Siamo alla fine della Repubblica e Socrate racconta questo mito per corroborare l’idea che esistono premi e punizioni per le azioni compiute in vita anche dopo la morte.
Ἀλλ' οὐ μέντοι σοι, ἦν δ' ἐγώ, Ἀλκίνου γε ἀπόλογον ἐρῶ, ἀλλ' ἀλκίμου μὲν ἀνδρός, Ἠρὸς τοῦ Ἀρμενίου, τὸ γένος Παμφύλου· ὅς ποτε ἐν πολέμῳ τελευτήσας, ἀναιρεθέντων δεκαταίων τῶν νεκρῶν ἤδη διεφθαρμένων, ὑγιὴς μὲν ἀνῃρέθη, κομισθεὶς δ' οἴκαδε μέλλων θάπτεσθαι δωδεκαταῖος ἐπὶ τῇ πυρᾷ κείμενος ἀνεβίω, ἀναβιοὺς δ' ἔλεγεν ἃ ἐκεῖ ἴδοι.
«“Ma certamente”, dissi io, «non ti racconterò un apologo di Alcinoo, ma di un uomo valoroso1, Er figlio di Armenio, Panfilio2 di stirpe; ed egli una volta, morto in guerra, quando dopo dieci giorni i cadaveri vennero raccolti ormai decomposti, fu raccolto sano, e trasportato a casa, sul punto di ricevere gli onori funebri, mentre giaceva sulla pira, tornò in vita, e tornato in vita disse le cose che aveva visto».
ἔφη δέ, ἐπειδὴ οὗ ἐκβῆναι, τὴν ψυχὴν πορεύεσθαι [c] μετὰ πολλῶν, καὶ ἀφικνεῖσθαι σφᾶς εἰς τόπον τινὰ δαιμόνιον, ἐν ᾧ τῆς τε γῆς δύ' εἶναι χάσματα ἐχομένω ἀλλήλοιν καὶ τοῦ οὐρανοῦ αὖ ἐν τῷ ἄνω ἄλλα καταντικρύ.
«Disse che, dopo essere uscita dal proprio corpo, l’anima si incamminava insieme a molte, ed esse giungevano in un luogo incantato, nel quale c’erano due voragini della terra contigue tra loro e altre due di fronte in alto del cielo».
δικαστὰς δὲ μεταξὺ τούτων καθῆσθαι, οὕς, ἐπειδὴ διαδικάσειαν, τοὺς μὲν δικαίους κελεύειν πορεύεσθαι τὴν εἰς δεξιάν τε καὶ ἄνω διὰ τοῦ οὐρανοῦ, σημεῖα περιάψαντας τῶν δεδικασμένων ἐν τῷ πρόσθεν, τοὺς δὲ ἀδίκους τὴν εἰς ἀριστεράν τε καὶ κάτω, ἔχοντας καὶ τούτους ἐν τῷ ὄπισθεν σημεῖα πάντων ὧν [d] ἔπραξαν.
«Nella zona di mezzo tra queste stavano assisi dei giudici3, i quali, dopo che avevano emesso le sentenze, ordinavano ai giusti di prendere il cammino verso destra e in alto attraverso il cielo, avendo appeso intorno a loro sulla parte anteriore dei segni delle sentenze pronunciate, mentre agli ingiusti ordinavano di prendere quello a sinistra e in basso, avendo anche questi sulla parte posteriore dei segni di tutte le azioni compiute».
ἑαυτοῦ δὲ προσελθόντος εἰπεῖν ὅτι δέοι αὐτὸν ἄγγελον ἀνθρώποις γενέσθαι τῶν ἐκεῖ καὶ διακελεύοιντό οἱ ἀκούειν τε καὶ θεᾶσθαι πάντα τὰ ἐν τῷ τόπῳ.
«Dopo essersi avvicinato gli dissero che si facesse messaggero agli uomini delle cose di laggiù e gli ordinarono di ascoltare e osservare tutto ciò che avveniva nel luogo».
ὁρᾶν δὴ ταύτῃ μὲν καθ' ἑκάτερον τὸ χάσμα τοῦ οὐρανοῦ τε καὶ τῆς γῆς ἀπιούσας τὰς ψυχάς, ἐπειδὴ αὐταῖς δικασθείη, κατὰ δὲ τὼ ἑτέρω ἐκ μὲν τοῦ ἀνιέναι ἐκ τῆς γῆς μεστὰς αὐχμοῦ τε καὶ κόνεως, ἐκ δὲ τοῦ ἑτέρου καταβαίνειν ἑτέρας ἐκ τοῦ [e] οὐρανοῦ καθαράς.
«Dunque là vedeva che le anime se ne andavano per una delle due voragini sia del cielo sia della terra, dopo che per loro era stata pronunciata la sentenza, mentre per le altre due da una salivano dalla terra piene di sudiciume e polvere, mentre dall’altra scendevano dal cielo pure».
καὶ τὰς ἀεὶ ἀφικνουμένας ὥσπερ ἐκ πολλῆς πορείας φαίνεσθαι ἥκειν, καὶ ἁσμένας εἰς τὸν λειμῶνα ἀπιούσας οἷον ἐν πανηγύρει κατασκηνᾶσθαι, καὶ ἀσπάζεσθαί τε ἀλλήλας ὅσαι γνώριμαι, καὶ πυνθάνεσθαι τάς τε ἐκ τῆς γῆς ἡκούσας παρὰ τῶν ἑτέρων τὰ ἐκεῖ καὶ τὰς ἐκ τοῦ οὐρανοῦ τὰ παρ' ἐκείναις.
«E quelle che via via giungevano parevano essere arrivate da un lungo cammino, e andandosene contente verso il prato si accampavano come in una grande festa, e si salutavano a vicenda quante si conoscevano e si informavano, quelle che erano giunte dalla terra da quelle provenienti dal cielo sulle cose di quel luogo e quelle giunte dal cielo delle cose che riguardavano quelle altre».
διηγεῖσθαι δὲ ἀλλήλαις τὰς [615] [a] μὲν ὀδυρομένας τε καὶ κλαούσας, ἀναμιμνῃσκομένας ὅσα τε καὶ οἷα πάθοιεν καὶ ἴδοιεν ἐν τῇ ὑπὸ γῆς πορείᾳ ‑ εἶναι δὲ τὴν πορείαν χιλιέτη ‑ τὰς δ' αὖ ἐκ τοῦ οὐρανοῦ εὐπαθείας διηγεῖσθαι καὶ θέας ἀμηχάνους τὸ κάλλος.
«Si raccontavano a vicenda le une gemendo e piangendo, nel rammentare quante e quali sofferenze avevano patito e visto nel viaggio sotto terra – era un viaggio di mille anni – mentre quelle venute dal cielo raccontavano godimenti e spettacoli insuperabili per bellezza».
τὰ μὲν οὖν πολλά, ὦ Γλαύκων, πολλοῦ χρόνου διηγήσασθαι· τὸ δ' οὖν κεφάλαιον ἔφη τόδε εἶναι,
«Dunque, o Glaucone4, narrarne la maggior parte richiederebbe molto tempo; comunque disse che l’essenziale era questo,
ὅσα πώποτέ τινα ἠδίκησαν καὶ ὅσους ἕκαστοι, ὑπὲρ ἁπάντων δίκην δεδωκέναι ἐν μέρει, ὑπὲρ ἑκάστου δεκάκις ‑ τοῦτο δ' εἶναι κατὰ ἑκατονταετηρίδα [b] ἑκάστην, ὡς βίου ὄντος τοσούτου τοῦ ἀνθρωπίνου ‑ ἵνα δεκαπλάσιον τὸ ἔκτεισμα τοῦ ἀδικήματος ἐκτίνοιεν,
che per quante ingiustizie mai avesse commesso e per quanti le avevano subite, ciascuno per tutto aveva pagato il fio, a turno, dieci volte per ogni ingiustizia – cioè per un periodo di cento anni per ciascuna, dato che la vita umana è di tale lunghezza – affinché scontassero decuplicato la pena dell’ingiustizia,
καὶ οἷον εἴ τινες πολλοῖς θανάτων ἦσαν αἴτιοι, ἢ πόλεις προδόντες ἢ στρατόπεδα, καὶ εἰς δουλείας ἐμβεβληκότες ἤ τινος ἄλλης κακουχίας μεταίτιοι, πάντων τούτων δεκαπλασίας ἀλγηδόνας ὑπὲρ ἑκάστου κομίσαιντο, καὶ αὖ εἴ τινας εὐεργεσίας εὐεργετηκότες καὶ δίκαιοι καὶ ὅσιοι γεγονότες εἶεν, κατὰ ταὐτὰ [c] τὴν ἀξίαν κομίζοιντο.
e per esempio se alcuni erano colpevoli di morte per molti, o avendo tradito città o eserciti, anche avendoli gettati in schiavitù o perché complici di un’altra malvagità, riportavano per ciascuna di tutte queste cose sofferenze decuplicate, e viceversa se avevano operato dei benefici ed erano stati giusti e pii, secondo il medesimo criterio riportavamo la ricompensa che meritavano.
τῶν δὲ εὐθὺς γενομένων καὶ ὀλίγον χρόνον βιούντων πέρι ἄλλα ἔλεγεν οὐκ ἄξια μνήμης. εἰς δὲ θεοὺς ἀσεβείας τε καὶ εὐσεβείας καὶ γονέας καὶ αὐτόχειρος φόνου μείζους ἔτι τοὺς μισθοὺς διηγεῖτο.
