8
(Le fonti del sublime)
Cinque sono le fonti del sublime (ὕψος); le prime due sono innate: τὸ περὶ τὰς νοήσεις ἁδρεπήβολον, «la grandiosità nei pensieri» e τὸ σφοδρὸν καὶ ἐνθουσιαστικὸν πάθος, «il sentimento forte e entusiasta»; le altre dipendono anche da competenze tecniche che si acquisiscono: ἥ τε ποιὰ τῶν σχημάτων πλάσις, «la creatività di figure di una certa qualità», ἡ γενναία φράσις, «una nobile espressione, ἡ ἐν ἀξιώματι καὶ διάρσει σύνθεσις, «la composizione (delle parole) in uno stile dignitoso ed elevato».
9
(«La questione omerica»)
In questo capitolo viene definito il concetto di «sublime» in arte, che è connesso alla prima fonte, la più importante, qui chiamata τὸ μεγαλοφυές, «grandezza d’animo/magnanimità»: ebbene il sublime si configura come μεγαλοφροσύνης ἀπήχημα, «eco di un alto sentire». Perciò, continua, «il nudo pensiero, separato dalla voce, in qualche modo è ammirato di per sé, perché è in sé alto sentire ὡς ἡ τοῦ Αἴαντος ἐν Νέκυια σιωπὴ μέγα καὶ παντός ὑψηλότερον λόγου, «come il silenzio di Aiace nella Νέκυια, grande e più sublime di qualsiasi discorso».
L’episodio si trova in Odissea, XI, 542-564.
Ulisse ha evocato i morti consultare Tiresia e incontra una serie di anime tra cui quella di sua madre e quella di Achille. Però ce n'è una che sta in disparte (543-544):
οἴη δ᾽ Αἴαντος ψυχὴ Τελαμωνιάδαο
νόσφιν ἀφεστήκει, κεχολωμένη εἵνεκα νίκης
«solo l'anima di Aiace Telamonio, restava in disparte, in collera per la vittoria», per il fatto che Ulisse era riuscito a sottrargli con l'inganno le armi di Achille, che dovevano andare in premio al più valoroso dopo Achille. In effetti poi Aiace si suicida perché, come dice nell'omonima tragedia di Sofocle ai vv. 479-80:
ἀλλ' ἢ καλῶς ζῆν ἢ καλῶς τεθνηκέναι
τὸν εὐγενῆ χρή. Πάντ' ἀκήκοας λόγον.
«Ma è necessario che il nobile o viva nella bellezza / o nella bellezza muoia. Hai ascoltato tutto il discorso».
Allora il figlio di Laerte racconta ad Alcinoo che (552):
τὸν μὲν ἐγὼν ἐπέεσσι προσηύδων μειλιχίοισιν
«con parole di miele io mi rivolsi a lui».
Ma (563-564):
ὣς ἐφάμην, ὁ δέ μ᾽ οὐδὲν ἀμείβετο, βῆ δὲ μετ᾽ ἄλλας
ψυχὰς εἰς Ἔρεβος νεκύων κατατεθνηώτων
«Come dissi, quello niente rispose, ma se ne andò nell'Erebo con le altre anime dei cadaveri dei morti».
L’episodio è ripreso da Virgilio nel VI canto dell’Eneide quando la incontra agli inferi e le dice: invitus, regina, tuo de litore cessi, «senza volerlo regina mi sono allontanato dalla tua spiaggia» (v. 460). Quindi Enea cerca di interloquire in qualche modo ma Didone illa solo fixos ocuols aversa tenebat, ella teneva gli occhi fissi al suolo, girata dall'altra parte.
Eliot considera il silenzio di Didone “il più espressivo rimprovero di tutta la storia della poesia” e “non soltanto uno dei brani più commoventi, ma anche uno dei più civili che si possono incontrare in poesia”.
Del resto i silenzi di Aiace e Didone sono molto significativi e in fondo assimilabili alla parola dell'oracolo di Delfi secondo Eraclito, fr. 120 Diano, ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖον ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει, ἀλλὰ σημαίνει.
Seneca, Epistole, 94
40. est aliquid quod ex magno viro vel tacente proficias.
«40. C’è qualche vantaggio che si può trarre da un grande uomo anche se tace».
