἀναπεισθεὶς πρὸς τὸν Αἴαντα ἄλλα εἶπεν ἢ πρὸς τὸν Ὀδυσσέα· ὁ δὲ Ὀδυσσεὺς ἅ τε ἀληθῆ λέγει, ἐπιβουλεύσας ἀεὶ λέγει, καὶ ὅσα ψεύδεται, ὡσαύτως,
«indotto dalla semplicità ha detto queste cose ad Aiace diversamente che a Odisseo; Odisseo invece le cose vere che dice, le dice sempre avendole premeditate, e quelle false allo stesso modo».
Per questo, cioè in quanto «indotto dalla semplicità» (ὑπὸ εὐηθείας ἀναπεισθεὶς), Achille è migliore di Odisseo, secondo Ippia. A questo punto per Socrate è facile ribaltare il ragionamento giocando sull’ambiguità di εὐήθεια, intendendola come «sciocchezza» anziché «semplicità».
Poco prima (367a) infatti si era convenuto sul fatto che:
ὁ μὲν ἀμαθὴς πολλάκις ἂν βουλόμενος ψευδῆ λέγειν τἀληθῆ ἂν εἴποι ἄκων, εἰ τύχοι, διὰ τὸ μὴ εἰδέναι, σὺ δὲ ὁ σοφός, εἴπερ βούλοιο ψεύδεσθαι, ἀεὶ ἂν κατὰ τὰ αὐτὰ ψεύδοιο,
«l’ignorante spesso, pur volendo dire il falso, potrebbe dire il vero involontariamente, caso mai, per il fatto di non sapere, mentre il sapiente, come te, se volesse dire il falso, direbbe il falso sempre nello stesso modo»,
non cioè come Achille, il quale, secondo l’interpretazione di Ippia, si contraddice involontariamente.
La logica conseguenza è che Odisseo è migliore di Achille, ma Ippia non la accetta (371e-372a):
Καὶ πῶς ἄν, ὦ Σώκρατες, οἱ ἑκόντες ἀδικοῦντες καὶ [372] [a] ἑκόντες ἐπιβουλεύσαντες καὶ κακὰ ἐργασάμενοι βελτίους ἂν εἶεν τῶν ἀκόντων, οἷς πολλὴ δοκεῖ συγγνώμη εἶναι, ἐὰν μὴ εἰδώς τις ἀδικήσῃ ἢ ψεύσηται ἢ ἄλλο τι κακὸν ποιήσῃ; καὶ οἱ νόμοι δήπου πολὺ χαλεπώτεροί εἰσι τοῖς ἑκοῦσι κακὰ ἐργαζομένοις καὶ ψευδομένοις ἢ τοῖς ἄκουσιν.
«E come, o Socrate, coloro che commettono ingiustizia volontariamente e che volontariamente premeditano e attuano dei mali sarebbero migliori di coloro che agiscono così involontariamente, per i quali pare esserci molta indulgenza, qualora uno senza saperlo commetta ingiustizia o menta o compia un qualche altro male? Anche le leggi in fin dei conti sono molto più dure con coloro che compiono volontariamente dei mali e mentono piuttosto che con coloro che lo compiono involontariamente».
Ippia ha spostato la discussione sul piano morale, quello del bene e del male, dove Socrate insiste con la sua tesi (372d):
ἐμοὶ γὰρ φαίνεται, ὦ Ἱππία, πᾶν τοὐναντίον ἢ ὃ σὺ λέγεις· οἱ βλάπτοντες τοὺς ἀνθρώπους καὶ ἀδικοῦντες καὶ ψευδόμενοι καὶ ἐξαπατῶντες καὶ ἁμαρτάνοντες ἑκόντες ἀλλὰ μὴ ἄκοντες, βελτίους εἶναι ἢ οἱ ἄκοντες.
«A me infatti sembra, o Ippia, tutto il contrario di quello che dici tu: coloro che danneggiano gli uomini e commettono ingiustizia e mentono e ingannano e sbagliano volontariamente, non invece involontariamente, sono migliori di coloro che lo fanno involontariamente».
Nella parte finale del dialogo Socrate propone una serie di esempi a sostegno della sua tesi: il filo conduttore è che per voler fare qualcosa male bisogna prima saperlo fare bene, ergo la volontà di fare il male presuppone la capacità di fare il bene; l’esempio più efficace è questo (374c):
Πότερον οὖν ἂν δέξαιο πόδας κεκτῆσθαι ἑκουσίως χωλαίνοντας ἢ ἀκουσίως;
«Preferiresti possedere dei piedi che zoppicano volontariamente o involontariamente?».
La domanda naturalmente è retorica e questa è la conclusione paradossale (376a):
ἡ δυνατωτέρα καὶ ἀμείνων ψυχή, ὅτανπερ ἀδικῇ, ἑκοῦσα ἀδικήσει, ἡ δὲ πονηρὰ ἄκουσα.
«L’anima più capace e migliore, qualora appunto commetta ingiustizia, la commetterà volontariamente, mentre quella malvagia involontariamente».
