giovedì 18 dicembre 2025

Giovanni Ghiselli: Il comunismo favoleggiato.

Giovanni Ghiselli: Il comunismo favoleggiato.: ne "ὁ δὲ τὴν μὲν οἰκίαν τοῖς πολίταις πρυτανεῖον ἀποδείξας κοινόν, ἐν δὲ τῇ χώρᾳ καρπῶν ἑτοίμων ἀπαρχὰς καὶ ὅσα ὧραι καλὰ φέρουσι χρῆσθ...

Euripide, Baccanti – terzo episodio: vv. 660-671 – testo e traduzione – Maturità 2026

 

ΑΓΓΕΛΟΣ

Πενθεῦ κρατύνων τῆσδε Θηβαίας χθονός,         660

ἥκω Κιθαιρῶν' ἐκλιπών, ἵν' οὔποτε

λευκῆς χιόνος ἀνεῖσαν εὐαγεῖς βολαί.

MESSAGGERO
O Penteo che domini su questa terra,
sono venuto dopo aver lasciato il Citerone, dove mai
le luccicanti cascate della candida neve cessano.

Πε.

ἥκεις δὲ ποίαν προστιθεὶς σπουδὴν λόγου;

Pe.

Ma sei venuto ad aggiungere quale gravità di parole?

Αγ.

βάκχας ποτνιάδας εἰσιδών, αἳ τῆσδε γῆς

οἴστροισι λευκὸν κῶλον ἐξηκόντισαν,         665

ἥκω φράσαι σοι καὶ πόλει χρῄζων, ἄναξ,

ὡς δεινὰ δρῶσι θαυμάτων τε κρείσσονα.

Me.
Siccome vidi le venerande baccanti, che fuori da
questa terra nel furore lanciarono il bianco piede,
sono venuto perché voglio annunciare a te e alla città, signore,
che compiono azioni terribili e più che prodigiose.

θέλω δ' ἀκοῦσαι πότερά σοι παρρησίᾳ

φράσω τὰ κεῖθεν ἢ λόγον στειλώμεθα·

τὸ γὰρ τάχος σου τῶν φρενῶν δέδοικ', ἄναξ,         670

καὶ τοὐξύθυμον καὶ τὸ βασιλικὸν λίαν.   

Ma voglio sapere se posso riferire con franchezza
le cose di là oppure dobbiamo frenare la parola:
io temo infatti l’irruenza del tuo animo, signore,
e l’asprezza e l’eccesso di regalità.

 

«L’eccesso di regalità», in greco τὸ βασιλικὸν λίαν, è un cauto eufemismo per «la tua tempra irascibile».

I messaggeri sono spesso personaggi meschini nella tragedia, perché servi del potere. Cfr. EschiloAgamennone, 36-37: βοῦς ἐπὶ γλώσσῃ μέγας / βέβηκεν«c’è un grosso bue sulla lingua» (si tratta della guardia che nel prologo esprime con queste parole l’intenzione di non riferire ad Agamennone quanto successo in patria in sua assenza, cioè che è stato tradito e spodestato); EuripideTroiane, 424-426: ἦ δεινὸς ὁ λάτρις. τί ποτ’ ἔχουσι τοὔνομα / κήρυκες, ἓν ἀπέχθημα πάγκοινον βροτοῖς, / οἱ περὶ τυράννους καὶ πόλεις ὑπηρέται«Davvero tremendo il servo! Perché mai hanno il nome / di "araldi", unico odio comune a tutti i mortali, / questi servitori al seguito di tiranni e città?» (cosi si rivolge Cassandra a Taltibio); Oreste, 895-897: τὸ γὰρ γένος τοιοῦτον· ἐπὶ τὸν εὐτυχῆ / πηδῶσ’ ἀεὶ κήρυκες· ὅδε δ’ αὐτοῖς φίλος, / ὃς ἂν δύνηται πόλεος ἔν τ’ ἀρχαῖσιν ᾖ«giacché è una razza fatta così: dalla parte di chi ha successo / saltano sempre gli araldi; caro a loro è questo, / che abbia il potere della città e sia al comando». Anche in questa tragedia il bersaglio è Taltibio.

Faccio anche un esempio tratto da Sofocle. Nella categoria dei messaggeri possiamo annoverare anche le guardie, come quella che consegna Antigone a Creonte nel secondo episodio della tragedia messa in scena nel 442 a.C. Ebbene, dopo aver arrestato la ragazza e sentendosi sollevato per lo scampato pericolo (Creonte aveva minacciato di punire le guardie se non avessero individuato il responsabile della sepoltura di Polinice), si esprime con queste antieroiche parole (vv. 437-440):

Τὸ μὲν γὰρ αὐτὸν ἐκ κακῶν πεφευγέναι

ἥδιστον, ἐς κακὸν δὲ τοὺς φίλους ἄγειν

ἀλγεινόν· ἀλλὰ πάντα ταῦθ' ἥσσω λαβεῖν

ἐμοὶ πέφυκεν τῆς ἐμῆς σωτηρίας.