L’Anonimo più avanti disquisisce sulla questione omerica, sostenendo la maggiore antichità dell’Iliade, ma con profondità, intelligenza e bellezza (9, 13): τῆς μὲν Ἰλιάδος γραφομένης ἐν ἀκμῇ πνεύματος ὅλον τὸ σωμάτιον δραματικὸν ὑπεστήσατο καὶ ἐναγώνιον, τῆς δὲ Ὀδυσσείας τὸ πλέον διηγηματικόν, ὅπερ ἴδιον γήρως. ὅθεν ἐν τῇ Ὀδυσσείᾳ παρεικάσαι τις ἂν καταδυομένῳ τὸν Ὅμηρον ἡλίῳ, οὗ δίχα τῆς σφοδρότητος παραμένει τὸ μέγεθος, «essendo stata l’Iliade scritta all’apice dell’ispirazione, il corpo del testo risulta pieno di azione e di combattimenti, quanto all’Odissea invece è per lo più narrativa, cosa che appunto è propria della vecchiaia. Quindi nell’Odissea uno potrebbe paragonare Omero al sole che tramonta, del quale pur senza l’intensità permane la grandezza». Poco prima al paragrafo 11 aveva detto: δείκνυσι δ' ὅμως διὰ τῆς Ὀδυσσείας […] ὅτι μεγάλης φύσεως ὑποφερομένης ἤδη ἴδιόν ἐστιν ἐν γήρᾳ τὸ φιλόμυθον, «Dimostra comunque nel corso dell’Odissea […] che proprio di una grande natura che ormai declina è nella vecchiaia l’amore per il racconto»1.
L’erudito dunque si contrappone al sapiente nell’«impiegare una sterilissima sottigliezza in vane questioncine2», comportamento tipico questo, secondo Seneca3, dei Greci:
Graecorum iste morbus fuit quaerere quem numerum Ulixes remigum habuisset, prior scripta esset Ilias an Odyssia, praeterea an eiusdem esset auctoris, alia deinceps huius notae, quae siue contineas nihil tacitam conscientiam iuuant, siue proferas non doctior uidearis sed molestior.
Fu una malattia tipica dei Greci questa di ricercare quale numero di rematori avesse avuto Ulisse, se fosse stata scritta prima l’Iliade o l’Odissea, inoltre se fossero del medesimo autore, e altre cose di questo genere, che se tieni per te non giovano in nulla al semplice fatto di conoscerle, se le presenti ad altri non sembrerai più dotto ma più noioso.
Già Aristotele aveva distinto i due poemi su basi simili (Poetica, 1459b):
τῶν ποιημάτων ἑκάτερον συνέστηκεν ἡ μὲν Ἰλιὰς ἁπλοῦν καὶ παθητικόν, ἡ δὲ Ὀδύσσεια πεπλεγμένον (ἀναγνώρισις γὰρ διόλου) καὶ ἠθική, «ciascuno dei due poemi risulta, l’Iliade, semplice e appassionato, l’Odissea invece, complesso (c’è riconoscimento infatti ovunque) e di caratteri».
1 Interessante un’osservazione di Baudelaire sul dandy, che sfrutta la stessa immagine: «II dandismo fa la sua comparsa specialmente nelle epoche di transizione in cui la democrazia non ha ancora tutto il potere, e l'aristocrazia è solo in parte vacillante e svilita. Nel disordine di tali epoche uomini declassati, disgustati, disoccupati, ma tutti ricchi di una forza naturale, possono concepire il progetto di costituire una nuova specie di aristocrazia, tanto più difficile da distruggere in quanto fondata sulle facoltà più preziose, più indistruttibili, e sui doni celesti che né il lavoro né il danaro possono concedere. Il dandismo l'ultimo bagliore di eroismo nei tempi della decadenza; e il tipo del dandy, incontrato dal viaggiatore nell'America del nord, non intacca in alcun modo la nostra idea; perché niente impedisce di supporre che le tribù che noi chiamiamo selvagge, siano i resti di grandi civiltà scomparse. Il dandismo è un sole al tramonto; come l’astro che declina, è superbo, senza calore e pieno di malinconia» (Il pittore della vita moderna, IX - Il dandy, in Scritti sull’arte, Einaudi, 1981).
2 Hoc est sapientia, hoc est sapere, non disputatiunculis inanibus subtilitatem vanissimam agitare, «questo è la sapienza, questo è essere sapienti [occuparsi cioè ri rafforzare lo spirito], non impiegare una sterilissima sottigliezza in vane questioncine», (Seneca, Epistulae, 117, 25).
3 De brevitate vitae, 13, 2.
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