Riguardo invece a quelli che erano appena nati e vivevano per poco tempo disse altre cose che non meritano menzione. Raccontava poi che le ricompense per atti di empietà e pietà verso dèi e genitori e per omicidi di propria mano erano ancora più grandi».
Ἔφη γὰρ δὴ παραγενέσθαι ἐρωτωμένῳ ἑτέρῳ ὑπὸ ἑτέρου ὅπου εἴη Ἀρδιαῖος ὁ μέγας. ὁ δὲ Ἀρδιαῖος οὗτος τῆς Παμφυλίας ἔν τινι πόλει τύραννος ἐγεγόνει, ἤδη χιλιοστὸν ἔτος εἰς ἐκεῖνον τὸν χρόνον, γέροντά τε πατέρα ἀποκτείνας [d] καὶ πρεσβύτερον ἀδελφόν, καὶ ἄλλα δὴ πολλά τε καὶ ἀνόσια εἰργασμένος, ὡς ἐλέγετο. ἔφη οὖν τὸν ἐρωτώμενον εἰπεῖν, "Οὐχ ἥκει," φάναι, "οὐδ' ἂν ἥξει δεῦρο.
«Disse infatti di essersi accostato a un tizio interrogato da un altro su dove fosse il grande Ardieo. Questo Ardieo era stato tiranno in una città della Panfilia, ormai mille anni prima di quel tempo, avendo ucciso il vecchio padre e il fratello maggiore, e avendo compito molti altre empietà, come si diceva. Disse dunque che l’interrogato rispose: “Non è giunto,” affermò, “né potrà giungere qui».
ἐθεασάμεθα γὰρ οὖν δὴ καὶ τοῦτο τῶν δεινῶν θεαμάτων· ἐπειδὴ ἐγγὺς τοῦ στομίου ἦμεν μέλλοντες ἀνιέναι καὶ τἆλλα πάντα πεπονθότες, ἐκεῖνόν τε κατείδομεν ἐξαίφνης καὶ ἄλλους ‑ σχεδόν τι αὐτῶν τοὺς πλείστους τυράννους· ἦσαν δὲ καὶ ἰδιῶταί τινες τῶν [e] μεγάλα ἡμαρτηκότων ‑ οὓς οἰομένους ἤδη ἀναβήσεσθαι οὐκ ἐδέχετο τὸ στόμιον, ἀλλ' ἐμυκᾶτο ὁπότε τις τῶν οὕτως ἀνιάτως ἐχόντων εἰς πονηρίαν ἢ μὴ ἱκανῶς δεδωκὼς δίκην ἐπιχειροῖ ἀνιέναι.
«Vedemmo infatti anche questo tra i terribili spettacoli: dopo che eravamo vicino allo sbocco sul punto di risalire e dopo aver subito tutte le altre pene, scorgemmo quello all’improvviso e altri – la maggior parte di essi più o meno tiranni; c’erano anche dei privati cittadini, di quelli che avevano commesso grandi peccati – i quali, mentre pensavano che ormai sarebbero risaliti, lo sbocco non li accettava, ma muggiva ogni volta che tentava di risalire uno di quelli che erano così inguaribili per malvagità o che non aveva pagato a sufficienza il fio».
ἐθεασάμεθα γὰρ οὖν δὴ καὶ τοῦτο τῶν δεινῶν θεαμάτων· ἐπειδὴ ἐγγὺς τοῦ στομίου ἦμεν μέλλοντες ἀνιέναι καὶ τἆλλα πάντα πεπονθότες, ἐκεῖνόν τε κατείδομεν ἐξαίφνης καὶ ἄλλους ‑ σχεδόν τι αὐτῶν τοὺς πλείστους τυράννους· ἦσαν δὲ καὶ ἰδιῶταί τινες τῶν [e] μεγάλα ἡμαρτηκότων ‑ οὓς οἰομένους ἤδη ἀναβήσεσθαι οὐκ ἐδέχετο τὸ στόμιον, ἀλλ' ἐμυκᾶτο ὁπότε τις τῶν οὕτως ἀνιάτως ἐχόντων εἰς πονηρίαν ἢ μὴ ἱκανῶς δεδωκὼς δίκην ἐπιχειροῖ ἀνιέναι.
«Vedemmo infatti anche questo tra i terribili spettacoli: dopo che eravamo vicino allo sbocco sul punto di risalire e dopo aver subito tutte le altre pene, scorgemmo quello all’improvviso e altri – la maggior parte di essi più o meno tiranni; c’erano anche dei privati cittadini, di quelli che avevano commesso grandi peccati – i quali, mentre pensavano che ormai sarebbero risaliti, lo sbocco non li accettava, ma muggiva ogni volta che tentava di risalire uno di quelli che erano così inguaribili per malvagità o che non aveva pagato a sufficienza il fio».
ἐνταῦθα δὴ ἄνδρες, ἔφη, ἄγριοι, διάπυροι ἰδεῖν, παρεστῶτες καὶ καταμανθάνοντες τὸ φθέγμα, τοὺς μὲν διαλαβόντες ἦγον, τὸν δὲ Ἀρδιαῖον καὶ ἄλλους [616] [a] συμποδίσαντες χεῖράς τε καὶ πόδας καὶ κεφαλήν, καταβαλόντες καὶ ἐκδείραντες, εἷλκον παρὰ τὴν ὁδὸν ἐκτὸς ἐπ' ἀσπαλάθων κνάμπτοντες, καὶ τοῖς ἀεὶ παριοῦσι σημαίνοντες ὧν ἕνεκά τε καὶ ὅτι εἰς τὸν Τάρταρον ἐμπεσούμενοι ἄγοιντο.”
«Là dunque,” disse, “c’erano uomini selvaggi, infuocati a vedersi, che stando nei pressi e comprendendo il muggito, afferrando alcuni li portavano via, mentre Ardieo e altri, dopo aver loro legato mani e piedi e testa, buttatili giù e scuoiatili, li trascinavano lungo la strada fuori dilaniandoli su arbusti spinosi5, e significando a coloro che via via erano presenti per quali scopi e perché fossero portati via per essere precipitati nel Tartaro».
Qui viene descritta la pena di questi criminali totali, tra i quali spicca il tiranno rappresentato da Ardieo. Per Platone il tiranno rappresenta il massimo dell’ingiustizia in quanto nella sua anima prevale l’elemento appetitivo, τό ἐπιθυμητικόν su quello razionale, τὸ λογιτικόν e su quello animoso, τὸ θυμοειδής (sono, rispettivamente, il cavallo nero, l’auriga e il cavallo bianco del mito della biga alata nel Fedro). Così lo descrive Platone (Repubblica, IX, 573c) Τυραννικὸς δέ [...] ἀνὴρ ἀκριβῶς γίγνεται, ὅταν ἢ φύσει ἢ ἐπιτηδεύμασιν ἢ ἀμφοτέροις μεθυστικός τε καὶ ἐρωτικὸς καὶ μελαγχολικὸς γένηται, «Precisamente diventa tirannico un uomo, quando o per natura o per abitudini o entrambi diventa incline all’alcool e al sesso e alla depressione». La sua vita dunque sarà misera (576a): Ἐν παντὶ ἄρα τῷ βίῳ ζῶσι φίλοι μὲν οὐδέποτε οὐδενί, ἀεὶ δέ του δεσπόζοντες ἢ δουλεύοντες ἄλλῳ: ἐλευθερίας δὲ καὶ φιλίας ἀληθοῦς τυραννικὴ φύσις ἀεὶ ἄγευστος, «In tutta la vita dunque vivono amici mai di nessuno, sempre facendo i padroni o gli schiavi di un altro: la natura tirannica non gusta libertà né vera amicizia». In conclusione questa è la natura del tiranno (579d-e): Ἔστιν ἄρα τῇ ἀληθείᾳ, κἂν εἰ μή τῳ δοκεῖ, ὁ τῷ ὄντι τύραννος τῷ ὄντι δοῦλος τὰς μεγίστας θωπείας καὶ δουλείας [e] καὶ κόλαξ τῶν πονηροτάτων, καὶ τὰς ἐπιθυμίας οὐδ' ὁπωστιοῦν ἀποπιμπλάς, ἀλλὰ πλείστων ἐπιδεέστατος καὶ πένης τῇ ἀληθείᾳ φαίνεται, ἐάν τις ὅλην ψυχὴν ἐπίστηται θεάσασθαι, καὶ φόβου γέμων διὰ παντὸς τοῦ βίου, σφαδᾳσμῶν τε καὶ ὀδυνῶν πλήρης, εἴπερ τῇ τῆς πόλεως διαθέσει ἧς ἄρχει ἔοικεν. ἔοικεν δέ, «È dunque in verità, anche se a qualcuno non pare, il vero tiranno un vero schiavo caratterizzato dalle lusinghe e dagli asservimenti più grandi, adulatore dei più malvagi, e incapace di saziare le brame in nessun modo, ma si rivela bisognosissimo di moltissime cose e in verità povero, se uno sa osservare l’anima intera, e zeppo di paura durante tutta la vita, pieno di convulsioni e dolori, se appunto assomiglia alla condizione della città che governa; e vi assomiglia».