«Infatti che uno sia scampato ai mali / è piacevolissimo, mentre spingere i cari verso il male / è doloroso. Tuttavia è nella mia natura considerare tutte le altre cose / meno importanti della mia salvezza».

 


p.s.

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Giovanni Ghiselli: Il comunismo aristocratico: un ossimoro apparente.

Giovanni Ghiselli: Il comunismo aristocratico: un ossimoro apparente.: Nella Politeiva di Platone , Socrate dice che i guardiani- fuvlake~- non devono avere una oujsiva ijdiva , sostanza propria (416d) se n...

Euripide, Troiane – primo episodio, vv. 451-510: riassunto – Chi è l’uomo più felice – Maturità 2026

 

vv. 451-510

(fine primo episodioriassunto)


 Quindi Cassandra si congeda dalla madre e rivolgendosi a Taltibio lo apostrofa dicendogli: ὡς μίαν τριῶν Ἐρινὺν τῆσδέ μ’ ἐξάξων χθονός, «poiché stai per portare via me, da questa terra, una delle tre Erinni».

 Ecuba affranta esprime il suo dolore e invoca con scetticismo gli dèi vv. 469-471: ὦ θεοί . . . κακοὺς μὲν ἀνακαλῶ τοὺς συμμάχους, / ὅμως δ’ ἔχει τι σχῆμα κικλήσκειν θεούς, / ὅταν τις ἡμῶν δυστυχῆ λάβῃ τύχην, «oh dèi … come cattivi alleati vi invoco, è vero, / tuttavia ha una certa dignità invocare gli dèi, / quando uno di noi colga una sorte avversa».

 Poi lamenta la sua misera condizione da grande regina che era, madre di tanti figli, nessuno dei quali è sopravvissuto e prefigura le umiliazioni a cui sarà sottoposta; quindi si conclude il primo episodio con una considerazione:

vv. 509-510: τῶν δ’ εὐδαιμόνων / μηδένα νομίζετ’ εὐτυχεῖν, πρὶν ἂν θάνῃ«tra coloro che sono felici / non pensate che nessuno sia fortunato, prima che sia morto».


Chi è l’uomo più felice


 Il  τόπος, come sappiamo, risale, nella sua formulazione più famosa, a Erodoto, Storie, I, 32: Solone, ospite di Creso, viene interrogato su chi sia l’uomo più felice; l’Ateniese prima nomina Tello ateniese, poi Cleobi e Bitone, tutte persone qualsiasi, ma che hanno in comune di averer concluso la vita bene. Creso allora si indispettisce, ma Solone gli spiega che «l’uomo è completamente in balia degli eventi (πᾶν ἐστι ἄνθρωπος συμφορή). Poi Solone fa il conto dei giorni di una vita presupposta di settanta anni, comprendente 26250 giorni, ciascuno dei quali è diverso, e aggiunge:

Ἐμοὶ δὲ σὺ καὶ πλουτέειν μέγα φαίνεαι καὶ βασιλεὺς πολλῶν εἶναι ἀνθρώπων· ἐκεῖνο δὲ τὸ εἴρεό με οὔ κώ σε ἐγὼ λέγω, πρὶν τελευτήσαντα καλῶς τὸν αἰῶνα πύθωμαι. 
«Tu mi sembri essere molto ricco e regnare su molti uomini; ma quello che mi chiedevi non te lo dico ancora, prima di aver saputo che hai compiuto bene la vita».

 Dopo avere fatto una distinzione tra ricchezza e fortuna e felicità, ribadisce:

πρὶν δἂν τελευτήσῃ, ἐπισχεῖν μηδὲ καλέειν κω ὄλβιον, ἀλλεὐτυχέα […] Σκοπέειν δὲ χρὴ παντὸς χρήματος τὴν τελευτὴν κῇ ἀποβήσεται· πολλοῖσι γὰρ δὴ [33] ὑποδέξας ὄλβον ὁ θεὸς προρρίζους ἀνέτρεψε. 
«Però prima che sia morto, tratteniamoci e non chiamiamo uno felice, ma fortunato […] Di ogni casa bisogna guardare la conclusione, come andrà a finire: infatti la divinità, dopo aver fatto intravedere a molti la felicità, li ha stroncati capovolgendoli».

