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qui traduzione con testo a fronte
[1] "Num alio genere Furiarum declamatores inquietantur, qui clamant: 'Haec vulnera pro libertate publica excepi; hunc oculum pro vobis impendi: date mihi ducem, qui me ducat ad liberos meos, nam succisi poplites membra non sustinent'? Haec ipsa tolerabilia essent, si ad eloquentiam ituris viam facerent.
«[1] Forse che sono turbati da un altro genere di Furie i declamatori che gridano: “Queste ferite le ho ricevute per la libertà pubblica; questo occhio l’ho speso per voi: datemi una guida che mi conduca dai miei figli, infatti i tendini recisi non sostengono le membra”? Queste cose sarebbero in sé tollerabili se aprissero la via a coloro che si accingono all’eloquenza».
Nunc et rerum tumore et sententiarum vanissimo strepitu hoc tantum proficiunt ut, cum in forum venerint, putent se in alium orbem terrarum delatos. Et ideo ego adulescentulos existimo in scholis stultissimos fieri, quia nihil ex his, quae in usu habemus, aut audiunt aut vident, sed piratas cum catenis in litore stantes, sed tyrannos edicta scribentes quibus imperent filiis ut patrum suorum capita praecidant, sed responsa in pestilentiam data, ut virgines tres aut plures immolentur, sed mellitos verborum globulos, et omnia dicta factaque quasi papavere et sesamo sparsa.
«Ora per l’esagerazione degli argomenti e il vuotissimo strepito delle sentenze producono solo questo effetto, che, una volta giunti nel foro, pensano di essere stati trasportati in un altro mondo. E perciò io ritengo che i ragazzini nelle scuole diventino stupidissimi, poiché nulla di ciò con cui abbiamo a che fare o ascoltano o vedono1, ma pirati che stanno sulla spiaggia con le catene, ma tiranni che scrivono editti con cui ordinano ai figli di mozzare le teste dei propri padri, ma responsi dati per una pestilenza che dicono che siano immolate tre o più vergini, ma palline mielose di parole, e tutte cose dette e fatte quasi cosparse di papavero e sesamo».
[2] "Qui inter haec nutriuntur, non magis sapere possunt quam bene olere qui in culina habitant. Pace vestra liceat dixisse, primi omnium eloquentiam perdidistis. Levibus enim atque inanibus sonis ludibria quaedam excitando, effecistis ut corpus orationis enervaretur et caderet.
«[2] “Coloro che sono nutriti tra queste cose, non possono essere saggi più di quanto possano profumare coloro che abitano in cucina. Sia detto pure con vostra pace, primi tra tutti avete rovinato l’eloquenza. Suscitando certi giochetti con suoni dolci e vuoti, avete fatto in modo che il corpo dell’orazione si rammollisse e cadesse».
Nondum iuvenes declamationibus continebantur, cum Sophocles aut Euripides invenerunt verba quibus deberent loqui. Nondum umbraticus doctor ingenia deleverat, cum Pindarus novemque lyrici Homericis versibus canere timuerunt. Et ne poetas quidem ad testimonium citem, certe neque Platona neque Demosthenen ad hoc genus exercitationis accessisse video. Grandis et, ut ita dicam, pudica oratio non est maculosa nec turgida, sed naturali pulchritudine exsurgit.
«I ragazzi non erano ancora imbrigliati dalle declamazioni quando Sofocle o Euripide trovarono le parole con cui dovevano parlare. Un maestro cresciuto nell’ombra non aveva ancora distrutto gli ingegni, quando Pindaro e i nove lirici esitarono a cantare in versi omerici. E per non citare a testimoni solo i poeti, certamente vedo che né Platone né Demostene si sono accostati a questo genere di esercitazione. La grande e, per così dire, pudica orazione non è screziata né gonfia, ma si erge per naturale bellezza».
La figura dell’umbraticus doctor incarna il tipo dell’erudito, distaccato dalla realtà, il cui sapere sterile è il contrario della sapienza fertile, la cultura che potenzia la natura. Vedi τὸ σοφὸν δ’ οὐ σοφία, «il sapere non è sapienza».