Il tiranno è un bersaglio polemico costante, soprattutto tra gli scrittori ateniesi o che hanno aderito alla democrazia ateniese, come Erodoto. Così lo caratterizza per bocca di Otane (III, 80) nel dibattito costituzionale: νόμαιά τε κινέει πάτρια καὶ βιᾶται γυναῖκας κτείνει τε ἀκρίτους, «sovverte le tradizioni patrie e violenta le donne e uccide senza processo». Periandro, divenuto tiranno di Corinto, chiede consiglio a Trasibulo che risponde con un gesto (V, 92ζ): ἐκόλουε αἰεὶ ὅκως τινὰ ἴδοι τῶν ἀσταχύων ὑπερέχοντα, κολούων δὲ ἔρριπτε, ἐς ὃ τοῦ ληίου τὸ κάλλιστόν τε καὶ βαθύτατον διέφθειρε τρόπῳ τοιούτῳ, «recideva tutte le volte che ne vedeva una quella che sporgeva tra le spighe, e recidendole le gettava, finché non ebbe distrutto in tal modo la parte più bella e alta delle messi». Periandro capì che (92η) οἱ ὑπετίθετο Θρασύβουλος τοὺς ὑπερόχους τῶν ἀστῶν φονεύειν, ἐνθαῦτα δὴ πᾶσαν κακότητα ἐξέφαινε ἐς τοὺς πολιήτας· ὅσα γὰρ Κύψελος ἀπέλιπε κτείνων τε καὶ διώκων, Περίανδρός σφεα ἀπετέλεε. Μιῇ δὲ ἡμέρῃ ἀπέδυσε πάσας τὰς Κορινθίων γυναῖκας διὰ τὴν ἑωυτοῦ γυναῖκα Μέλισσαν, «gli suggeriva Trasibulo di uccidere quelli che si distinguevano tra i cittadini, e allora rivelò tutta la malvagità nei confronti loro: quanto infatti Cipselo aveva tralasciato nell’uccidere e nel perseguire, Periandro lo portò a termine. In un solo giorno fece spogliare tutte le donne di Corinto in onore di sua moglie». La mogli, morta, gli era apparsa in una visione dicendo che era nuda e aveva freddo perché non poteva usare le vesti che le avevano messo nel sepolcro. L’episodio, con protagonisti diversi si trova anche in Tito Livio (Ab urbe condita libri, I, 54): qui è Tarquinio il Superbo che dà consigli al figlio: inambulans tacitus summa papaverum capita dicitur baculo decussisse, «passeggiando in silenzio si dice che avesse abbattuto con una verga le cime dei papaveri che spuntavano»; il figlio dunque comprende quid vellet parens quidve praeciperet tacitis ambagibus, «cosa volesse il padre o cosa gli insegnasse con quei misteriosi silenzi» e quindi primores civitatis interemit, «tolse di mezzo i più eminenti della città».
ἔνθα δὴ φόβων, ἔφη, πολλῶν καὶ παντοδαπῶν σφίσι γεγονότων, τοῦτον ὑπερβάλλειν, μὴ γένοιτο ἑκάστῳ τὸ φθέγμα ὅτε ἀναβαίνοι, καὶ ἁσμενέστατα ἕκαστον σιγήσαντος ἀναβῆναι. καὶ τὰς μὲν δὴ δίκας τε καὶ τιμωρίας τοιαύτας τινὰς [b] εἶναι, καὶ αὖ τὰς εὐεργεσίας ταύταις ἀντιστρόφους.
«Qua dunque, disse, tra le molte e varie paure che avevano patito, questa le superava, cioè che ci fosse per ciascuno, di volta in volta, la voce quando risalissero, e quando taceva ciascuno risaliva nella massima letizia. E tali erano in certo modo i giudizi e le punizioni, e viceversa i benfici corrispondenti a queste».
ἐπειδὴ δὲ τοῖς ἐν τῷ λειμῶνι ἑκάστοις ἑπτὰ ἡμέραι γένοιντο, ἀναστάντας ἐντεῦθεν δεῖν τῇ ὀγδόῃ πορεύεσθαι, καὶ ἀφικνεῖσθαι τεταρταίους ὅθεν καθορᾶν ἄνωθεν διὰ παντὸς τοῦ οὐρανοῦ καὶ γῆς τεταμένον φῶς εὐθύ, οἷον κίονα, μάλιστα τῇ ἴριδι προσφερῆ, λαμπρότερον δὲ καὶ καθαρώτερον·
«Dopo che furono trascorsi sette giorni per ciascuno di quelli che erano nel prato, alzatisi da lì dovevano all’ottavo incamminarsi, e giungere dopo quattro giorni in un luogo da cui scorgevano dall’alto attraverso tutto il cielo e la terra una luce tesa, dritta come una colonna, del tutto simile all’arcobaleno, ma più brillante e pura».
εἰς ὃ ἀφικέσθαι προελθόντες ἡμερησίαν ὁδόν, καὶ ἰδεῖν αὐτόθι κατὰ [c] μέσον τὸ φῶς ἐκ τοῦ οὐρανοῦ τὰ ἄκρα αὐτοῦ τῶν δεσμῶν τεταμένα ─ εἶναι γὰρ τοῦτο τὸ φῶς σύνδεσμον τοῦ οὐρανοῦ, οἷον τὰ ὑποζώματα τῶν τριήρων, οὕτω πᾶσαν συνέχον τὴν περιφοράν – ἐκ δὲ τῶν ἄκρων τεταμένον Ἀνάγκης ἄτρακτον, δι' οὗ πάσας ἐπιστρέφεσθαι τὰς περιφοράς·
«E a questa giungevano procedendo per un cammino di un giorno, e là videro dal centro della luce tendersi dal cielo le estremità dei legami di questo – era infatti questa luce il collegamento del cielo, come le fasciature delle triremi, tenendone così unito il moto di rivoluzione – e dalle estremità tendersi il fuso di Ananke6, mediante il quale avvengono tutti i moti di rivoluzione».
A questo punto viene descritto il fusaiolo7, che è formato da otto dischi concentrici; il fuso gira sulle ginocchia di Ananke e otto Sirene stando ciascuna sopra uno degli otto fusaioli concentrici emettono una sola nota a testa; dalla fusione di queste note si forma una splendida armonia alla quale si aggiungono le tre Moire, figlie di Ananke, ciascuna su un trono: Lachesi cantando il passato, Cloto il presente, Atropo il futuro.
σφᾶς οὖν, ἐπειδὴ ἀφικέσθαι, εὐθὺς δεῖν ἰέναι πρὸς τὴν Λάχεσιν. προφήτην οὖν τινα σφᾶς πρῶτον μὲν ἐν τάξει διαστῆσαι, ἔπειτα λαβόντα ἐκ τῶν τῆς Λαχέσεως γονάτων κλήρους τε καὶ βίων παραδείγματα, ἀναβάντα ἐπί τι βῆμα ὑψηλὸν εἰπεῖν ‑
«Dunque, dopo essere giunte [le anime], subito dovevano andare da Lachesi. Allora un araldo per prima cosa le disponeva in ordine, poi dopo aver preso dalle ginocchia di Lachesi sorti8 e modelli di vite, salito su un’alta tribuna, disse:»
"Ἀνάγκης θυγατρὸς κόρης Λαχέσεως λόγος. Ψυχαὶ ἐφήμεροι, ἀρχὴ ἄλλης περιόδου θνητοῦ γένους θανατηφόρου. [e] οὐχ ὑμᾶς δαίμων λήξεται, ἀλλ' ὑμεῖς δαίμονα αἱρήσεσθε. πρῶτος δ' ὁ λαχὼν πρῶτος αἱρείσθω βίον ᾧ συνέσται ἐξ ἀνάγκης. ἀρετὴ δὲ ἀδέσποτον, ἣν τιμῶν καὶ ἀτιμάζων πλέον καὶ ἔλαττον αὐτῆς ἕκαστος ἕξει. αἰτία ἑλομένου· θεὸς ἀναίτιος.»
«“Parola di Lachesi vergine figlia di Ananke. Anime effimere, è il principio di un altro periodo del genere mortale portatore di morte. Non il dio sorteggerà voi, ma voi sceglierete il dio. Il primo sorteggiato scelga per primo una vita con cui sarà unito per necessità. La virtù è senza padrone, virtù che ciascuno avrà di più e di meno a seconda che la onori o la disprezzi. La responsabilità9 è di chi ha scelto: il dio è irresponsabile”».
Ταῦτα εἰπόντα ῥῖψαι ἐπὶ πάντας τοὺς κλήρους, τὸν δὲ παρ' αὑτὸν πεσόντα ἕκαστον ἀναιρεῖσθαι πλὴν οὗ, ἓ δὲ οὐκ ἐᾶν· τῷ δὲ ἀνελομένῳ δῆλον εἶναι ὁπόστος εἰλήχει.
«Dette queste cose gettò davanti tutti le sorti, e ciascuno raccoglieva quella caduta presso di lui, tranne quello (Er), non glielo permettevano. Ma a chi la raccoglieva era chiaro in che ordine era stato sorteggiato».