 Ne abbiamo però una formulazione già in OmeroOdissea, XVIII, 130-37:

οὐδὲν ἀκιδνότερον γαῖα τρέφει ἀνθρώποιο, / πάντων ὅσσα τε γαῖαν ἔπι πνείει τε καὶ ἕρπει. / οὐ μὲν γάρ ποτέ φησι κακὸν πείσεσθαι ὀπίσσω, / ὄφρ᾽ ἀρετὴν παρέχωσι θεοὶ καὶ γούνατ᾽ ὀρώρῃ: / ἀλλ᾽ ὅτε δὴ καὶ λυγρὰ θεοὶ μάκαρες τελέσωσι, / καὶ τὰ φέρει ἀεκαζόμενος τετληότι θυμῷ: / τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων / οἷον ἐπ᾽ ἦμαρ ἄγησι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε. 
«Nulla la terra nutre più meschino dell’uomo, / di tutte le creature quante respirano e strisciano sulla terra. / Infatti non dice mai che in futuro subirà un male, / finché gli dèi gli offrono coraggio e le ginocchia spingano: / ma quando gli dèi beati compiano anche lutti, / anche questi sopporta, suo malgrado, con animo paziente: / tale infatti è la mente degli uomini sopra la terra / quale la indirizza di giorno in giorno il padre degli uomini e degli dèi». Il contesto è quello della lotta di Odisseo con Iro, che lo aveva umiliato nella reggia di Itaca. Ancora travestito da vecchio mendicante Odisseo gli dà una lezione e all’augurio di Anfinomo, uno dei proci, di essere in futuro felice, risponde con le parole riportate sopra.

 Altre espressioni simili sono presenti nella tragedia; per esempio Sofocle, amico di Erodoto, con cui aveva molto in comune anche nel pensiero, si esprime in modo molto affine allo storiografo di Alicarnasso nella conclusione dell’Edipo re, vv. 1528-1530:

ὥστε θνητὸν ὄντἐκείνην τὴν τελευταίαν ἰδεῖν / ἡμέραν ἐπισκοποῦντα μηδένὀλβίζειν, πρὶν ἂν / τέρμα τοῦ βίου περάσῃ μηδὲν ἀλγεινὸν παθών, 
«sicché nessuno che sia un mortale, guardando a quell’ultimo giorno / a vedersi bisogna ritenere felice, prima che / abbia varcato il confine della vita senza aver subito nessun dolore».

 In Euripide il medesimo concetto è espresso prima nell’Andromaca, 100-102:

χρὴ δοὔποτεἰπεῖν οὐδένὄλβιον βροτῶν, / πρὶν ἂν θανόντος τὴν τελευταίαν ἴδηις / ὅπως περάσας ἡμέραν ἥξει κάτω, 
«non bisogna mai dire felice nessuno dei mortali, / prima di aver visto come / dopo aver varcato l’ultimo giorno sarà giunto sotto terra»;

 poi nell’Ecuba627-28:

κεῖνος ὀλβιώτατος, / ὅτῳ κατ’ ἦμαρ τυγχάνει μηδὲν κακόν«felicissimo quello a cui non capiti nessun male giorno per giorno».

 Notiamo come il tema sia presente così in quella che possiamo considerare una trilogia sulla guerra (Andromaca, Ecuba, Troiane).

 Inoltre ben cinque tragedie di Euripide (Alcesti, Medea21, Andromaca, Elena, Baccanti) si concludono con questi versi:

πολλαὶ μορφαὶ τῶν δαιμονίων, / πολλὰ δἀέλπτως κραίνουσι θεοί· / καὶ τὰ δοκηθέντοὐκ ἐτελέσθη, / τῶν δἀδοκήτων πόρον ηὗρε θεός. / τοιόνδ ἀπέβη τόδε πρᾶγμα, 
«molte sono le forme delle divinità, / molte cose in modo inatteso compiono gli dèi; / e le cose aspettate non si sono compiute, / mentre di quelle inaspettate un dio ha trovato la via. / Così è andata a finire questa azione».

 Il concetto si trova espresso anche da Platone nel suo ultimo dialogo, Leggi, VII, 802a:

Τούς γε μὴν ἔτι ζῶντας ἐγκωμίοις τε καὶ ὕμνοις τιμᾶν οὐκ ἀσφαλές, πρὶν ἂν ἅπαντά τις τὸν βίον διαδραμὼν τέλος ἐπιστήσηται καλόν, 
«onorare quelli che sono ancora in vita con encomi e inni non è cosa sicura, prima che uno dopo aver percorso tutta quanta la vita vi abbia posto una bella fine».


21 In questa tragedia cambia il primo dei versi citati: πολλῶν ταμίας Ζεὺς ἐν Ὀλύμπῳ, «di molti casi è dispensatore Zeus nell’Olimpo»; gli altri sono identici.


p.s.

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Giovanni Ghiselli: Il dilemma: “soldi oggi o sangue domani” ? Né l’un...: Questa mattina al risveglio sento che il leader polacco Tusk ha detto: “soldi oggi o sangue domani”. Tertium non datur sembra suggerire ...

mercoledì 17 dicembre 2025

Giovanni Ghiselli: Ricchezza e povertà.

Giovanni Ghiselli: Ricchezza e povertà.: Si fanno tante chiacchiere inconcludenti sulle abissali sperequazioni economiche tra i pochissimi cittadini faraonici e i molti poveri. ...

