Nel IV libro Lucrezio affronta la teoria dei simulacra, sorta di membrane che si staccano dai corpi, della stessa forma, che vagano qua e là e colpiscono i nostri sensi nella veglia e nel sonno, a volte atterrendoci. È la base della teoria della conoscenza che dunque parte dall’esperienza. Queste immagini danno conto delle sensazioni, prima di tutto la vista; a volte non c’è bisogno del corpo, come per esempio nel caso dei sogni. Il problema è interpretare correttamente questi segni. L’amore è un’errata interpretazione e dunque è una forma di superstizione, che va smontata con la ragione.
vv. 1030-1057
Connesso a questa teoria è appunto il discorso sull’amore, la cui fiamma si accende nell’adolescenza, quando, a causa dei simulacra notturni che si presentano in sogno sotto l’aspetto di volti leggiadri, si hanno le prime esperienze sessuali; l’amore dunque nasce dal sesso:
Haec Venus est nobis; hinc autemst nomen amoris,
hinc illaec primum Veneris dulcedinis in cor
stillavit gutta et successit frigida cura. (vv. 1058-1060)
«Questa è Venere per noi; da qui poi il nome d’amore, / da qui dapprima stillò nel cuore quella goccia / della dolcezza di Venere e successe il gelido affanno».
vv. 1061-1067
Il fatto è che noi pensiamo all’oggetto del nostro amore anche quando è assente, mentre dovremmo rivolgere altrove la nostra attenzione e (questo è il primo remedium) converrebbe che iacere umorem collectum in corpora quaeque / nec retinere, semel conversum unius amore, «il liquido accumulato giacesse in corpi qualsiasi / e non trattenerlo, una volta attratto da un amore unico» (vv. 1065-1066).
Il concetto viene specificato subito dopo:
Ulcus enim vivescit et inveterascit alendo
inque dies gliscit furor atque aerumna gravescit,
si non prima novis conturbes vulnera plagis
vulgivagaque vagus Venere ante recentia cures
aut alio possis animi traducere motus. (1068-1072)
«La ferita infatti acquista vita e mette radici nutrendola / e di giorno in giorno si sviluppa la frenesia e l’angoscia si aggrava, / se tu non confondi le prime ferite con nuove piaghe / e se con una Venere vagabonda non curi quelle recenti / e non puoi trasferire altrove i moti dell’animo».
Il consiglio quindi è di non concentrarsi su una sola persona ma di avere più esperienze.
Simili consigli sono poi ripresi da Ovidio nei Remedia amoris:
vv. 441-442
Hortor et, ut pariter binas habeatis amicas
(Fortior est, plures siquis habere potest)
«Vi esorto anche ad avere contemporaneamente due amanti
(è più forte se uno può averne più di una)»
vv. 451-52
At tibi, qui fueris dominae male creditus uni,
Nunc saltem novus est inveniendus amor.
«Ma tu, che incresciosamente ti sei affidato a una sola padrona,
ora almeno trovati un nuovo amore».
Lucrezio poi continua (e questo è il secondo remedium):
Nec Veneris fructu caret is qui vitat amorem,
sed potius quae sunt sine poena commoda sumit.
Nam certe purast sanis magis inde voluptas
quam miseris. Etenim potiundi tempore in ipso
fluctuat incertis erroribus ardor amantum
nec constat quid primum oculis manibusque fruantur. (1073-1078)
«Né si priva di Venere colui che evita l’amore, / ma piuttosto coglie quelli che sono i vantaggi senza la pena. / Infatti il piacere che ne deriva è certamente più puro per i sani di mente / chè per i miseri dissennati. E in effetti proprio nel momento del possedere / ondeggia in incerte fluttuazioni l’ardore degli amanti / e non si sa di cosa dapprima godere con gli occhi e con le mani».
L’amore andrebbe insomma tenuto a freno con la ragione, altrimenti gli istinti hanno il sopravvento, come nel caso dell’amore possessivo. Anche Platone ce ne dà una descrizione nel Fedro.
Dunque l’amante insano si lascia dominare dalla frenesia erotica,
quia non est pura voluptas
et stimuli subsunt qui instigant laedere id ipsum
quodcumque est, rabies unde illaec germina surgunt. vv. 1081-1083
«poiché il piacere non è puro / e alla base ci ssono dei pungoli che stimolano a ferire proprio ciò, / qualunque cosa sia, da cui sorgono quei germi di furia».
Venere però, cioè il sesso, lenisce blandamente la ferita d’amore poiché admixta voluptas, «il piacere è mescolato» (all’amore s’intende, cioè appunto non è puro). Il punto è che non si può curare l’amore «omeopaticamente»:
Namque in eo spes est, unde est ardoris origo,
restingui quoque posse ab eodem corpore flammam.
Quod fieri contra totum natura repugnat;
unaque res haec est, cuius quam plurima habemus,
tam magis ardescit dira cuppedine pectus. vv. 1087-1091
«E infatti in ciò consiste la speranza, che da dove ha origine l’ardore / da medesimo corpo possa anche essere spenta la fiamma. / Ma la natura si ribella mostrando che avviene tutto il contrario; / e questa è l’unica cosa della quale quanto più ne possediamo / tanto di più arde il petto di brama tremenda».
vv. 1091-1104
Nel caso del cibo e delle bevande il corpo a un certo punto si sazia mentre nel caso del leggiadro incarnato di un essere umano non possiamo godere che dei simulacri, quae vento spes raptast saepe misella «una speranza che spesso, meschina, è rapita dal vento» (v. 1096)1. Succede come nei sogni quando non si riesce a sfamarsi o dissetarsi: sic in amore Venus simulacris ludit amantis / nec satiare queunt, «così in amore Venere illude coi simulacri gli amanti / e non riescono a saziarsi» (vv. 1101-1102).