[618] [a] μετὰ δὲ τοῦτο αὖθις τὰ τῶν βίων παραδείγματα εἰς τὸ πρόσθεν σφῶν θεῖναι ἐπὶ τὴν γῆν, πολὺ πλείω τῶν παρόντων. εἶναι δὲ παντοδαπά· ζῴων τε γὰρ πάντων βίους καὶ δὴ καὶ τοὺς ἀνθρωπίνους ἅπαντας. τυραννίδας τε γὰρ ἐν αὐτοῖς εἶναι, τὰς μὲν διατελεῖς, τὰς δὲ καὶ μεταξὺ διαφθειρομένας καὶ εἰς πενίας τε καὶ φυγὰς καὶ εἰς πτωχείας τελευτώσας·
Dopo ciò di nuovo poneva a terra davanti a loro i modelli delle vite, in numero molto superiore ai presenti. Erano di vario tipo: vite infatti di tutti gli animali e anche tutte quelle umane. In esse infatti c’erano tirannidi, alcune portate a termine, altre andate in rovina a metà del persorso andate a finire in povertà, esilio e miseria;»
εἶναι δὲ καὶ δοκίμων ἀνδρῶν βίους, τοὺς μὲν ἐπὶ εἴδεσιν καὶ κατὰ κάλλη καὶ τὴν ἄλλην ἰσχύν [b] τε καὶ ἀγωνίαν, τοὺς δ' ἐπὶ γένεσιν καὶ προγόνων ἀρεταῖς, καὶ ἀδοκίμων κατὰ ταῦτα, ὡσαύτως δὲ καὶ γυναικῶν. ψυχῆς δὲ τάξιν οὐκ ἐνεῖναι διὰ τὸ ἀναγκαίως ἔχειν ἄλλον ἑλομένην βίον ἀλλοίαν γίγνεσθαι· τὰ δ' ἄλλα ἀλλήλοις τε καὶ πλούτοις καὶ πενίαις, τὰ δὲ νόσοις, τὰ δ' ὑγιείαις μεμεῖχθαι, τὰ δὲ καὶ μεσοῦν τούτων.
«c’erano anche vite di uomini illustri, alcuni per l’aspetto, secondo bellezza o un’altra forma di vigore atletico, altri per stirpe e virtù degli antenati, e vite di uomini oscuri secondo questi criteri, analogamente anche di donne. Non vi era una graduatoria di anima per il fatto che era necessario diventare diversa scegliendo una vita di un tipo o di un altro; il resto era misto di ricchezze e povertà, una parte di malattie, un’altra di salute, un’altra ancora era una via di mezzo tra queste».
ἔνθα δή, ὡς ἔοικεν, ὦ φίλε Γλαύκων, ὁ πᾶς κίνδυνος ἀνθρώπῳ, καὶ διὰ ταῦτα μάλιστα [c] ἐπιμελητέον ὅπως ἕκαστος ἡμῶν τῶν ἄλλων μαθημάτων ἀμελήσας τούτου τοῦ μαθήματος καὶ ζητητὴς καὶ μαθητὴς ἔσται, ἐάν ποθεν οἷός τ' ᾖ μαθεῖν καὶ ἐξευρεῖν τίς αὐτὸν ποιήσει δυνατὸν καὶ ἐπιστήμονα, βίον καὶ χρηστὸν καὶ πονηρὸν διαγιγνώσκοντα, τὸν βελτίω ἐκ τῶν δυνατῶν ἀεὶ πανταχοῦ αἱρεῖσθαι·
«Qui, pertanto, oh caro Glaucone, c’è tutto il rischio10 per un uomo, e per questo bisogna fare la massima attenzione che ciascuno di noi, trascurando gli altri apprendimenti, sia ricercatore e studioso di questo apprendimento, cioè se mai sia in grado di capire e trovare chi lo renderà capace e sapiente, distinguendo una vita buona e cattiva, nel scegliere sempre in ogni circostanza quella migliore tra le possibili».
Questo è uno degli snodi concettuali: qui infatti Socrate sospende la narrazione e si rivolge a Glaucone direttamente per porre l’accento sulla riflessione.
Il punto è qui secondo me l’importanza che riveste la παιδεία, «l’educazione» e la figura del maestro. Mi pare di notare, nell’enfasi posta qui, l’affetto, la stima, la riconoscenza e, in una parola, l’ammirazione di Platone per il suo maestro: insomma, un tributo dovuto, condito di malinconia per il modo della sua morte, che evidentemente «ancor l’offende11». A tal proposito è interessante il finale del mito della caverna in cui Socrate si immagina la fine che farebbe uno che, liberatosi dalle catene dell’apparenza, volesse provare a liberare anche gli altri (Repubblica, VII, 517a): καὶ τὸν ἐπιχειροῦντα λύειν τε καὶ ἀνάγειν, εἴ πως ἐν ταῖς χερσὶ δύναιντο λαβεῖν καὶ ἀποκτείνειν, ἀποκτεινύναι ἄν; «e colui che tentasse di liberarli e condurli su, se mai potessero prenderlo tra le mani e ucciderlo, non lo ucciderebbero12 ?».
Sull’importanza del maestro si sofferma anche Seneca, nel De vita beata, 1:
Quam diu quidem passim uagamur non ducem secuti sed fremitum et clamorem dissonum in diuersa uocantium, conteretur uita inter errores breuis, etiam si dies noctesque bonae menti laboremus.
«Di certo finché vaghiamo qua e là seguendo non una guida ma il brusío e le grida dissonanti di quelli che ci chiamano in direzioni opposte, la vita si consumerà e tra gli errori sarà breve, anche se ci sforzassimo giorno e notte per una buona mente».
«Decernatur itaque et quo tendamus et qua, non sine perito aliquo cui explorata sint ea in quae procedimus, quoniam quidem non eadem hic quae in ceteris peregrinationibus condicio est: in illis comprensus aliquis limes et interrogati incolae non patiuntur errare at hic tritissima quaeque uia et celeberrima maxime decipit.
«Si stabilisca dunque sia dove tendere sia per dove, non senza una persona esperta13 per cui siano stati esplorati quei campi verso cui procediamo, perché certamente qui la condizione non è la medesima che negli altri viaggi: in quelli un sentiero riconosciuto e gli abitanti interrogati non consentono di sbagliare strada, mentre qui tutte le vie più sono battute e frequentate più traggono in inganno».
ἀναλογιζόμενον πάντα τὰ νυνδὴ ῥηθέντα καὶ συντιθέμενα ἀλλήλοις καὶ διαιρούμενα πρὸς ἀρετὴν βίου πῶς ἔχει, εἰδέναι τί κάλλος πενίᾳ ἢ πλούτῳ κραθὲν καὶ [d] μετὰ ποίας τινὸς ψυχῆς ἕξεως κακὸν ἢ ἀγαθὸν ἐργάζεται, καὶ τί εὐγένειαι καὶ δυσγένειαι καὶ ἰδιωτεῖαι καὶ ἀρχαὶ καὶ ἰσχύες καὶ ἀσθένειαι καὶ εὐμαθίαι καὶ δυσμαθίαι καὶ πάντα τὰ τοιαῦτα τῶν φύσει περὶ ψυχὴν ὄντων καὶ τῶν ἐπικτήτων τί συγκεραννύμενα πρὸς ἄλληλα ἐργάζεται, ὥστε ἐξ ἁπάντων αὐτῶν δυνατὸν εἶναι συλλογισάμενον αἱρεῖσθαι, πρὸς τὴν τῆς ψυχῆς φύσιν ἀποβλέποντα, τόν τε χείρω καὶ τὸν ἀμείνω [e] βίον, χείρω μὲν καλοῦντα ὃς αὐτὴν ἐκεῖσε ἄξει, εἰς τὸ ἀδικωτέραν γίγνεσθαι, ἀμείνω δὲ ὅστις εἰς τὸ δικαιοτέραν.
«Ragionando su come si rapportino tutte le cose ora dette, sia collegate tra loro sia distinte, con la virtù della vita, bisogna sapere quale bene o male produce la bellezza unita a povertà o ricchezza, e cosa nobiltà e ignobiltà di nascita, attività private e incarichi di governo, forza e debolezza, docilità e ottusità e tutte le cose siffatte, tra quelle che riguardano per natura l’anima e quelle acquisite, cosa producono mescolate tra loro, così da essere capaci, tratte le deduzioni da tutti questi fattori14 , di scegliere, guardando alla natura dell’anima, la vita peggiore e quella migliore, chiamando peggiore quella che la condurrà là, ad essere cioè più ingiusta, migliore invece ad essere più giusta».
τὰ δὲ ἄλλα πάντα χαίρειν ἐάσει· ἑωράκαμεν γὰρ ὅτι ζῶντί τε καὶ τελευτήσαντι αὕτη κρατίστη αἵρεσις. ἀδαμαντίνως δὴ [619] [a] δεῖ ταύτην τὴν δόξαν ἔχοντα εἰς Ἅιδου ἰέναι, ὅπως ἂν ᾖ καὶ ἐκεῖ ἀνέκπληκτος ὑπὸ πλούτων τε καὶ τῶν τοιούτων κακῶν, καὶ μὴ ἐμπεσὼν εἰς τυραννίδας καὶ ἄλλας τοιαύτας πράξεις πολλὰ μὲν ἐργάσηται καὶ ἀνήκεστα κακά, ἔτι δὲ αὐτὸς μείζω πάθῃ, ἀλλὰ γνῷ τὸν μέσον ἀεὶ τῶν τοιούτων βίον αἱρεῖσθαι καὶ φεύγειν τὰ ὑπερβάλλοντα ἑκατέρωσε καὶ ἐν τῷδε τῷ βίῳ κατὰ τὸ δυνατὸν καὶ ἐν παντὶ τῷ ἔπειτα· οὕτω γὰρ [b] εὐδαιμονέστατος γίγνεται ἄνθρωπος.