Euripide, Troiane – primo episodio, vv. 406-450 – Maturità 2026

 

Χο.

ὡς ἡδέως κακοῖσιν οἰκείοις γελᾷς,

μέλπεις θ’ ἃ μέλπουσ’ οὐ σαφῆ δείξεις ἴσως.

CO.
Come ridi piacevolmente dei mali domestici,
e canti cose che, cantando, mostrerai forse non chiare.

Ταλτιβίος.

εἰ μή σ’ Ἀπόλλων ἐξεβάκχευεν φρένας,

οὔ τἂν ἀμισθὶ τοὺς ἐμοὺς στρατηλάτας

τοιαῖσδε φήμαις ἐξέπεμπες ἂν χθονός.                                410

TALTIBIO
Se Apollo non ti agitasse di furore bacchico la mente,
tu di certo non accompagneresti fuori da questa terra i miei
condottieri impunemente con tali presagi.

ἀτὰρ τὰ σεμνὰ καὶ δοκήμασιν σοφὰ

οὐδέν τι κρείσσω τῶν τὸ μηδὲν ἦν ἄρα.

Del resto la maestà e l’apparente sapere
non sono superiori in nulla a ciò che non era proprio niente.

ὁ γὰρ μέγιστος τῶν Πανελλήνων ἄναξ,

Ἀτρέως φίλος παῖς, τῆσδ’ ἔρωτ’ ἐξαίρετον

μαινάδος ὑπέστη· καὶ πένης μέν εἰμ’ ἐγώ,                        415

ἀτὰρ λέχος γε τῆσδ’ ἂν οὐκ ἐκτησάμην.

Infatti il più grande signore di tutti gli Elleni,
il caro figlio di Atreo, si sottomise all’amore scelto
di questa invasata; anche io sono povero, è vero,
però almeno il letto di costei non l’avrei acquistato.

καὶ σοὶ μέν—οὐ γὰρ ἀρτίας ἔχεις φρένας—

Ἀργεῖ’ ὀνείδη καὶ Φρυγῶν ἐπαινέσεις

ἀνέμοις φέρεσθαι παραδίδωμ’· ἕπου δέ μοι

πρὸς ναῦς, καλὸν νύμφευμα τῷ στρατηλάτῃ.                    420

Quanto a te – infatti non hai la mente a posto –
le offese agli Argivi e gli elogi dei Frigi
li consegno ai venti affinché se li portino via; seguimi
alle navi, bella sposina per il condottiero.

σὺ δ’, ἡνίκ’ ἄν σε Λαρτίου χρῄζῃ τόκος

ἄγειν, ἕπεσθαι· σώφρονος δ’ ἔσῃ λάτρις

γυναικός, ὥς φασ’ οἱ μολόντες Ἴλιον.

Tu19, invece, quando la prole di Laerte vorrà
condurti via, seguilo; sarai serva di una donna
equilibrata, a quanto dicono quelli che sono venuti a Ilio.

Κα.

ἦ δεινὸς ὁ λάτρις. τί ποτ’ ἔχουσι τοὔνομα

κήρυκες, ἓν ἀπέχθημα πάγκοινον βροτοῖς,                        425

οἱ περὶ τυράννους καὶ πόλεις ὑπηρέται;

CA.
Davvero tremendo il servo! Perché mai hanno il nome
di "araldi", unico odio comune a tutti i mortali, 425
questi servitori al seguito di tiranni e città?20

σὺ τὴν ἐμὴν φῂς μητέρ’ εἰς Ὀδυσσέως

ἥξειν μέλαθρα; ποῦ δ’ Ἀπόλλωνος λόγοι,

οἵ φασιν αὐτὴν εἰς ἔμ’ ἡρμηνευμένοι

αὐτοῦ θανεῖσθαι; . . . τἄλλα δ’ οὐκ ὀνειδιῶ.                        430

Tu dici che mi madre andrà alla dimora
di Ulisse? Dove sono le parole di Apollo,
le quali a me rivelate dicono che ella
sarebbe morta qui? … non rinfaccerò le altre cose.

δύστηνος, οὐκ οἶδ’ οἷά νιν μένει παθεῖν·

ὡς χρυσὸς αὐτῷ τἀμὰ καὶ Φρυγῶν κακὰ

δόξει ποτ’ εἶναι. δέκα γὰρ ἐκπλήσας ἔτη

πρὸς τοῖσιν ἐνθάδ’, ἵξεται μόνος πάτραν

Sciagurato, non sa quali sofferenze gli rimangono da patire;
come oro i mali miei e dei Frigi gli
sembreranno un giorno. Infatti dopo aver navigato per dieci anni
oltre a quelli passati qui, raggiungerà da solo la patria

. . . . . . . . . . .