Nuper ventosa istaec et enormis loquacitas Athenas ex Asia commigravit animosque iuvenum ad magna surgentes veluti pestilenti quodam sidere adflavit, semelque corrupta regula eloquentia stetit et obmutuit. Ad summam, quis postea Thucydidis, quis Hyperidis ad famam processit?
«Ora questa chiacchiera inesauribile e piena d’aria è migrata dall’Asia ad Atene e gli animi dei giovani che si alzavano per grandi imprese come per un pestilenziale influsso astrale li ha contaminati con il suo alito, e una volta corrotta la regola l’eloquenza si arrestò e ammutolì. Insomma, chi in seguito giunse alla fama di Tucidide, chi a quella di Iperide?»
Ac ne carmen quidem sani coloris enituit, sed omnia quasi eodem cibo pasta non potuerunt usque ad senectutem canescere. Pictura quoque non alium exitum fecit, postquam Aegyptiorum audacia tam magnae artis compendiariam invenit.»
«E neppure la poesia brillò di un sano colore, ma tutti i generi quasi si fossero cibate del medesimo cibo non poterono imbiancare fino alla vecchiaia. Anche la pittura non ebbe un esito diverso, dopo che l’audacia degli Egizi trovò la scorciatoia di un’arte tanto grande.”»
[3] Non est passus Agamemnon me diutius declamare in porticu, quam ipse in schola sudaverat, sed: "Adulescens, inquit, quoniam sermonem habes non publici saporis et, quod rarissimum est, amas bonam mentem, non fraudabo te arte secreta. <Nihil> nimirum in his exercitationibus doctores peccant qui necesse habent cum insanientibus furere.
«3. Non sopportò Agamennone che io declamassi nel portico più a lungo di quanto lui stesso aveva sudato nella scuola, ma: “Ragazzo, disse, siccome fai un discorso di gusto non comune e, cosa che è rarissima, ami una buona mente, non ti priverò dei segreti dell’arte. Non è per niente strano che in queste esercitazioni sbaglino i maestri che sono costretti a delirare stando con dei folli».
Nam nisi dixerint quae adulescentuli probent, ut ait Cicero, 'soli in scolis relinquentur'. Sicut ficti adulatores cum cenas divitum captant, nihil prius meditantur quam id quod putant gratissimum auditoribus fore — nec enim aliter impetrabunt quod petunt, nisi quasdam insidias auribus fecerint — sic eloquentiae magister, nisi tanquam piscator eam imposuerit hamis escam, quam scierit appetituros esse pisciculos, sine spe praedae morabitur in scopulo.
«Infatti se non dicessero cose che i ragazzi approvano, come dice Cicerone, ‘rimarranno soli nelle scuole’. Come gli adulatori delle commedie, quando danno la caccia alle cene dei ricchi, niente considerano prima di quello che pensano sarà graditissimo agli uditori – né infatti otterranno altrimenti ciò a cui aspirano, se non avranno teso certi tranelli alle orecchie – così il maestro di eloquenza, se, come un pescatore, non avrà messo agli ami quell’esca che saprà che i pesciolini gradiranno, senza speranza di bottino aspetterà sullo scoglio».
[4] "Quid ergo est? Parentes obiurgatione digni sunt, qui nolunt liberos suos severa lege proficere. Primum enim sic ut omnia, spes quoque suas ambitioni donant. Deinde cum ad vota properant, cruda adhuc studia in forum impellunt, et eloquentiam, qua nihil esse maius confitentur, pueris induunt adhuc nascentibus.
«4. E qual è dunque la questione? Sono meritevoli di rimprovero i genitori, che non vogliono che i propri figli progrediscano con dura disciplina. Innanzitutto infatti così come tutte le cose, donano all’ambizione anche le proprie speranze. Poi, quando si affrettano ai desideri, spingono nel foro talenti ancora acerbi, e fanno indossare a fanciulli che stanno ancora nascendo, l’eloquenza, di cui dichiarano che nulla è più grande».