«Tutto il resto bisogna lasciarlo perdere: abbiamo visto infatti che sia per un vivo sia per un morto questa è la scelta più importante. Pertanto bisogna andare nell’Ade mantenendo con ferrea determinazione questa opinione, per essere anche là imperturbabile davanti a ricchezze a mali siffatti, per non commettere, caduto nella tirannide e altre azioni siffatte, molti e inguaribili infamie, e subirne di maggiori in prima persona, ma per sapere scegliere sempre la vita mediana tra queste e evitare gli eccessi da una parte e dall’altra sia in questa vita per quanto è possibile sia in tutto il tempo a venire: così infatti l’uomo diventa sommamente felice15 ».
Καὶ δὴ οὖν καὶ τότε ὁ ἐκεῖθεν ἄγγελος ἤγγελλε τὸν μὲν προφήτην οὕτως εἰπεῖν· "Καὶ τελευταίῳ ἐπιόντι, ξὺν νῷ ἑλομένῳ, συντόνως ζῶντι κεῖται βίος ἀγαπητός, οὐ κακός. μήτε ὁ ἄρχων αἱρέσεως ἀμελείτω μήτε ὁ τελευτῶν ἀθυμείτω.»
«E anche allora il messaggero che veniva da laggiù riferiva che l’araldo così disse: “Anche per chi arriva per ultimo, se sceglie con senno, vivendo secondo una stretta disciplina, è a disposizione una vita desiderabile, non cattiva. Né chi inizia la scelta sia trascurato né l’ultimo si scoraggi”».
Εἰπόντος δὲ ταῦτα τὸν πρῶτον λαχόντα ἔφη εὐθὺς ἐπιόντα τὴν μεγίστην τυραννίδα ἑλέσθαι, καὶ ὑπὸ ἀφροσύνης τε καὶ λαιμαργίας οὐ πάντα ἱκανῶς ἀνασκεψάμενον ἑλέσθαι, ἀλλ' [c] αὐτὸν λαθεῖν ἐνοῦσαν εἱμαρμένην παίδων αὑτοῦ βρώσεις καὶ ἄλλα κακά· ἐπειδὴ δὲ κατὰ σχολὴν σκέψασθαι, κόπτεσθαί τε καὶ ὀδύρεσθαι τὴν αἵρεσιν, οὐκ ἐμμένοντα τοῖς προρρηθεῖσιν ὑπὸ τοῦ προφήτου· οὐ γὰρ ἑαυτὸν αἰτιᾶσθαι τῶν κακῶν, ἀλλὰ τύχην τε καὶ δαίμονας καὶ πάντα μᾶλλον ἀνθ' ἑαυτοῦ.
«Dopo che quello ebbe detto queste cose, (Er) disse che il primo sorteggiato subito andava a scegliere la più grande tirannide, e per stoltezza e avidità scelse senza aver considerato tutto a sufficienza, ma gli sfuggì che era contenuto il destino di divorare i propri figli e altri mali: dopo che ebbe esaminato con calma, si batteva e si lamentava della scelta, non attenendosi alle parole dette prima dall’araldo: infatti non incolpava se stesso dei mali, ma la sorte e gli dèi e tutto tranne se stesso».
εἶναι δὲ αὐτὸν τῶν ἐκ τοῦ οὐρανοῦ ἡκόντων, ἐν τεταγμένῃ πολιτείᾳ ἐν τῷ προτέρῳ βίῳ βεβιωκότα, ἔθει [d] ἄνευ φιλοσοφίας ἀρετῆς μετειληφότα.
«Era egli di quelli che erano giunti dal cielo, che aveva vissuto nella vita precedente in una costituzione ben ordinata, che aveva partecipato della virtù per abitudine senza filosofia».
ὡς δὲ καὶ εἰπεῖν, οὐκ ἐλάττους εἶναι ἐν τοῖς τοιούτοις ἁλισκομένους τοὺς ἐκ τοῦ οὐρανοῦ ἥκοντας, ἅτε πόνων ἀγυμνάστους· τῶν δ' ἐκ τῆς γῆς τοὺς πολλούς, ἅτε αὐτούς τε πεπονηκότας ἄλλους τε ἑωρακότας, οὐκ ἐξ ἐπιδρομῆς τὰς αἱρέσεις ποιεῖσθαι.
«E, per così dire, non erano in numero minore a essere colti in tali situazioni coloro che erano giunti dal cielo, in quanto non allenati alle sofferenze; invece i più tra quelli che erano arrivati dalla terra, siccome avevano sofferto essi stessi e avevano visto altri (soffrire), facevano le scelte non di fretta».
Qui è espresso il topos del πάθει μάθος, la cui formulazione con queste efficaci parole risale a Eschilo, Agamennone, 177, ma si trova in molti altri autori:
Esiodo, Opere e giorni, vv. 217-218
δίκη δ' ὑπὲρ ὕβριος ἴσχει
ἐς τέλος ἐξελθοῦσα· παθὼν δέ τε νήπιος ἔγνω.
«Ma giustizia prevale sulla prepotenza, / quando alla fine arriva; anche uno stolto comprende soffrendo».
Eschilo, Agamennone, 177
Ζῆνα δέ τις προφρόνως ἐπινίκια κλάζων
τεύξεται φρενῶν τὸ πᾶν,
τὸν φρονεῖν βροτοὺς ὁδώ-
σαντα, τὸν πάθει μάθος
θέντα κυρίως ἔχειν.
«Chi intona a Zeus con gioia il canto della vittoria / otterrà in tutto saggezza, / Zeus che ha avviato i mortali ad essere saggi, / che ha stabilito come legge principale / attraverso la sofferenza la comprensione».
Eschilo, Prometeo, 391
ἡ σή, Προμηθεῦ, συμφορὰ διδάσκαλος
«La tua disgrazia, Prometeo, è maestra».
Sofocle, Edipo a Colono, 567-68
ἔξοιδ’ ἀνὴρ ὢν χὤτι τῆς ἐς αὔριον
οὐδὲν πλέον μοι σοῦ μέτεστιν ἡμέρας.
«So di essere un uomo e che il giorno di / domani non appartiene affatto più a me che a te».
Un’affermazione di umanesimo esemplare, come quella di Antigone:
Sofocle, Antigone, 523
Οὔτοι συνέχθειν, ἀλλὰ συμφιλεῖν ἔφυν.
«Sono nata per condividere non certo l’odio, ma l’amore».
Euripide, Medea, 34
ἔγνωκε δ' ἡ τάλαινα συμφορᾶς ὕπο
«Ha compreso l'infelice dalla disgrazia»
Euripide, Alcesti, 940
ἄρτι μανθάνω
«ora comprendo»
Questa di Admeto nell’Alcesti è una resipiscenza tardiva, dopo essersi pentito per aver fatto morire la moglie al posto suo.
Polibio, Storie, I, 35, 7
δυεῖν γὰρ ὄντων τρόπων πᾶσιν ἀνθρώποις τῆς ἐπὶ τὸ βέλτιον μεταθέσεως, τοῦ τε διὰ τῶν ἰδίων συμπτωμάτων καὶ τοῦ διὰ τῶν ἀλλοτρίων, ἐναργέστερον μὲν εἶναι συμβαίνει τὸν διὰ τῶν οἰκείων περιπετειῶν, ἀβλαβέστερον δὲ τὸν διὰ τῶν ἀλλοτρίων.
«Essendo infatti due i modi del cambiamento in meglio per tutti gli uomini, uno attraverso le sventure proprie e l'altro attraverso quelle altrui, succede che sia più evidente (efficace) quello attraverso le peripezie personali, ma meno dannoso quello attraverso le peripezie altrui».
Didone ne è un altro esempio, commovente in quanto Enea non ricambia la sua umanità. Quando il Troiano, bisognoso di aiuto, le si presenta così lei lo conforta:
Eneide, 630
Non ignara mali, miseris succurrere disco.
«Non ignara del male, imparo a soccorrere i miseri».
Queste invece le ultime parole di Enea a Didone viva (EneideI, IV, vv. 360-361):
Desine meque tuis incendere teque querelis:
Italiam non sponte sequor.
«Smettila di infiammare me e te con le tue lamentele: / non di mia volontà seguo l’Italia».
Nietzsche, Umano, troppo umano, I
Parte terza, La vita religiosa
109. Dolore è conoscenza. Ora la tragedia è questa, che non si può credere a quei dogmi della religione e della metafisica, se si porta nel cuore e nella mente il severo metodo della verità, e d'altra parte si è divenuti attraverso l'evoluzione dell'umanità così delicati, eccitabili e sofferenti, da aver bisogno di mezzi di salute e di consolazione della più alta specie; dal che sorge quindi il pericolo che l'uomo si dissangui sulla verità conosciuta. Ciò esprime Byron in versi immortali:
Sorrow is knowledge: they who know the most
Must mourn the deepest o’er the fatal truth,
The Tree of Knowledge is not that of life.16
Contro tali cure, nessun mezzo giova più dell'evocare, almeno per le ore più tristi e buie dell'anima, la solenne leggerezza di Orazio, e del dire a se stessi con lui:
quid aeternis minorem
consiliis animum fatigas?
Cur non sub alta vel platano vel hac
pinu iacentes...17
[...] Quei dolori possono essere veramente penosi, ma senza dolori non si può diventare una guida e un educatore dell'umanità.
Nietzsche, Umano, troppo umano, II
Parte prima, Opinioni e sentenze
48. Aver molta gioia. Chi ha molta gioia, dev'essere un brav'uomo: ma forse non è il più intelligente, benché raggiunga proprio ciò che il più intelligente con tutta la sua intelligenza cerca di raggiungere.