οὗ δὴ στενὸν δίαυλον ᾤκισται πέτρας                                  435

δεινὴ Χάρυβδις, ὠμοβρώς τ’ ὀρειβάτης

Κύκλωψ, Λιγυστίς θ’ ἡ συῶν μορφώτρια

Κίρκη, θαλάσσης θ’ ἁλμυρᾶς ναυάγια,

λωτοῦ τ’ ἔρωτες, Ἡλίου θ’ ἁγναὶ βόες,

αἳ σάρκα φωνήεσσαν ἥσουσίν ποτε,                                      440

πικρὰν Ὀδυσσεῖ γῆρυν. ὡς δὲ συντέμω,

ζῶν εἶσ’ ἐς Ἅιδου κἀκφυγὼν λίμνης ὕδωρ

κάκ’ ἐν δόμοισι μυρί’ εὑρήσει μολών.

Dove la tremenda Cariddi abita lo stretto dalla doppia corrente
della roccia, e il crudivoro montano
Ciclope, e la Ligure Circe che trasforma
in maiali, e i naufragi del salso mare,
e le passioni del loto, le sacre vacche del Sole,
che manderanno un giorno carne parlante,
voce amara per Ulisse. Per farla breve,
vivente andrà nell’Ade e sfuggito all’acque della palude
anche in patria di ritorno troverà sciagure a migliaia.

ἀλλὰ γὰρ τί τοὺς Ὀδυσσέως ἐξακοντίζω πόνους;

στεῖχ’ ὅπως τάχιστ’· ἐς Ἅιδου νυμφίῳ γημώμεθα.              445

ἦ κακὸς κακῶς ταφήσῃ νυκτός, οὐκ ἐν ἡμέρᾳ.

Ma dunque perché prendo di mira le pene di Ulisse?
Avviati al più presto; maritiamoci con lo sposino nell’Ade.
Davvero turpe turpemente darai sepolto di notte, non di giorno.

ὦ δοκῶν σεμνόν τι πράσσειν, Δαναϊδῶν ἀρχηγέτα.

κἀμέ τοι νεκρὸν φάραγγες γυμνάδ’ ἐκβεβλημένην

ὕδατι χειμάρρῳ ῥέουσαι, νυμφίου πέλας τάφου,

θηρσὶ δώσουσιν δάσασθαι, τὴν Ἀπόλλωνος λάτριν.            450

Oh tu che ti credi di compiere qualcosa di mirabile, principe dei Danai.
E me, gettata via come nudo cadavere, le gole
in cui scorre acqua in piena, presso il sepolcro dello sposo,
daranno da sbranare alle fiere, me la servitrice di Apollo.

19 Qui si rivolge a Ecuba, mentre prima stava parlando a Cassandra.

20 Spesso nelle tragedie i messaggeri e gli araldi sono personaggi spregevoli, in quanto amplificano acriticamente la voce dei potenti come in Oreste, 895-897: τὸ γὰρ γένος τοιοῦτον· ἐπὶ τὸν εὐτυχῆ / πηδῶσ’ ἀεὶ κήρυκες· ὅδε δ’ αὐτοῖς φίλος, / ὃς ἂν δύνηται πόλεος ἔν τ’ ἀρχαῖσιν ᾖ, «giacché è una razza fatta così: dalla parte di chi ha successo / saltano sempre gli araldi; caro a loro è questo, / che abbia il potere della città e sia al comando». Anche in questa tragedia il bersaglio è Taltibio.


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Euripide, Baccanti – terzo episodio: vv. 642-659 – testo e traduzione – Maturità 2026

 

Πε.

πέπονθα δεινά· διαπέφευγέ μ' ὁ ξένος,

ὃς ἄρτι δεσμοῖς ἦν κατηναγκασμένος.

ἔα ἔα·

ὅδ' ἐστὶν ἁνήρ· τί τάδε; πῶς προνώπιος         645

φαίνῃ πρὸς οἴκοις τοῖς ἐμοῖς, ἔξω βεβώς;

Pe.

Mi sono successe cose terribile: mi è sfuggito lo straniero

che poco fa era costretto in catene.

Ea ea:

È qui l’uomo; cos’è questo? Come mai ti mostri

qui all’entrata, proprio davanti al mio palazzo, appena uscito?

Δι.

στῆσον πόδ', ὀργῇ δ' ὑπόθες ἥσυχον πόδα.

Πε.

πόθεν σὺ δεσμὰ διαφυγὼν ἔξω περᾷς;

Di.

Arresta il piede, poni sotto all’ira un piede tranquillo.

Pe.

Come è successo che tu vieni fuori dopo essere sfuggito alle catene?

Δι.

οὐκ εἶπον, ἢ οὐκ ἤκουσας, ὅτι λύσει μέ τις;

Πε.

τίς; τοὺς λόγους γὰρ ἐσφέρεις καινοὺς ἀεί.         650

Di.

Non te lo dissi, o non mi ascoltasti, che qualcuno mi avrebbe liberato?

Pe.

Chi? tu infatti introduci sempre nuovi discorsi.

