Liber primus
vv. 1-11
Arma virumque canō, Trōiae quī prīmus ab ōrīs
Ītaliam, fātō profugus, Lāvīniaque vēnit
lītora, multum ille et terrīs iactātus et altō
vī superum saevae memorem Iūnōnis ob īram;
multa quoque et bellō passus, dum conderet urbem,
inferretque deōs Latiō, genus unde Latīnum,
Albānīque patrēs, atque altae moenia Rōmae.
Mūsa, mihī causās memorā, quō nūmine laesō,
quidve dolēns, rēgīna deum tot volvere cāsūs
īnsīgnem pietāte virum, tot adīre labōrēs
impulerit. Tantaene animīs caelestibus īrae?
«Le armi e l’eroe io canto, che per primo dalle coste di Troia / giunse, profugo per fato, in Italia e ai lidi / Lavinii, molto egli fu sballottato per terra e per mare / dalla violenza degli dèi per la crudele ira della memore Giunone; /molte sofferenze patì anche in guera, pur di fondare la città, / importare gli dèi nel Lazio, da cui la stirpe Latina, / i padri Albani e le mura dell’alta Roma. / Musa, ricordami le cause, per quale offesa divina, / o cosa soffrendo, la regina degli dèi costrinse ad affrontare tante situazioni / un uomo insigne per pietà, ad andare incontro a tante sofferenze. / Così grandi sono le ire negli animi dei celesti?»
vv. 12-18
Urbs antīqua fuit, Tyriī tenuēre colōnī,
Karthāgō, Ītaliam contrā Tiberīnaque longē
ōstia, dīves opum studiīsque asperrima bellī,
quam Iūnō fertur terrīs magis omnibus ūnam
posthabitā coluisse Samō; hīc illius arma,
hīc currus fuit; hōc rēgnum dea gentibus esse,
sī quā Fāta sinant, iam tum tenditque fovetque.
«C’era un’antica città, la abitavano coloni di Tito, / Cartagine, opposta all’Italia e da lontano alle foci / del Tevere, ricca di risorse e acerrima negli ardori di guerra, / e si dice che Giunone più di tutte le terre, unica / l’abbia venerata, trascurata Samo; qui c’erano le sue armi, / qui il carro; che sia questo il regno per i popoli, / se mai i fati lo consentano, già la dea si sforza e si compiace».
L’esclamazione che segue è riferita ai versi precedenti in cui ci viene detto che già da molti anni Giunone teneva i Troiani lontani dal Lazio.
33
Tantae molis erat Romanam condere gentem!
«Così grande tribolazione era fondare la stirpe romana!»
Ora però i Troiani vedono la Sicilia e Giunone, che sempre rimugina nel cuore infiammato, organizza un’ulteriore trappola: va da Eolo e gli chiede di scatenare i venti.
vv. 76-7
Aeolus haec contra: “Tuus, O regina, quid optes
explorare labor; mihi iussa capessere fas est
«Eolo disse questo in risposta: ‘Tuo compito, o Regina, / chiedere quello che desideri; per me è dovere sacro eseguire gli ordini’».
Si scatena dunque una violenta tempesta che getta lo scompiglio nella flotta di Enea, finché non interviene Nettuno a ristabilire l’ordine. Enea, rimasto con 7 navi, sbarca, procura del cibo e cerca di incoraggiare i compagni.
vv. 198-9
O socii (neque enim ignari sumus ante malorum)
O passi graviora, dabit deus his quoque finem
«Oh compagni (e infatti non siamo all’oscuro dei mali in precedenza), / Oh noi che abbiamo subito casi più gravi, un dio darà una fine anche a questi».
v. 203
forsan et haec olim meminisse iuvabit
«Forse un giorno gioverà ricordare anche queste cose».
vv. 208-209
Talia voce refert, curisque ingentibus aeger
spem voltu simulat, premit altum corde dolorem
«Con la voce riporta tali parole, e afflitto da grande angoscia / simula speranza in volto, ma schiaccia profondo nel cuore il dolore».
A questo punto la scena si sposta sull’Olimpo dove Venere protesta con Giove per le sofferenze del figlio al quale invece sono state fatte delle promesse. Giove la tranquillizza rinnovando le promesse.
v. 286
Nascetur pulchra Troianus origine Caesar
«Nascerà troiano, da bella stirpe, Cesare»
Quindi ordina a Ermes di andare dai Cartaginesi per indurli a non essere ostili. Nel frattempo Enea, passata una notte insonne, si muove di primo mattino per esplorare il luogo con Acate. Giunto in un bosco gli appare la madre (sotto le sembianze di una giovane) che lo informa sul luogo in cui è e gli racconta di Didone.
vv. 348-51
Ille Sychaeum
impius ante aras, atque auri caecus amore
clam ferro incautum superat, securus amorum
germanae;
«Quello empio / davanti all’altare, cieco per amore dell’oro / a tradimento col ferro lo abbatte , incurante dell’amore / della sorella».