Quod si paterentur laborum gradus fieri, ut studiosi iuvenes lectione severa irrigarentur, ut sapientiae praeceptis animos componerent, ut verba atroci stilo effoderent, ut quod vellent imitari diu audirent, <ut persuaderent> sibi nihil esse magnificum quod pueris placeret: iam illa grandis oratio haberet maiestatis suae pondus. Nunc pueri in scholis ludunt, iuvenes ridentur in foro, et quod utroque turpius est, quod quisque <puer> perperam didicit, in senectute confiteri non vult.
«E se lasciassero che l’impegno fosse graduale, così che i giovani studiosi fossero irrigati da serie letture, che ordinassero gli animi con i precetti della sapienza, che scavassero le parole con penna implacabile, che ascoltassero a lungo ciò che vogliono imitare, che si persuadessero che niente che piaccia ai fanciulli è magnifico: allora quella grande orazione avrebbe il peso della sua maestà. Ora i fanciulli nelle scuole giocano, i giovani sono derisi nel foro, e cosa che è più turpe di entrambe, ciò che ciascuno ha imparato alla rinfusa da fanciullo, in vecchiaia non vuole ammetterlo».
Dunque Petronio, attraverso le parole del maestro Agamennone, attribuisce la responsabilità della decadenza dell’eloquenza alla mancanza di disciplina.
Quintiliano (Institutio oratoria, II, 6-8) lamenta più che l’ambizione dei genitori l’eccessiva indulgenza:
Vtinam liberorum nostrorum mores non ipsi perderemus! Infantiam statim deliciis solvimus. Mollis illa educatio, quam indulgentiam vocamus, nervos omnis mentis et corporis frangit. Quid non adultus concupiscet qui in purpuris repit? Nondum prima verba exprimit, iam coccum intellegit, iam conchylium poscit. VII. Ante palatum eorum quam os instituimus. In lecticis crescunt: si terram attigerunt, e manibus utrimque sustinentium pendent. Gaudemus si quid licentius dixerint: verba ne Alexandrinis quidem permittenda deliciis risu et osculo excipimus. Nec mirum: nos docuimus, ex nobis audierunt; VIII. nostras amicas, nostros concubinos vident; omne convivium obscenis canticis strepit, pudenda dictu spectantur. Fit ex his consuetudo, inde natura. Discunt haec miseri antequam sciant vitia esse: inde soluti ac fluentes non accipiunt ex scholis mala ista, sed in scholas adferunt.
«Magari non fossimo noi a rovinare i costumi dei nostri figli! Dissolviamo l’infanzia fin da subito nei piaceri. Quella molle educazione che chiamiamo indulgenza, spezza tutte le energie della mente e del corpo. Che cosa non desidererà da adulto chi striscia nella porpora? Non pronuncia ancora le prime parole, già capisce coccum, già chiede l’ostrica. 7. Istruiamo prima il loro palato che la bocca. Crescono nelle lettighe: se hanno toccato la terra, pendono dalle meni di chi li sostiene da entrambi i lati. Godiamo se dicono qualcosa di particolarmente licenzioso: accogliamo con un sorriso e un bacio parole che non devono essere permesse nemmeno ad amori alessandrini. E non c’è da meravigliarsi: non gliele abbiamo insegnate, da noi le hanno ascoltate; 8. vedono le nostre amanti, i nostri concubini; ogni banchetto strepita di canti osceni, si guardano cose di cui vergognarsi anche solo a parlare. Da questi comportamenti si forma l’abitudine, quindi l’indole. Imparano queste cose, infelici, prima di sapere che sono vizi: quindi, sfrenati e snervati, non ricevono dalle scuole questi mali, ma li portano nelle scuole».