Nietzsche, La gaia scienza, libro primo
13. Per la teoria del sentimento di potenza. … il dolore si pone sempre il problema della causa, mentre il piacere tende ad arrestarsi su se stesso e a non guardarsi indietro.
Nietzsche, Genealogia della morale
seconda dissertazione, «colpa», «cattiva coscienza» e simili, 3
«Si incide a fuoco qualcosa affinché resti nella memoria: soltanto quel che non cessa di dolorare resta nella memoria» – è questo un assioma della più antica (purtroppo anche più longeva) psicologia sulla terra…
διὸ δὴ καὶ μεταβολὴν τῶν κακῶν καὶ τῶν ἀγαθῶν ταῖς πολλαῖς τῶν ψυχῶν γίγνεσθαι καὶ διὰ τὴν τοῦ κλήρου τύχην· ἐπεὶ εἴ τις ἀεί, ὁπότε εἰς τὸν ἐνθάδε βίον ἀφικνοῖτο, ὑγιῶς φιλοσοφοῖ [e] καὶ ὁ κλῆρος αὐτῷ τῆς αἱρέσεως μὴ ἐν τελευταίοις πίπτοι, κινδυνεύει ἐκ τῶν ἐκεῖθεν ἀπαγγελλομένων οὐ μόνον ἐνθάδε εὐδαιμονεῖν ἄν, ἀλλὰ καὶ τὴν ἐνθένδε ἐκεῖσε καὶ δεῦρο πάλιν πορείαν οὐκ ἂν χθονίαν καὶ τραχεῖαν πορεύεσθαι, ἀλλὰ λείαν τε καὶ οὐρανίαν.
«Perciò si verificava uno scambio di mali e di beni per molte anime anche per la casualità del sorteggio; perché se uno, tutte le volte che giungesse nella vita di qua, praticasse una sana filosofia e il sorteggio della scelta per lui non cadesse tra gli ultimi, c’è il rischio, stando alle cose che da lì vengono riferite, non solo di poter essere felici là, ma anche che il cammino da qua a là e di di nuovo qui possa essere percorso non sotterraneo e aspro, ma piano e celeste».
Ταύτην γὰρ δὴ ἔφη τὴν θέαν ἀξίαν εἶναι ἰδεῖν, ὡς ἕκασται [620] [a] αἱ ψυχαὶ ᾑροῦντο τοὺς βίους· ἐλεινήν τε γὰρ ἰδεῖν εἶναι καὶ γελοίαν καὶ θαυμασίαν. κατὰ συνήθειαν γὰρ τοῦ προτέρου βίου τὰ πολλὰ αἱρεῖσθαι.
«Infatti, disse, era questo uno spettacolo degno a vedersi, come ciascuna anima sceglieva le vite: era infatti pietoso a vedersi e ridicolo e meraviglioso. Infatti sceglievano per lo più secondo la consuetudine della vita precedente».
ἰδεῖν μὲν γὰρ ψυχὴν ἔφη τήν ποτε Ὀρφέως γενομένην κύκνου βίον αἱρουμένην, μίσει τοῦ γυναικείου γένους διὰ τὸν ὑπ' ἐκείνων θάνατον οὐκ ἐθέλουσαν ἐν γυναικὶ γεννηθεῖσαν γενέσθαι· ἰδεῖν δὲ τὴν Θαμύρου ἀηδόνος ἑλομένην· ἰδεῖν δὲ καὶ κύκνον μεταβάλλοντα εἰς ἀνθρωπίνου βίου αἵρεσιν, καὶ ἄλλα ζῷα μουσικὰ ὡσαύτως.
«Disse, infatti, di aver visto l’anima che un tempo era stata di Orfeo scegliere una vita di cigno, per odio del genere femminile dovuto alla morte per mano di quelle non volendo nascere generata in una donna; vide quella di Tamiri scegliere una vita di usignolo; vide anche un cigno fare la scelta cambiando in una vita umana, e altri animali musici allo stesso modo».
[b] εἰκοστὴν δὲ λαχοῦσαν ψυχὴν ἑλέσθαι λέοντος βίον· εἶναι δὲ τὴν Αἴαντος τοῦ Τελαμωνίου, φεύγουσαν ἄνθρωπον γενέσθαι, μεμνημένην τῆς τῶν ὅπλων κρίσεως. τὴν δ' ἐπὶ τούτῳ Ἀγαμέμνονος· ἔχθρᾳ δὲ καὶ ταύτην τοῦ ἀνθρωπίνου γένους διὰ τὰ πάθη ἀετοῦ διαλλάξαι βίον. ἐν μέσοις δὲ λαχοῦσαν τὴν Ἀταλάντης ψυχήν, κατιδοῦσαν μεγάλας τιμὰς ἀθλητοῦ ἀνδρός, οὐ δύνασθαι παρελθεῖν, ἀλλὰ λαβεῖν.
«C’era poi quella di Aiace Telamonio, che fuggiva dall’essere uomo, ricordandosi del giudizio delle armi; quella dopo questa era di Agamennone: anch’essa per odio della stirpe umana a causa delle sofferenze, fece a cambio con una vita di aquila. Sorteggiata tra quelli a metà l’anima di Atalanta, scorgendo i grandi onori di un atleta, non poté andare oltre ma li prese».
Aiace è un personaggio dell’Ade anche in Odissea, XI, vv. 542-564.
Ulisse ha evocato i morti per consultare Tiresia e incontra una serie di anime tra cui quella di sua madre e quella di Achille. Però ce n'è una che sta in disparte (543-544):
οἴη δ᾽ Αἴαντος ψυχὴ Τελαμωνιάδαο
νόσφιν ἀφεστήκει, κεχολωμένη εἵνεκα νίκης
«solo l'anima di Aiace Telamonio, restava in disparte, in collera per la vittoria»
Il motivo è che Ulisse era riuscito a sottrargli con l'inganno le armi di Achille, che dovevano andare in premio al più valoroso dopo Achille. In effetti poi Aiace si suicida perché, come dice nell'omonima tragedia di Sofocle ai vv. 479-80:
ἀλλ' ἢ καλῶς ζῆν ἢ καλῶς τεθνηκέναι
τὸν εὐγενῆ χρή. Πάντ' ἀκήκοας λόγον.
«Ma è necessario che il nobile o viva nella bellezza / o nella bellezza muoia. Hai ascoltato tutto il discorso».
Allora il figlio di Laerte racconta ad Alcinoo che (552):
τὸν μὲν ἐγὼν ἐπέεσσι προσηύδων μειλιχίοισιν
«con parole di miele io mi rivolsi a lui».
Ma (563-564):
ὣς ἐφάμην, ὁ δέ μ᾽ οὐδὲν ἀμείβετο, βῆ δὲ μετ᾽ ἄλλας
ψυχὰς εἰς Ἔρεβος νεκύων κατατεθνηώτων
«Come dissi, quello niente rispose, ma se ne andò nell'Erebo con le altre anime dei cadaveri dei morti».
L’episodio è ripreso da Virgilio nel VI canto dell’Eneide quando la incontra agli inferi e le dice: invitus, regina, tuo de litore cessi, «senza volerlo regina mi sono allontanato dalla tua spiaggia» (v. 460). Quindi Enea cerca di interloquire in qualche modo ma Didone illa solo fixos ocuols aversa tenebat, «ella teneva gli occhi fissi al suolo, girata dall'altra parte».
L’autore del trattato Sul sublime, al capitolo 9, commenta il passo omerico. Viene definito il concetto di «sublime» in arte, che è connesso alla prima fonte, la più importante, qui chiamata τὸ μεγαλοφυές, «grandezza d’animo/magnanimità»: ebbene il sublime si configura come μεγαλοφροσύνης ἀπήχημα, «eco di un alto sentire». Perciò, continua, «il nudo pensiero, separato dalla voce, in qualche modo è ammirato di per sé, perché è in sé alto sentire ὡς ἡ τοῦ Αἴαντος ἐν Νέκυια σιωπὴ μέγα καὶ παντός ὑψηλότερον λόγου, «come il silenzio di Aiace nella Νέκυια, grande e più sublime di qualsiasi discorso».
μετὰ [c] δὲ ταύτην ἰδεῖν τὴν Ἐπειοῦ τοῦ Πανοπέως εἰς τεχνικῆς γυναικὸς ἰοῦσαν φύσιν· πόρρω δ' ἐν ὑστάτοις ἰδεῖν τὴν τοῦ γελωτοποιοῦ Θερσίτου πίθηκον ἐνδυομένην.
Dopo questa vide quella di Epeo, figlio di Panopeo, andare verso una natura di donna artigiana; lontano tra gli ultimi vide l’anima del buffone Tersite assumere (la natura di) una scimmia».
κατὰ τύχην δὲ τὴν Ὀδυσσέως λαχοῦσαν πασῶν ὑστάτην αἱρησομένην ἰέναι, μνήμῃ δὲ τῶν προτέρων πόνων φιλοτιμίας λελωφηκυῖαν ζητεῖν περιιοῦσαν χρόνον πολὺν βίον ἀνδρὸς ἰδιώτου ἀπράγμονος, καὶ μόγις εὑρεῖν κείμενόν που καὶ παρημελημένον [d] ὑπὸ τῶν ἄλλων, καὶ εἰπεῖν ἰδοῦσαν ὅτι τὰ αὐτὰ ἂν ἔπραξεν καὶ πρώτη λαχοῦσα, καὶ ἁσμένην ἑλέσθαι.