Denique cum membris collatis flore fruuntur
aetatis, iam cum praesagit gaudia corpus
atque in eost Venus ut muliebria conserat arva,
adfigunt avide corpus iunguntque salivas
oris et inspirant pressantes dentibus ora,
nequiquam, quoniam nil inde abradere possunt
nec penetrare et abire in corpus corpore toto; vv. 1105-1111
«Infine quando nell’unione delle membra godono del frutto della / giovinezza e quando ormai il corpo presagisce il piacere / e Venere è sul punto di seminare i campi della donna, / conficcano avidamente il corpo e congiungono le salive / della bocca e ansimano schiacciando coi denti le labbra, / invano, poiché niente da lì possono raschiare, / né penetrare e andarsene nel corpo con tutto il corpo».
1112-1140
Infatti a volte gli amanti sembrano combattere.
Tandem ubi se erupit nervis collecta cupido,
parva fit ardoris violenti pausa parumper.
Inde redit rabies eadem et furor ille revisit. 1115-1117
«Infine quando la brama raccolta si sprigiona dai nervi, / si produce una piccola pausa del violento ardore e per poco. / Poi torna la medesima furia e si ripresenta quella frenesia».
E non trovano espediente per vincere il male ma «si struggono per una ferita nascosta» (tabescunt vulnere caeco2). Si consumano le forze, la vita passa sottomessi al cenno di un’altra persona (alterius sub nutu degitur aetas, v. 1122), il patrimonio si consuma e soprattutto languent officia atque aegrotat fama vacillans, «stagnano i doveri e la fama incerta langue» (v. 1124). Segue un elenco delle spese sostenute per corteggiare l’amante, spese che sperperano bene parta patrum, «i beni dei padri onestamente prodotti» (v. 1129); e tutto questo però è fatto
nequiquam, quoniam medio de fonte leporum
surgit amari aliquid quod ipsis floribus angat, 1133-1134
«invano, poiché dal mezzo della fonte dei piaceri / sgorga un che di amaro che provoca angoscia proprio nei fiori».
I motivi di tale angoscia sono il pensiero di una vita sprecata senza far nulla, o perché una parola ambigua ha creato un equivoco e subentra la gelosia.
vv. 1141-1145
Atque in amore mala haec proprio summeque secundo
inveniuntur; in adverso vero atque inopi sunt,
prendere quae possis oculorum lumine operto,
innumerabilia; ut melius vigilare sit ante,
qua docui ratione, cavereque ne inliciaris. 1141-1145
«E questi mali si trovano in un amore che ci appartine e sommamente / favorevole; invece in uno contrario e per cui non ci sono risorse, / ce ne sono innumerevoli che puoi cogliere / a occhi chiusi; sicché è meglio stare in guardia prima, / con il sistema che ho insegnato, e stare attenti a non essere adescati».
Qui si conclude la descrizione della patologia e segue quella della terapia.
nam vitare, plăgas in amoris ne iaciamur,
non ita difficile est quam captum retibus ipsis
exire et validos Veneris perrumpere nodos.
et tamen implicitus quoque possis inque peditus
effugere infestum, nisi tute tibi obvius obstes
et praetermittas animi vitia omnia primum
aut quae corporis sunt eius, quam praepetis ac vis. vv. 1146-1152
«Infatti evitare di gettarsi nei lacci d’amore / non è così difficile quanto, una volta catturato nelle reti stesse, / uscirne e spezzare i saldi nodi di Venere. / E tuttavia anche una volta stretto nei lacci e inceppato potresti / schivare il pericolo, se non fossi tu a ostacolarti andondole incontro / e prima di tutto non lasciassi passare tutti i vizi dell’animo / o quelli del corpo, che ci sono, di colei che desideri al massimo e vuoi».
Il consiglio dunque è di pensare ai difetti dell’amante, cosa di cui si ricorderà Ovidio nei Remedia amoris.
2 Un’espressione quasi identica si trova in Virgilio, Eneide, IV, vv. 1-2 a proposito di Didone innamorata di Enea: At regina gravi iamdudum saucia cura / vulnus alit venis et caeco carpitur igni, «Ma la regina già da tempo ferita da pesante affanno / nutre la ferita nelle vene ed è consumata da un fuoco nascosto». In Virgilio l’amore è ancora più esecrato che in Lucrezio.
1 Come le parole di Lesbia nel carme 70 di Catullo: Nulli se dicit mulier mea nubere malle / quam mihi, non si se Iuppiter ipse petat. / Dicit: sed mulier cupido quod dicit amanti, / in vento et rapida scribere oportet aqua, «La mia donna dice che non preferirebbe unirsi a nessuno / piuttosto che a me, nemmeno se la corteggiasse Giove in persona. / Lo dice: ma ciò che una donna dice all’amante bramoso, / bisogna scriverlo nel vento e nell’acqua che tutto trascina». Per par condicio citiamo anche il carme 64 dove Arianna così commenta le mancate promesse di teseo (vv. 142-144): quae cuncta aereii discerpunt irrita venti. / nunc iam nulla viro iuranti femina credat, / nulla viri speret sermones esse fideles, «tutte parole che, vane, i venti disperdono nell’aria. / D’ora in poi nessuna donna creda a un uomo che giura, / nessuna speri che i discorsi di un uomo siano leali». Cfr. Eneide, IX, 313: Sed aurae / omnia discerpunt et nubibus inrita donant, «Ma i venti / le disperdono tutte e vane le donano alle nubi». Sono le ultime parole che Ascanio rivolge a Eurialo e Niso, messaggi per Enea lontano che non arriveranno mai.
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