Già Seneca commentava ironicamente la corruzione di Roma nel De beneficiis (III, 16):
Numquid iam ullus adulterii pudor est, postquam eo uentum est, ut nulla uirum habeat, nisi ut adulterum inritet? Argumentum est deformitatis pudicitia,
«forse c’è ancora qualche pudore per l’adulterio, da quando si è giunti al punto che nessuna ha un marito, se non per ingelosire l’amante? la pudicizia è un indizio di bruttezza».
Torniamo alla disciplina, la quale è uno dei valori celebrati da Tito Livio. L’episodio si trova nel libro VIII, 7. Tito Manlio Torquato (omonimo del figlio), console durante la guerra contro i Latini (340-338 a.C.) condannò a morte il figlio che aveva osato combattere contro il suo ordine, di capo e di padre, dopo averlo accusato in questo modo:
'quandoque' inquit, 'tu, T. Manli, neque imperium consulare neque maiestatem patriam veritus, adversus edictum nostrum extra ordinem in hostem pugnasti et, quantum in te fuit, disciplinam militarem, qua stetit ad hanc diem Romana res, solvisti meque in eam necessitatem adduxisti, ut aut rei publicae mihi aut mei [meorum] obliviscendum sit, nos potius nostro delicto plectemur quam res publica tanto suo damno nostra peccata luat; triste exemplum sed in posterum salubre iuventuti erimus. Me quidem cum ingenita caritas liberum tum specimen istud virtutis deceptum vana imagine decoris in te movet; sed cum aut morte tua sancienda sint consulum imperia aut impunitate in perpetuum abroganda, nec te quidem, si quid in te nostri sanguinis est, recusare censeam, quin disciplinam militarem culpa tua prolapsam poena restituas – i, lictor, deliga ad palum'.
«Dal momento che tu, disse, Tito Manlio, non rispettando né il comando del console né l’autorità del padre, combattesti contro il nemico contravvenendo a un nostro ordine fuori dallo schieramento e, per quanto fu in te, hai dissolto la disciplina militare, sulla quale si basò fino ad ora la potenza romana, e hai posto me nella necessità di dovermi dimenticare o della Repubblica o di me stesso, espiamo noi il nostro delitto piuttosto che sia la Repubblica a pagare con così grave danno le nostre colpe; saremo un esempio triste ma salutare per i giovani in futuro. Certo mi dispone a tuo favore non soltanto l’innato affetto per i figli, ma anche questa prova di valore, mascherata dietro un falso miraggio di gloria; ma siccome i comandi del console devono o essere resi inviolabili con la tua morte o aboliti per sempre con l’impunità, penso che non vorrai rifiutarti, se c’è in te un po’ del nostro sangue, di ristabilire con la tua punizione la disciplina militare rilassata per colpa tua – va’, littore, legalo al palo!».
Il re spartano Archidamo è un altro fautore della disciplina: parlando all’assemblea dei Peloponnesiaci, invita a confidare nella propria disciplina (Tucidide, I, 84, 4): πολύ τε διαφέρειν οὐ δεῖ νομίζειν ἄνθρωπον ἀνθρώπου, κράτιστον δὲ εἶναι ὅστις ἐν τοῖς ἀναγκαιοτάτοις παιδεύεται, «non si deve ritenere che un uomo sia molto diverso da un altro uomo, ma che il sia colui che è educato nelle più grandi costrizioni».
Se da un lato viene messa in rilievo l’importanza della disciplina, dall’altro viene segnalata anche la necessità del riposo e del gioco.
Cosi Seneca (Epistole, II, 15, 6):
Neque ego te iubeo semper imminere libro aut pugillaribus: dandum est aliquod intervallum animo, ita tamen ut non resolvatur, sed remittatur.
«6. Né io ti ordino di stare sempre sopra a un libro o a delle tavolette2: si deve concedere un qualche intervallo all’animo, tuttavia non così che si snervi, ma che si rimetta in forze».