«L’anima di Ulisse andava a scegliere sorteggiata per case ultima tra tutte, ma per ricordo delle precedenti sofferenze, guarita dall’ambizione18, cercava andando in giro per molto tempo una vita di un uomo privato sfaccendato, e a stento la trovò che giaceva da qualche parte e trascurata dagli altri, e disse vedendola che avrebbe fatto la stessa scelta anche sorteggiata per prima, e la prese contenta».
καὶ ἐκ τῶν ἄλλων δὴ θηρίων ὡσαύτως εἰς ἀνθρώπους ἰέναι καὶ εἰς ἄλληλα, τὰ μὲν ἄδικα εἰς τὰ ἄγρια, τὰ δὲ δίκαια εἰς τὰ ἥμερα μεταβάλλοντα, καὶ πάσας μείξεις μείγνυσθαι.
«E tra le altre fiere così [le anime] andavano verso uomini e le une verso le altre, cambiando quelle ingiuste verso nature selvagge, quelle giuste verso nature miti, e tutte le mescolanze si mescolavano».
ὃν πρῶτον μὲν ἄγειν αὐτὴν πρὸς τὴν Κλωθὼ ὑπὸ τὴν ἐκείνης χεῖρά τε καὶ ἐπιστροφὴν τῆς τοῦ ἀτράκτου δίνης, κυροῦντα ἣν λαχὼν εἵλετο μοῖραν· ταύτης δ' ἐφαψάμενον αὖθις ἐπὶ τὴν τῆς Ἀτρόπου ἄγειν νῆσιν, ἀμετάστροφα τὰ ἐπικλωσθέντα ποιοῦντα·
«E questo innanzitutto la conduceva da Cloto, per confermare, sotto la mano di lei e sotto il volgersi del giro del fuso, il destino che, sorteggiato, scelse; dopo aver toccato questa, la conduceva dal filo di Atropo, per rendere immutabile ciò che era stato filato;»
ἐντεῦθεν δὲ δὴ ἀμεταστρεπτὶ ὑπὸ τὸν τῆς [621] [a] Ἀνάγκης ἰέναι θρόνον, καὶ δι' ἐκείνου διεξελθόντα, ἐπειδὴ καὶ οἱ ἄλλοι διῆλθον, πορεύεσθαι ἅπαντας εἰς τὸ τῆς Λήθης πεδίον διὰ καύματός τε καὶ πνίγους δεινοῦ· καὶ γὰρ εἶναι αὐτὸ κενὸν δένδρων τε καὶ ὅσα γῆ φύει. σκηνᾶσθαι οὖν σφᾶς ἤδη ἑσπέρας γιγνομένης παρὰ τὸν Ἀμέλητα ποταμόν, οὗ τὸ ὕδωρ ἀγγεῖον οὐδὲν στέγειν.
«da qui senza voltarsi andavano ai piedi del trono di Ananke e passando sotto questo, dopo che anche gli altri erano passati, andavano tutte alla piana del Lete19 attraverso una terribile calura e arsura; quella infatti era priva di alberi e di quanto genera la terra. Dunque si attendavano quando ormai era sera presso il fiume Amelete20, la cui acqua nessun recipiente accoglie».
μέτρον μὲν οὖν τι τοῦ ὕδατος πᾶσιν ἀναγκαῖον εἶναι πιεῖν, τοὺς δὲ φρονήσει μὴ σῳζομένους πλέον πίνειν τοῦ μέτρου· τὸν δὲ ἀεὶ πιόντα [b] πάντων ἐπιλανθάνεσθαι. ἐπειδὴ δὲ κοιμηθῆναι καὶ μέσας νύκτας γενέσθαι, βροντήν τε καὶ σεισμὸν γενέσθαι, καὶ ἐντεῦθεν ἐξαπίνης ἄλλον ἄλλῃ φέρεσθαι ἄνω εἰς τὴν γένεσιν, ᾄττοντας ὥσπερ ἀστέρας.
Dunque era necessario per tutti bere una certa misura di acqua, ma quelli che non erano preservati da senno bevevano più della misura; chi via via beveva dimenticava tutto. Dopo che si addormentarono e fu mezzanotte, ci fu un tuono e un terremoto, e da là all’improvviso furono portati su alla nascita chi da una parte chi da un’altra, veloci come stelle».
αὐτὸς δὲ τοῦ μὲν ὕδατος κωλυθῆναι πιεῖν· ὅπῃ μέντοι καὶ ὅπως εἰς τὸ σῶμα ἀφίκοιτο, οὐκ εἰδέναι, ἀλλ' ἐξαίφνης ἀναβλέψας ἰδεῖν ἕωθεν αὑτὸν κείμενον ἐπὶ τῇ πυρᾷ.
«Lui (Er) fu impedito dal bere acqua; come poi e in che modo era giunto al corpo non sapeva, ma all’improvviso aprendo gli occhi si vide giacere al mattino sulla pira».
Καὶ οὕτως, ὦ Γλαύκων, μῦθος ἐσώθη καὶ οὐκ ἀπώλετο, [c] καὶ ἡμᾶς ἂν σώσειεν, ἂν πειθώμεθα αὐτῷ, καὶ τὸν τῆς Λήθης ποταμὸν εὖ διαβησόμεθα καὶ τὴν ψυχὴν οὐ μιανθησόμεθα.
E così, o Glaucone, il mito si è salvato e non è andato perduto, e potrebbe salvare anche noi, qualora gli dessimo credito, e attraverseremo bene il fiume del Lete e non ci contamineremo nell’anima».
ἀλλ' ἂν ἐμοὶ πειθώμεθα, νομίζοντες ἀθάνατον ψυχὴν καὶ δυνατὴν πάντα μὲν κακὰ ἀνέχεσθαι, πάντα δὲ ἀγαθά, τῆς ἄνω ὁδοῦ ἀεὶ ἑξόμεθα καὶ δικαιοσύνην μετὰ φρονήσεως παντὶ τρόπῳ ἐπιτηδεύσομεν, ἵνα καὶ ἡμῖν αὐτοῖς φίλοι ὦμεν καὶ τοῖς θεοῖς, αὐτοῦ τε μένοντες ἐνθάδε, καὶ ἐπειδὰν τὰ ἆθλα [d] αὐτῆς κομιζώμεθα, ὥσπερ οἱ νικηφόροι περιαγειρόμενοι, καὶ ἐνθάδε καὶ ἐν τῇ χιλιέτει πορείᾳ, ἣν διεληλύθαμεν, εὖ πράττωμεν.
«Ma qualora dessimo credito a me, ritenendo l’anima immortale e capace di sopportare tutti i mali e tutti beni, terremo sempre la via verso l’alto e praticheremo in ogni modo la giustizia unita a prudenza, per essere amici sia di noi stessi sia degli dèi, sia mentre rimaniamo qui in questo luogo sia dopo che riportassimo i premi di quel viaggio, come i vincitori quando fanno il giro in trionfo, e per stare bene sia qui sia nel cammino millenario che abbiamo percorso nella narrazione».
1 C’è un gioco di parole tra Ἀλκίνοος, e ἄλκιμος, «valoroso», con riferimento agli «apologhi», come venivano chiamati i canti dell’Odissea (IX-XII) in cui Odisseo racconta le sue avventure al re dei Feaci, tra le quali anche l’evocazione dei morti nel canto XI, la cosiddetta Νέκυια, che è un’evocazione, non una discesa, come invece quella di Enea. Molti si sbagliano, ma anche Nietzsche non è stato preciso: «Il viaggio nell'Ade. Anche io sono stato agli inferi, come Odisseo, e ci tornerò ancora più volte; e non solo montoni ho sacrificato per poter parlare con alcuni morti; bensì non ho risparmiato il mio stesso sangue» (Umano, troppo umano II, Parte prima, Opinioni e sentenze diverse, 408).
2 La Panfilia era una regione che si trovava nella parte meridionale della penisola anatolica, o Asia Minore, a nord dell’isola di Cipro. Dà una connotazione esotica al racconto.
3 Nel Gorgia sono Minosse, Eaco e Radamanto, protagonisti di un altro mito sugli inferi, noto come «giudizio delle anime».
4 Si tratta di uno dei due fratelli di Platone, l’altro è Adimanto, entrambi personaggi del dialogo che fanno da spalla a Socrate
5 Propriamente la pianta sarebbe «aspalato», in latino genista acanthoclada, una pianta spinosa, appunto.
6 È la Necessità, il principio che regola il mondo; come dice il coro nell’Alcesti di Euripide (vv. 965-966): κρεῖσσον οὐδὲν Ἀνάγκας / ηὗρον, οὐδέ τι φάρμακον, «nulla ho trovato più forte della Necessità / né alcun rimedio».
7 Fuso e fusaiolo formano l’attrezzo usato per filare la lana a mano. Il fuso è uno stecco di una ventina di centimetri e del diametro di un centimetro, grosso modo; il fusaiolo è un dischetto di tre o quattro centimetri forato nel quale si inserisce il fuso. All’estremità del fuso che sporge appena dopo aver passato il buco del fusaiolo c’è un gancio a cui si ferma la lana. Facendo ruotare su se stesso il fuso (il fusaiolo serve per facilitare tale rotazione, proprio come avviene per una trottola) la lana si attorciglia formando il filo.