Di.

Colui che fa crescere per i mortali la vite dai molti grappoli.

Δι.

ὃς τὴν πολύβοτρυν ἄμπελον φύει βροτοῖς.

Πε

. . . . . . .

Pe.

. . . . . . .   

Δι.

ὠνείδισας δὴ τοῦτο Διονύσῳ καλόν.

Πε.

κλήιειν κελεύω πάντα πύργον ἐν κύκλῳ.

Di.

Hai fatto proprio un bel rimprovero a Dioniso.

Pe.

Ordino di chiudere ogni torre intorno. 

Δι.

τί δ'; οὐχ ὑπερβαίνουσι καὶ τείχη θεοί;

Πε.

σοφὸς σοφὸς σύ, πλὴν ἃ δεῖ σ' εἶναι σοφόν.         655 

Di.

E perché? non oltrepassano anche le mura gli dèi?

Pe.

Sapiente sei tu, sapiente, tranne in ciò in cui devi essere sapiente.  

Δι.

ἃ δεῖ μάλιστα, ταῦτ' ἔγωγ' ἔφυν σοφός.

κείνου δ' ἀκούσας πρῶτα τοὺς λόγους μάθε,

ὃς ἐξ ὄρους πάρεστιν ἀγγελῶν τί σοι.

ἡμεῖς δέ σοι μενοῦμεν, οὐ φευξούμεθα.

Di.
Soprattutto in ciò in cui bisogna, in questo io sono sapiente per natura.
Ma impara innanzitutto ascoltando le parole di quello
che è giunto dal monte a riferirti un messaggio.
Noi rimarremo con te, non fuggiremo.


p.s.

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Otium cum dignitate

 

 

L’espressione otium cum dignitate si trova all’inizio del De oratore (I, 1) di Cicerone:

[I] [1] Cogitanti mihi saepe numero et memoria vetera repetenti perbeati fuisse, Quinte frater, illi videri solent, qui in optima re publica, cum et honoribus et rerum gestarum gloria florerent, eum vitae cursum tenere potuerunt, ut vel in negotio sine periculo vel in otio cum dignitate esse possent.

«Riflettendo molto spesso e richiamando alla memoria le cose antiche, fratello Quinto, sono soliti darmi l’impressione di essere stati del tutto felici coloro che in un ottimo stato, quando erano al culmine della carriera e della gloria delle imprese, poterono tenere un corso della vita tale da poter essere attivi politicamente senza pericolo e anche stare in un ozio dignitoso»; due paragrafi oltre chiarisce cosa intenda per otium cum dignitate. Quest’opera è del 55, quando la sua carriera era già finita ma non era stato definitivamente escluso dalla politica e quindi doveva ancora destreggiarsi tra i marosi degli scontri civili, per cui così prosegue: tamen in his vel asperitatibus rerum vel angustiis temporis obsequar studiis nostris et quantum mihi vel fraus inimicorum vel causae amicorum vel res publica tribuet oti, ad scribendum potissimum conferam, «tuttavia nelle difficoltà o se vuoi nella criticità di questi tempi mi dedicherò ai nostri studi e tutto il tempo libero che mi concederanno vuoi la perfidia dei nemici vuoi le difese degli amici vuoi la politica, io lo impiegherò principalmente a scrivere» (3).

Dunque qui la prospettiva è ancora quella di una scelta.

Diversa è la situazione nel De officiis (III, 1-3), scritto alla fine del 44 e pubblicato postumo, quando ormai lo studio non è più una scelta ma una necessità; in questo passo si sente a mio parere emergere un Cicerone autentico, soprattutto per il malinconico paragone con l’Africano: 

[1] P. Scipionem, Marce fili, eum, qui primus Africanus appellatus est, dicere solitum scripsit Cato, qui fuit eius fere aequalis, numquam se minus otiosum esse, quam cum otiosus, nec minus solum, quam cum solus esset. […] Ita duae res, quae languorem adferunt ceteris, illum acuebant, otium et solitudo […] A re publica forensibusque negotiis armis impiis vique prohibiti otium persequimur […] [2] Sed nec hoc otium cum Africani otio nec haec solitudo cum illa comparanda est. Ille enim requiescens a rei publicae pulcherrimis muneribus otium sibi sumebat aliquando […] nostrum autem otium negotii inopia, non requiescendi studio constitutum est. […] Sed quia sic ab hominibus doctis accepimus, non solum ex malis eligere minima oportere, sed etiam excerpere ex his ipsis, si quid inesset boni, propterea et otio fruor […] nec eam solitudinem languere patior, quam mihi adfert necessitas, non voluntas.