Un cencetto identico si trova in Seneca, De tranquillitate animi, XVII, 5:
Danda est animis remissio: meliores acrioresque requieti surgent. Vt fertilibus agris non est imperandum (cito enim illos exhauriet numquam intermissa fecunditas), ita animorum impetus assiduus labor franget; uires recipient paulum resoluti et remissi. Nascitur ex assiduitate laborum animorum hebetatio quaedam et languor,
«Si deve concedere agli animi distensione; rinasceranno migliori e più acuti una volta riposati. Come non bisogna dare ordini ai campi fertili (presto infatti li esaurirà una fecondità mai interrotta), così la fatica continua spezzerà gli slanci degli animi; recupereranno le forze un poco rilassati e distesi. Nasce dall’assiduità delle fatiche un certo stordimento e stanchezza degli animi».
Similmente anche Quintiliano, Institutio, I, 8-12:
Danda est tamen omnibus aliqua remissio, non solum quia nulla res est quae perferre possit continuum laborem, atque ea quoque quae sensu et animā carent ut servare vim suam possint velut quiete alternā retenduntur, sed quod studium discendi voluntate, quae cogi non potest, constat. Itaque et virium plus adferunt ad discendum renovati ac recentes et acriorem animum, qui fere necessitatibus repugnat. Nec me offenderit lusus in pueris (est et hoc signum alacritatis), neque illum tristem semperque demissum sperare possim erectae circa studia mentis fore, cum in hoc quoque maxime naturali aetatibus illis impetu iaceat. Modus tamen sit remissionibus, ne aut odium studiorum faciant negatae aut otii consuetudinem nimiae. Sunt etiam nonnulli acuendis puerorum ingeniis non inutiles lusus, cum positis invicem cuiusque generis quaestiunculis aemulantur. Mores quoque se inter ludendum simplicius detegunt,
«Bisogna dare comunque a tutti un po’ di distensione, non solo perché non c’è nessuna cosa che possa sostenere una fatica continua, e anche quelle cose che sono prive di sensibilità e anima, per conservare la propria forza si rilassano con una quiete per così dire alternata, ma poiché lo studio è fatto di volontà di imparare, che non può essere costretta (N.d.R.: cfr. Seneca, Epistulae, X, 81, 13: velle non discitur, «il volere non si impara). E così apportano sia più forze all’apprendimento rinnovati e freschi sia un animo più acuto, che in genere si oppone alle costrizioni. Né mi può offendere il gioco nei bambini (anche questo è un segno di vivacità), né potrei sperare che quello triste e sempre depresso sarà di mente intenta allo studio, dato che si intorpidisce anche in questo slancio massimamente naturale in quelle età. Ci sia tuttavia un misura per le distensioni, affinché non producano o odio per gli studi se negate o abitudine all’zio se troppe. Ci sono anche alcuni non inutili giochi per acuire le intelligenze dei bambini, quando gareggiano ponendosi a vicenda domandine di qualsiasi genere. I caratteri anche si scoprono più schiettamente in mezzo al gioco».
Sul valore assoluto dell’educazione cfr. Platone, Gorgia, 470e:
οὐ γὰρ οἶδα παιδείας ὅπως ἔχει καὶ δικαιοσύνης,
«non so infatti come sta quanto a educazione e a giustizia».
È quanto risponde Socrate a Polo, suo interlocutore, il quale osserva che molti pur commettendo ingiustizia sono felici e a dimostrazione di ciò cita prima il re di Macedonia Archelao poi il Gran Re, dei quali però Socrate non si sente di affermare se sono felici perché non li conosce.
Sulla necessità della fatica vediamo Esiodo:
Esiodo, Opere e giorni, 289-90
τῆς δ' ἀρετῆς ἱδρῶτα θεοὶ προπάροιθεν ἔθηκαν / ἀθάνατοι,
«davanti alla virtù hanno posto il sudore gli dèi / immortali».
1 L’accusa è quella di distacco dalla realtà, di un sapere che non potenzia la natura perché non è al servizio della vita.
2 Erano l’equivalente dei nostri quaderni, dunque significa che non bisogna sempre leggere o scrivere.
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