8 Con «sorte» si intende il turno in cui si è stati sorteggiati per andare a scegliere la nuova vita.
9 C’è qui l’affermazione del libero arbitrio, che però non è del tutto libero perché non possiamo scegliere l’ordine con cui procedere alla scelta. Vedremo che non è l’unico condizionamento, perché non sono pochi quelli che scelgono basandosi sulle esperienze delle vite precedenti: se non vogliamo credere alla metempsicosi, possiamo pensare ai condizionamenti sociali, a quelli familiari o a quelli della stirpe, che influenzano o possono influenzare le nostre scelte nella vita.
10 Su certe cose, però, vale la pena rischiare, come dice nel Fedone, 114c-d: 114c-d χρὴ […] πᾶν ποιεῖν ὥστε ἀρετῆς καὶ φρονήσεως ἐν τῷ βίῳ μετασχεῖν· καλὸν γὰρ τὸ ἆθλον καὶ ἡ ἐλπὶς μεγάλη. […] ἐπείπερ ἀθάνατόν γε ἡ ψυχὴ φαίνεται οὖσα, τοῦτο καὶ πρέπειν μοι δοκεῖ καὶ ἄξιον κινδυνεῦσαι οἰομένῳ οὕτως ἔχειν ‑ καλὸς γὰρ ὁ κίνδυνος, «È necessario fare di tutto per essere partecipi nella vita di virtù e intelligenza; bello è infatti il premio e grande la speranza. […] siccome in effetti l’anima sembra essere una cosa immortale, questo mi pare essere conveniente e per chi pensa che stiano così le cose vale la pena rischiare – bello è infatti il rischio».
Un concetto affine si trova anche in Seneca, De providentia, II, 2: Quis autem, uir modo et erectus ad honesta, non est laboris adpetens iusti et ad officia cum periculo promptus? Cui non industrio otium poena est?, «Chi, purché sia un uomo vero e indirizzato a imprese onorevole, non è desideroso di una giusta fatica e disposto a correre pericoli per i doveri? Per quale persona operosa l’ozio non è una punizione?».
11 Dante, Inferno, V, vv. 100-102: «Amor, ch'al cor gentil ratto s’apprende, / prese costui de la bella persona / che mi fu tolta; e 'l modo ancor m’offende». Naturalmente è Francesca da Rimini.
12 È difficile non pensare alla sorte di Socrate, condannato a morte nel 399 a.C. dal tribunale ateniese per empietà e corruzione dei giovani – secondo Nietzsche giustamente perché aveva corrotto la tragedia in combutta con Euripide (La nascita della tragedia):
«Riconosciamo in Socrate l’avversario di Dioniso… e, benché destinato a essere dilaniato dalle Menadi del tribunale ateniese, costringe alla fuga lo stesso potentissimo dio» (cap. 12).
«Che Socrate avesse uno stretto legame di tendenza con Euripide, non sfuggì all’antichità di quel tempo; e l’espressione più eloquente di questo fiuto felice è quella leggenda circolante ad Atene, secondo cui Socrate usava aiutare Euripide a poetare. Dai partigiani del «buon tempo antico» i due nomi venivano pronunciati assieme, quando si trattava di enumerare i presunti corruttori del popolo: dal loro influsso seguiva che l’antica e quadrata valentia di corpo e d’animo, degna di Maratona, fosse sempre più sacrificata a un dubbio razionalismo… in questo tono, mezzo di sdegno e mezzo di disprezzo, la commedia aristofanesca suole parlare di quegli uomini. [...] Socrate, come avversario dell’arte tragica, si asteneva dal frequentare la tragedia, mettendosi fra gli spettatori soltanto quando veniva rappresentato un nuovo dramma di Euripide» (cap. 13).
13 Il riferimento, come prima ducem, è all’importanza di un maestro che ci guidi nei momenti cruciali della vita. Cfr. Epistulae, 94, 52: nonne apparet opus esse nobis aliquo advocato qui contra populi praecepta praecipiat?, «Non è forse evidente che abbiamo bisogno di un qualche difensore che che ci dia insegnamenti contrari a quelli della massa?»; e poco dopo (55): Sit ergo aliquis custos et aurem subinde pervellat abigatque rumores et reclamet populis laudantibus, «Ci sia dunque un guardiano e ci tiri di quando in quando le orecchie e tenga lontani i luoghi comuni e alzi la voce contro le lodi della folla».
14 Seneca, nel De vita beata 1, oltre alla già citata importanza della guida, individua più incisivamente questo fattore: Viuere, Gallio frater, omnes beate uolunt, sed ad peruidendum quid sit quod beatam uitam efficiat caligant, «Tutti, oh fratello Gallione, vogliono vivere felicemente, ma quanto a vedere chiaramente cosa sia ciò che rende felice la vita felice, hanno come la vista ottenebrata» […] Proponendum est itaque primum quid sit quod adpetamus, «E così bisogna porsi davanti agli occhi innanzitutto cosa sia ciò che desideriamo».
15 Questa è una felicità autentica, diversa da quella personata, di cui parla Seneca, Epistulae, 80:
5. Libera te primum metu mortis (illa nobis iugum inponit), deinde metu paupertatis. 6. Si vis scire quam nihil in illa mali sit, compara inter se pauperum et divitum vultus: saepius pauper et fidelius ridet; nulla sollicitudo in alto est; etiam si qua incidit cura, velut nubes levis transit: horum qui felices vocantur hilaritas ficta est aut gravis et suppurata tristitia, eo quidem gravior quia interdum non licet palam esse miseros, sed inter aerumnas cor ipsum exedentes necesse est agere felicem. 7. Saepius hoc exemplo mihi utendum est, nec enim ullo efficacius exprimitur hic humanae vitae mimus, qui nobis partes quas male agamus adsignat,
«5. Liberati innanzitutto dalla paura della morte (essa ci impone un giogo), poi dalla paura della povertà. 6. Se vuoi sapere quanto non ci sia nulla di male in essa, confronta tra loro i volti dei poveri e dei ricchi: il povero ride più spesso e più schiettamente; nessuna preoccupazione si trova nel profondo; anche se incappa in qualche affanno, passa come una nuvola leggera: l’allegria di questi che sono chiamati felici è recitata oppure è una tristezza opprimente e che rode, e di certo tanto più opprimente poiché non è possibile ogni tanto essere infelici apertamente, ma divorando il cuore stesso tra le pene si è obbligati a fare la parte del felice. 7. Devo usare più spesso questo esempio, e infatti da nessun altro con più efficacia è rappresentato questo mimo della vita umana, che ci assegna i ruoli che interpretiamo male».
8. omnium istorum personata felicitas est. Contemnes illos si despoliaveris.
«8. La felicità di tutti costoro è una mascchera. Li disprezzerai se avrai tolto loro i vestiti».
Così anche nel De providentia, VI, 4:
Isti quos pro felicibus aspicis, si non qua occurrunt sed qua latent uideris, miseri sunt, sordidi turpes, ad similitudinem parietum suorum extrinsecus culti; non est ista solida et sincera felicitas: crusta est et quidem tenuis. Itaque dum illis licet stare et ad arbitrium suum ostendi, nitent et inponunt; cum aliquid incidit quod disturbet ac detegat, tunc apparet quantum altae ac uerae foeditatis alienus splendor absconderit,
«4. Questi che tu guardi come fortunati, se li vedi non dal lato con cui si presentano ma da quello che nascondono, sono meschini, squallidi, vergognosi, a somiglianza delle loro pareti belli di fuori; non è questa una felicità solida e autentica: è una patina e pure sottile. E così finché è loro consentito stare dritti e mostrarsi a loro arbitrio, brillano e traggono in inganno; quando capita qualcosa che li sconvolge e scopre, allora appare quanta profonda e reale ripugnanza nascondesse quello splendore posticcio».
Cfr. Anche Schopenhauer, Parerga e paralipomena I, Aforismi sulla saggezza della vita. Capitolo quinto: «La maggior parte degli splendori e delle magnificenze è una pura apparenza… tutto ciò è l’insegna, l’atteggiamento, il geroglifico della gioia… lo scopo consiste semplicemente nel far credere ad altri che là per l’appunto ha preso alloggio la gioia: la vera intenzione è di suscitare tale illusione nel cervello altrui…».
16 «Dolore è la conoscenza: coloro che conoscono più di tutti / devono soffrire più profondamente di tutti per questa fatale verità, / l'albero della conoscenza non è quello della vita» (Byron, Manfredi, I, 1, 11-13).
17 fugit retro / levis iuventas et decor, arida / pellente lascivos amores / canitie facilemque somnum. / Non semper idem floribus est honor / vernis neque uno luna rubens nitet / voltu: quid aeternis minorem / consiliis animum fatigas? / Cur non sub alta vel platano vel hac / pinu iacentes (11-14) sic temere et rosa / canos odorati capillos,/ dum licet, Assyriaque nardo / potamus uncti? «Fugge dietro a noi la leggera gioventù e la grazia, mentre l'arida / vecchiaia scaccia i lascivi amori / e il facile sonno. / Non è sempre la stessa la bellezza dei fiori / primaverili né la luna rosseggiante risplende con un solo / volto: perché stanchi con eterni progetti / un cuore che è più piccolo? / Perché, sdraiati così alla buona sotto un alto platano / o sotto questo pino / coi capelli grigi profumati di rosa / e unti di nardo assiro, / finché è possibile, perché non beviamo?» (Orazio, Odi, II, 11, vv. 5-17)
19 La parola in greco significa «oblio», dunque è «la piana dell’Oblio».
20 In greco la parola significa «noncuranza», dunque è «il fiume della Noncuranza».
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