Diversamente da Ulisse, che nell’Odissea li evoca (XI, vv. 34 sqq.); a questo passo alluderà Nietzsche (Umano, troppo umano II, parte prima, 408, Milano, Adelphi, 1981), parafrasandolo efficacemente anche se non precisamente: «Il viaggio nell’Ade. Anche io sono stato agli inferi, come Odisseo, e ci tornerò ancora più volte; e non solo montoni ho sacrificato per poter parlare con alcuni morti; bensì non ho risparmiato il mio stesso sangue».
Virgilio, Eneide, VI, 460. Ma si potrebbe già obiettare con Seneca (Epistulae, 54, 7): nihil invitus facit sapiens; necessitatem effugit, quia vult quod coactura est, «Il sapiente non fa nulla se non vuole; sfugge alla necessità, poiché vuole ciò a cui essa è destinata a costringerlo».
«Profugo per volere del fato» (Eneide, I, 2). T. S. Eliot vede in ciò l’elemento che fa del poema virgiliano il classico per antonomasia (Che cosa è un classico?, in Opere. 1939-1962, Bompiani 2003, a cura di Roberto Sanesi, pp. 491-492): «Enea è, dal principio alla fine, una creatura del fato: un uomo che non è un avventuriero o un intrigante, un vagabondo o un arrivista; un uomo che compie il proprio destino non per forza o per decreto arbitrario – né certamente per brama di gloria – ma sottomettendo la propria volontà a un potere più alto […] è bandito dalla patria per uno scopo che supera la sua comprensione, ma che nondimeno egli accetta; e dal punto di vista umano non è uno che sia felice o abbia successo. Ma è il simbolo di Roma, e quello che Enea è per Roma, l’antica Roma è per l’Europa. Così Virgilio si conquista la “centralità” del classico supremo; è lui il centro della civiltà europea, in una posizione che nessun altro poeta può condividere o usurpare».
All’ansia di Enea così risponde Didone: non ignara mali miseris succurrere disco, «Non ignara del male, imparo a soccorrere i miseri» (I, 630). È questa la versione virgiliana del τόπος eschileo del πάθει μάθος, «attraverso la sofferenza la comprensione» (Agamennone, 177).
Giustamente Ovidio nota sarcasticamente che et famam pietatis habet, tamen hospes et ensem / praebuit et causam mortis, Elissa, tuae, «ha pure la fama di pietà, tuttavia da ospite ha fornito la spada e il motivo, Elissa, della tua morte» (Ovidio, Ars amatoria, III, 39-40).
Così commenta l’episodio T. S. Eliot (op. cit., pp. 484-485): «Ho sempre pensato che l’incontro di Enea con l’ombra di Didone, nel libro VI, sia non soltanto uno dei brani più commoventi, ma anche uno dei più civili che si possano incontrare in poesia. È un episodio parco nell’espressione quanto ricco di significato»; poi Eliot nota come «invece di ingiuriare Enea ella si limiti a ignorarlo – ed è forse il più espressivo rimprovero di tutta la storia della poesia».
Il testo originale è leggermente diverso: διογενὲς Λαερτιάδη πολυμήχαν’ Ὀδυσσεῦ / χρὴ μὲν δὴ τὸν μῦθον ἀπηλεγέως ἀποειπεῖν, / ᾗ περ δὴ φρονέω τε καὶ ὡς τετελεσμένον ἔσται, / ὡς μή μοι τρύζητε παρήμενοι ἄλλοθεν ἄλλος. / ἐχθρὸς γάρ μοι κεῖνος ὁμῶς Ἀΐδαο πύλῃσιν / ὅς χ’ ἕτερον μὲν κεύθῃ ἐνὶ φρεσίν, ἄλλο δὲ εἴπῃ. / αὐτὰρ ἐγὼν ἐρέω ὥς μοι δοκεῖ εἶναι ἄριστα·
Euripide associa semplicità e verità in tre versi molto belli delle Fenicie (469-472): ἁπλοῦς ὁ μῦθος τῆς ἀληθείας ἔφυ / κοὐ ποικίλων δεῖ τἄνδιχ’ ἑρμηνευμάτων· / ἔχει γὰρ αὐτὰ καιρόν· ὁ δ’ ἄδικος λόγος / νοσῶν ἐν αὑτῷ φαρμάκων δεῖται σοφῶν, «il discorso della verità è semplice per natura / e ciò che è giusto non ha bisogno di intricate interpretazioni: / ha in sé ciò che è opportuno; il discorso ingiusto invece / avendo il vizio dentro di sé ha bisogno di espedienti sofisticati». Questi versi sono ripresi da Seneca (Epistulae ad Lucilium, 49, 12): ut ait ille tragicus, “veritatis simplex oratio est”, ideoque illam implicari non oportet; nec enim quicquam minus convenit quam subdola ista calliditas animis magna conantibus, «Come dice quel famoso tragico, “il discorso della verità è semplice”, e quindi non è il caso di complicarlo; e infatti non c’è alcuna cosa che convenga meno di questa furbizia subdola agli animi che si preparano a grandi imprese».
Cioè: Odisseo mostra di non essersi reso conto della doppiezza di Achille.
In quel punto si parlava di calcolo, ma il concetto viene assunto anche come norma generale.
Come nota Seneca (Epistulae, 90, 46): multum autem interest utrum peccare aliquis nolit an nesciat, «fa molta differenza se qualcuno non vuole o non sa peccare».