«Scipione, o figlio Marco, quello che fu soprannominato Africano, era solito dire, come scrisse Catone che era quasi suo coetaneo, che non era mai meno ozioso di quando era ozioso, né meno solo di quando era solo […] Così due cose che arrecano agli altri fiacchezza, lui lo stimolavano, l’ozio e la solitudine […] Noi  perseguiamo l’ozio senza tregua, esclusi dalla politica e dall’attività del foro per opera di armi empie e della violenza […] Ma né bisogna paragonare questo ozio con l’ozio dell’Africano né questa solitudine con quella. Egli infatti cercando riposo dai più nobili incarichi dello stato prendeva per sé ogni tanto dell’ozio […] il nostro ozio invece è stato stabilito per mancanza di attività non per voglia di riposarsi […] Ma siccome abbiamo imparato così dagli uomini dotti, non solo che bisogna tra i mali scegliere quelli minori, ma anche che da questi stessi bisogna ricavare se vi è compreso qualcosa di buono, appunto per questo traggo profitto dall’ozio […] e non lascio che sia svogliata quella solitudine, che mi porta la necessità, non la volontà».


Infine vediamo la chiusa delle Tusculanae disputationes (di pochi mesi, o settimane, precedenti il De officiis) dove Cicerone rivendica la dignità del suo otium coactum, e anche la sua funzione consolatoria:

[121] Sed quoniam mane est eundum, has quinque dierum disputationes memoria comprehendamus. Equidem me etiam conscripturum arbitror – ubi enim melius uti possumus hoc, cuicuimodi est, otio? –, ad Brutumque nostrum hos libros alteros quinque mittemus, a quo non modo inpulsi sumus ad philosophiae scriptiones, verum etiam lacessiti. In quo quantum ceteris profuturi simus, non facile dixerim, nostris quidem acerbissimis doloribus variisque et undique circumfusis molestiis alia nulla potuit inveniri levatio.

«Ma poiché domani mattina bisogna andarsene, fissiamo con la memoria le discussioni di questi cinque giorni. Per quanto mi riguarda penso che io anche le metterò per iscritto – in cosa infatti possiamo impiegare meglio questo ozio, qualunque ne sia la natura – , e invieremo questi altri cinque libri al nostro Bruto, dal quale non solo sono stato spinto ma addirittura spronato agli scritti di filosofia. E quanto in ciò siamo destinati a giovare agli altri, non saprei dirlo facilmente, ma è certo che per gli amarissimi dolori e le inquietudini che da ogni parte mi circondano non avrebbe potuto essere trovato nessun altro sollievo».


In questa temperie culturale è naturale che anche Sallustio si giustifichi per il fatto di dedicarsi all’ozio.

De Catilinae coniuratione.

[III] 1 Sed in magna copia rerum aliud alii natura iter ostendit. Pulchrum est bene facere rei publicae, etiam bene dicere haud absurdum est; vel pace vel bello clarum fieri licet; et qui fecere et qui facta aliorum scripsere, multi laudantur.

«Ma in una grande abbondanza di attività la natura mostra a uno una strada a un altro un’altra strada. È bello agire bene per lo stato, anche dirne bene non è assurdo; vuoi in pace vuoi in guerra è possibile diventare famosi; sia coloro che hanno agito sia coloro che hanno scritto le azioni degli altri, in molti sono lodati».

2 Ac mihi quidem, tametsi haudquaquam par gloria sequitur scriptorem et actorem rerum, tamen in primis arduum videtur res gestas scribere: primum, quod facta dictis exaequanda sunt; dehinc, quia plerique, quae delicta reprehenderis, malevolentia et invidia dicta putant, ubi de magna virtute atque gloria bonorum memores, quae sibi quisque facilia factu putat, aequo animo accipit, supra ea veluti ficta pro falsis ducit.

«E sebbene una gloria in nessun modo pari segue lo scrittore e l’autore della storia, tuttavia mi sembra particolarmente arduo scrivere le imprese: innanzitutto poiché le parole devono essere adeguate ai fatti; poi perché i più considerano dettati da malignità e invidia le colpe che si possono rimproverare; quando invece si fa menzione della grande virtù e gloria dei valorosi, le cose che ciascuno ritiene facili a farsi da parte sua, le accetta con animo sereno, quelle superiori le considera false, come inventate».

 – facta dictis exaequanda: stesso concetto in Isocrate, Panegirico, XIII: χαλεπόν ἐστιν ἴσους τοὺς λόγους τῷ μεγέθει τῶν ἔργων ἐξευρεῖν, «è difficile trovare le parole adeguate alla grandezza dei fatti».

