giovedì 19 settembre 2024

Seneca, Epistulae, 44

Nobiltà di spirito e «plebaglia dei sensi»


 3. Patricius Socrates non fuit; Cleanthes aquam traxit et rigando horto locavit manus; Platonem non accepit nobilem philosophia sed fecit.

 «3. Socrate non fu patrizio; Cleante tirò su l’acqua e occupò le mani per irrigare l’orto; la filosofia non ha accolto Platone in quanto nobile, ma nobile lo ha reso1».

 4. Platon ait neminem regem non ex servis esse oriundum, neminem non servum ex regibus.

 «4. Platone dice che non c’è nessun re che non tragga origine da schiavi, nessuno schiavo che non tragga origine da re2».

 5 A primo mundi ortu usque in hoc tempus perduxit nos ex splendidis sordidisque alternata series. Non facit nobilem atrium plenum fumosis imaginibus; nemo in nostram gloriam vixit nec quod ante nos fuit nostrum est: animus facit nobilem, cui ex quacumque condicione supra fortunam licet surgere.

 «Dalla prima origine del mondo ci ha condotto fino a questi tempi una serie alternata di splendori e volgarità. Non rende nobili un atrio pieno di ritratti affumicati; nessuno ha vissuto per nostra gloria né ciò che fu prima di noi appartiene a noi: rende nobili lo spirito, per il quale è possibile innalzarsi sopra la sorte a partire da qualunque condizione».

 7. Quid est ergo in quo erratur, cum omnes beatam vitam optent? quod instrumenta eius pro ipsa habent et illam dum petunt fugiunt.

 «7. In cosa consiste dunque ciò in cui si sbaglia, dato che tutti desiterano una vita felice? nel fatto che la identificano nei mezzi anziché nella felicità stessa e mentre la inseguono la fuggono».

 1 A Platone è riconosciuta da Nietzsche nobiltà di pensiero perché il suo approccio razionale lo distingue dall’«intruglio plebeo», come lo definisce in Così parlo Zarathustra, Parte quarta, Colloquio con i re, 1:

«Davvero, è meglio vivere in mezzo a eremiti e caprai che insieme alla nostra plebe dorata falsa imbellettata, - anche se si chiama buona società’, - anche se si chiama nobiltà’ […] Un contadino sano, rozzo, astuto, testardo, tenace rimane, oggi, per me ancora il migliore e il preferito degli uomini: questa è, oggi, la specie più nobile. Il contadino, oggi, è il migliore; e la specie contadina dovrebbe dominare! Ma è il regno della plebe, non mi lascio più ingannare. Plebe, però, vuol dire: intruglio. Intruglio plebeo: lì è tutto mescolato alla rinfusa».

 L’«intruglio plebeo», dunque, è quello ostile alla ragione, quello degli uomini che sono veluti pecora, quae natura prona atque ventri oboedientia finxit, «come le bestie, che la natura ha plasmato prone e obbedienti al ventre» (Sallustio, Bellum Catilinae, 1):

«In cinque o sei cervelli comincia forse oggi ad albeggiare il pensiero che anche la fisica sia soltanto una interpretazione del mondo e un ordine imposto ad esso (secondo il nostro modo di vedere! con licenza parlando) e non già una spiegazione del mondo: ma in quanto la fisica si fonda sulla fede nei sensi, essa vale come qualcosa di più e a lungo andare deve acquistare ancora maggior valore, cioè deve valere come spiegazione. Essa ha, dalla sua, la testimonianza degli occhi e delle dita [...] e ciò esercita su un’età dal fondamentale gusto plebeo leffetto di un incantesimo [...] Viceversa, proprio nel recalcitrare allevidenza sensibile consisteva lincantesimo del modo platonico di pensare, il quale era un modo di pensare aristocratico [...] la plebaglia dei sensi, come diceva Platone» (Al di là del bene e del male, Dei pregiudizi dei filosofi, 14).

 Il passo a cui si riferisce si trova in Leggi, 689a-b: ταύτην τὴν διαφωνίαν λύπης τε καὶ ἡδονῆς πρὸς τὴν κατὰ λόγον δόξαν ἀμαθίαν φημὶ εἶναι τὴν ἐσχάτην, μεγίστην δέ, ὅτι τοῦ πλήθους ἐστὶ τῆς ψυχῆς· [b] τὸ γὰρ λυπούμενον καὶ ἡδόμενον αὐτῆς ὅπερ δῆμός τε καὶ πλῆθος πόλεώς ἐστιν, «questa dissonanza di dolore e piacere in relazione allopinione secondo ragione io la dico ignoranza estrema e grandissima, in quanto è della maggior parte dellanima; infatti la parte che soffre e prova piacere è, di essa, ciò che popolo e massa sono della città». Nietzsche individua in Socrate l’origine plebea della filosofia platonica, in seguito nobilitata dal discepolo:

«V’è qualcosa della morale platonica, che non appartiene propriamente a Platone, ma che pure si trova nella sua filosofia, si potrebbe dire, malgrado Platone stesso: vale a dire il socratismo, per cui egli era veramente troppo aristocratico. «Nessuno vuol fare del male a se stesso, perciò ogni azione cattiva è involontaria. Il malvagio, infatti, cagiona del male a se stesso: non lo farebbe se sapesse che il male è male. Conseguentemente il malvagio è cattivo soltanto per un suo errore: se lo si libera da questo errore, lo si rende necessariamente buono». Questo tipo di conclusione odora di plebaglia, la quale in colui che agisce con malvagità vede soltanto le conseguenze dolorose [...] Platone non ha lesinato i suoi sforzi per interpretare il principio del suo maestro in modo da trovarci dentro qualcosa di raffinato e di aristocratico, soprattutto se stesso».

 2 Interessante l’identificazione tra il re degenerato, il tiranno cioè, e lo schiavo (Platone, Repubblica, IX, 579d-e):

Ἔστιν ἄρα τῇ ἀληθείᾳ, κἂν εἰ μή τῳ δοκεῖ, ὁ τῷ ὄντι τύραννος τῷ ὄντι δοῦλος τὰς μεγίστας θωπείας καὶ δουλείας [e] καὶ κόλαξ τῶν πονηροτάτων, καὶ τὰς ἐπιθυμίας οὐδ' ὁπωστιοῦν ἀποπιμπλάς, ἀλλὰ πλείστων ἐπιδεέστατος καὶ πένης τῇ ἀληθείᾳ φαίνεται, ἐάν τις ὅλην ψυχὴν ἐπίστηται θεάσασθαι, καὶ φόβου γέμων διὰ παντὸς τοῦ βίου, σφαδᾳσμῶν τε καὶ ὀδυνῶν πλήρης, εἴπερ τῇ τῆς πόλεως διαθέσει ἧς ἄρχει ἔοικεν. ἔοικεν δέ· «È dunque in verità, anche se a qualcuno non pare, il vero tiranno un vero schiavo caratterizzato dalle lusinghe e dagli asservimenti più grandi, adulatore dei più malvagi, e incapace di saziare le brame in nessun modo, ma si rivela bisognosissimo di moltissime cose e in verità povero, se uno sa osservare l’anima intera, e zeppo di paura durante tutta la vita, pieno di convulsioni e dolori, se appunto assomiglia alla condizione della città che governa; e vi assomiglia».

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