Siccome Venere vede il figlio piuttosto affranto lo rassicura dicendogli che i suoi compagni di cui non aveva notizie dal naufragio sono sani e salvi, ospitati da Didone.
Quando sta per andarsene Enea la riconosce.
vv. 407-9
Quid natum totiens, crudelis tu quoque, falsis
ludis imaginibus? Cur dextrae iungere dextram
non datur, ac veras audire et reddere voces?
«Perché ti prendi gioco tante volte di tuo figlio, anche tu crudele, / con false apparenze? Perché non è concesso unire la destra / alla destra, e udire e restituire vere voci?»
A questo punto Enea si dirige verso la città, in particolare in un bosco sacro che si trova al centro e dove sorge un tempio con un fregio.
vv. 459-62
Constitit, et lacrimans, “Quis iam locus” inquit “Achate,
quae regio in terris nostri non plena laboris?
En Priamus! Sunt hic etiam sua praemia laudi;
sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt
«Si arrestò, e piangendo, ‘Che luogo ancora’ disse ‘Acate, / che regione sulla terra non è piena della nostra sofferenza? / Ecco Priamo! Ci sono anche qui le sue ricompense per la gloria; / ci sono le lacrime per le imprese e le vicende dei mortali toccano il cuore».
È la poetica delle lacrime, che possiamo far risalire a Euripide, il quale così la esprime, in polemica con Omero:
Euripide, Medea, vv. 190-204.
σκαιοὺς δὲ λέγων κοὐδέν τι σοφοὺς 190
τοὺς πρόσθε βροτοὺς οὐκ ἂν ἁμάρτοις,
οἵτινες ὕμνους ἐπὶ μὲν θαλίαις
ἐπί τ' εἰλαπίναις καὶ παρὰ δείπνοις
ηὕροντο βίῳ τερπνὰς ἀκοάς·
στυγίους δὲ βροτῶν οὐδεὶς λύπας 195
ηὕρετο μούσηι καὶ πολυχόρδοις
ὠιδαῖς παύειν, ἐξ ὧν θάνατοι
δειναί τε τύχαι σφάλλουσι δόμους.
καίτοι τάδε μὲν κέρδος ἀκεῖσθαι
μολπαῖσι βροτούς· ἵνα δ' εὔδειπνοι 200
δαῖτες, τί μάτην τείνουσι βοήν;
τὸ παρὸν γὰρ ἔχει τέρψιν ἀφ' αὑτοῦ
δαιτὸς πλήρωμα βροτοῖσιν.
«Dicendo stolti e per niente sapienti / i mortali di un tempo non sbaglieresti, / essi che trovarono per feste / e banchetti e durante le cene / inni (che sono) un piacevole ascoltare per la vita; / nessuno invece trovò (il modo di) far cessare / con la poesia e con i canti dai molti toni / le odiose sofferenze dei mortali, per le quali morti / e terribili casi abbattono le stirpi. / Eppure questo sì sarebbe un guadagno, sanare / coi canti i mortali; ma dove lauti / sono i banchetti, perché tendono la voce invano? / Infatti la già presente abbondanza della mensa / comprende da sé gioia per i mortali».
Mentre Enea contempla le scene mirabili entra Didone nel tempio e questa è la similitudine che la descrive. Nota è la ripresa dei versi dell'Odissea.
498-504
Qualis in Eurotae ripis aut per iuga Cynthi
exercet Diana choros, quam mille secutae
hinc atque hinc glomerantur oreades; illa pharetram
fert umero, gradiensque deas supereminet omnis:
Latonae tacitum pertemptant gaudia pectus:
talis erat Dido, talem se laeta ferebat
per medios, instans operi regnisque futuris
«Quale sulle rive dell’Eurota o per i gioghi del Cinto / guida le danze Diana, seguendo la quale mille / Oreadi si affollano di qua e di là; ella la faretra / porta sulla spalla, e nell’incedere si eleva sopra tutte le dèe: / la gioia pervade il tacito petto di Latona: / tale era Didone, tale si muoveva lieta / attraverso i suoi, intenta alla costruzione del regno futuro».
La similitudine è ripresa da Odissea, VI vv. 102-109, dove Artemide è paragonata a Nausicaa. La situazione si presenta con molte analogia: Enea come Ulisse è un naufrago bisognoso di aiuto, Didone come Nausicaa è di stirpe regale e destinata ad ainnamorarsi. Tuttavia c’è un elemento che manca in Virgilio, che poi è ciò che rende speciale i versi di Omero, cioè il fatto che Nausicaa emerge nonostante tutte siano belle.