  plerique … ducit: Il passo è ispirato al λόγος ἐπιτάφιος di Tucidide, II, 35, 2: χαλεπὸν γὰρ τὸ μετρίως εἰπεῖν ἐν ᾧ μόλις καὶ ἡ δόκησις τῆς ἀληθείας βεβαιοῦται. ὅ τε γὰρ ξυνειδὼς καὶ εὔνους ἀκροατὴς τάχ' ἄν τι ἐνδεεστέρως πρὸς ἃ βούλεταί τε καὶ ἐπίσταται νομίσειε δηλοῦσθαι, ὅ τε ἄπειρος ἔστιν ἃ καὶ πλεονάζεσθαι, διὰ φθόνον, εἴ τι ὑπὲρ τὴν αὑτοῦ φύσιν ἀκούοι. μέχρι γὰρ τοῦδε ἀνεκτοὶ οἱ ἔπαινοί εἰσι περὶ ἑτέρων λεγόμενοι, ἐς ὅσον ἂν καὶ αὐτὸς ἕκαστος οἴηται ἱκανὸς εἶναι δρᾶσαί τι ὧν ἤκουσεν· τῷ δὲ ὑπερβάλλοντι αὐτῶν φθονοῦντες ἤδη καὶ ἀπιστοῦσιν, «È difficile infatti parlare con la giusta misura in una situazione in cui a stento viene confermata la presunzione della verità. Infatti l’ascoltatore consapevole e benevolo potrebbe forse pensare che qualche aspetto sia illustrato in modo piuttosto carente rispetto a ciò che vuole e sa, e quello inesperto, per invidia, che ce ne siano alcuni anche esagerati, se sente qualcosa di al di sopra della propria natura. Fino a questo punto infatti sono tollerabili le lodi pronunciate su altri, nella misura in cui ciascuno pensa di essere capace egli stesso di fare qualcuna delle cose che ha sentito dire; quanto invece a ciò che eccede le proprie capacità provando subito invidia neanche vi credono».

[IV] 1 Igitur ubi animus ex multis miseriis atque periculis requievit et mihi reliquam aetatem a re publica procul habendam decrevi, non fuit consilium socordia atque desidia bonum otium conterere neque vero agrum colundo aut venando servilibus officiis, intentum aetatem agere;

«Dunque, quando l’animo trovò pace in seguito alle molte miserie e pericoli e decisi che dovevo tenere il resto della vita lontano dalla politica, il proposito non fu di consumare un tempo libero prezioso nell’indolenza e nella pigrizia, né del resto di passare la vita dedicandomi a coltivare la terra o cacciare, occupazioni da schiavi».

 – a re publica procul: l’allontanamento dalla politica non fu, con tutta probabilità, una scelta per Sallustio, ma una necessità imposta, come era stato anche per Cicerone

2 sed, a quo incepto studioque me ambitio mala detinuerat, eodem regressus statui res gestas populi Romani carptim, ut quaeque memoria digna videbantur, perscribere, eo magis, quod mihi a spe, metu, partibus rei publicae animus liber erat.

«Invece ritornato a quel medesimo progetto e a quella medesima passione da cui mi aveva distolto una cattiva ambizione, stabilii di mettere per iscritto le imprese del popolo romano per episodi, a seconda di come ciascuna mi sembrava degna di memoria; tanto più per il fatto che l’animo era libero dalla speranza, dalla paura, dalle fazioni politiche».


Infine sentiamo Schopenhauer, Parerga e paralipomenaAforismi sulla saggezza della vita:

capitolo secondo

La gente comune si preoccupa unicamente di passare il tempo; chi ha un qualche talento pensa invece a utilizzarlo… In tutti i paesi l’attività principale di ogni società è sempre stata il gioco delle carte: esso è la misura del valore di tale società, e la bancarotta dichiarata di tutti i pensieri. Dal momento che non hanno alcun pensiero da scambiarsi, essi si scambiano delle carte…


Otium sine litteris mors est et hominis vivi sepultura» (Seneca, Ep., 82, 3).


È stato infatti sostenuto abbastanza spesso, e non senza verosimiglianza, che l’uomo spiritualmente limitato è in fondo il più felice… Sofocle si è espresso al riguardo in due modi diametralmente opposti:


πολλῷ τὸ φρονεῖν εὐδαιμονίας πρῶτον ὑπάρχει

Sapere longe prima felicitatis pars est

Antig., 1323


e d’altro canto

ἐν τῷ φρονεῖν γὰρ μηδὲν ἥδιστος βίος

Nihil cogitantium iucundissima vita est

Aiax. 550


L’uomo privo di ogni bisogno spirituale è per l’appunto… con un’espressione… in origine tratta dalla vita studentesca… un filisteo. Costui è e rimane cioè l’ἄμουσος ἀνήρ… Costui è dunque un uomo senza bisogni spirituali… Nessun impulso alla conoscenza e alla comprensione, come fini a sé, e neppure nessun impulso verso godimenti propriamente estetici… Egli si sobbarcherà tuttavia, come una specie di lavoro forzato… quelli tra i godimenti di tale specie che gli sono imposti dalla moda o dall’autorità. Per lui i veri piaceri sono soltanto quelli sessuali, ed egli si rivale con questi. Di conseguenza le ostriche e lo champagne sono il punto culminante della sua esistenza, e lo scopo della sua vita consiste nel procurarsi tutto ciò che contribuisca al suo benessere materiale…


p.s.

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