οἵη δ' Ἄρτεμις εἶσι κατ' οὔρεα ἰοχέαιρα,
ἢ κατὰ Τηΰγετον περιμήκετον ἢ Ἐρύμανθον,
τερπομένη κάπροισι καὶ ὠκείῃσ' ἐλάφοισι·
τῇ δέ θ' ἅμα Νύμφαι, κοῦραι Διὸς αἰγιόχοιο, 105
ἀγρονόμοι παίζουσι· γέγηθε δέ τε φρένα Λητώ·
πασάων δ' ὑπὲρ ἥ γε κάρη ἔχει ἠδὲ μέτωπα,
ῥεῖά τ' ἀριγνώτη πέλεται, καλαὶ δέ τε πᾶσαι·
ὣς ἥ γ' ἀμφιπόλοισι μετέπρεπε παρθένος ἀδμής.
«Quale Artemide saettatrice va per i monti, / o per il Taigeto sommo o per l’Erimanto, / gioendo dei cinghiali e dei veloci cervi; e insieme a lei le Ninfe, figlie di Zeus Egioco, / giocano per i campi; gode nel cuore Latona; ma su tutte si eleva quella col capo e il volto, / ed è facilmente riconoscibile, eppure tutte son belle; / così la vergine intatta si distingueva tra le ancelle».
Nel frattempo Enea e Acate riconoscono gli amici che credevano dispersi i quali parlano con Didone chiedendo ospitalità. Didone, che ancora non si è accorta di Enea perché nascosto da Venere in una nube, si scusa del trattamento non proprio amichevole.
vv. 562-564
Solvite corde metum, Teucri, secludite curas.
Res dura et regni novitas me talia cogunt
moliri, et late finis custode tueri
«Sciogliete la paura dal cuore, Teucri, allontanate l’ansia. / La situazione difficile e la novità del regno mi costringono a / prendere tali precauzioni, e a proteggere con guardie in ampiezza i confini».
A questo punto si rompe la nuvola che avvolge Enea, il quale si rivolge a Didone ammirato, dopo aver sinteticamente descritto le sue tribolate vicende.
vv. 605-6
Quae te tam laeta tulerunt
saecula? Qui tanti talem genuere parentes?
«Quali età tanto felici ti hanno / portato? Quali genitori di così grande valore ti hanno generato siffatta?».
Anche qui possiamo confrontare Enea con Ulisse, che si rivolge a Nausicaa per chiederle aiuto con le parole che seguono.
Omero, Odissea, VI, 149-63
γουνοῦμαί σε, ἄνασσα· θεός νύ τις ἦ βροτός ἐσσι;
εἰ μέν τις θεός ἐσσι, τοὶ οὐρανὸν εὐρὺν ἔχουσιν, 150
Ἀρτέμιδί σε ἐγώ γε, Διὸς κούρῃ μεγάλοιο,
εἶδός τε μέγεθός τε φυήν τ' ἄγχιστα ἐΐσκω·
εἰ δέ τίς ἐσσι βροτῶν, οἳ ἐπὶ χθονὶ ναιετάουσι,
τρὶς μάκαρες μὲν σοί γε πατὴρ καὶ πότνια μήτηρ,
τρὶς μάκαρες δὲ κασίγνητοι· μάλα πού σφισι θυμὸς 155
αἰὲν ἐϋφροσύνῃσιν ἰαίνεται εἵνεκα σεῖο,
λευσσόντων τοιόνδε θάλος χορὸν εἰσοιχνεῦσαν.
κεῖνος δ' αὖ περὶ κῆρι μακάρτατος ἔξοχον ἄλλων,
ὅς κέ σ' ἐέδνοισι βρίσας οἶκόνδ' ἀγάγηται.
οὐ γάρ πω τοιοῦτον ἴδον βροτὸν ὀφθαλμοῖσιν, 160
οὔτ' ἄνδρ' οὔτε γυναῖκα· σέβας μ' ἔχει εἰσορόωντα.
Δήλῳ δή ποτε τοῖον Ἀπόλλωνος παρὰ βωμῷ
φοίνικος νέον ἔρνος ἀνερχόμενον ἐνόησα·
«Mi inginocchio davanti a te, signora; sei una dea o una mortale? / Se sei una dea, di quelli che possiedono l’ampio cielo, / ad Artemide, figlia del grande Zeus, io ti / assimilo da molto vicino per aspetto e corporatura e portamento; / se invece sei una mortale, di quelli che abitano sulla terra, / tre volte beati per te il padre e la veneranda madre, / tre volte beati i fratelli; molto a loro il cuore / si rallegra sempre di gioia grazie a te, / mentre guardano un tale bocciolo andare alla danza. / Ma sopra gli altri nel cuore beato quello, / che caricandoti di doni ti conduca a casa. / Infatti non vidi mai con gli occhi un tale essere mortale, / né uomo né donna; mi prende venerazione a vederti. / Una volta però a Delo presso l’altare di Apollo / vidi levarsi un tale giovane virgulto di palma».
Alla vista di Enea la reazione di Didone viene così descritta.
614-5
Obstipuit primo aspectu Sidonia Dido,
casu deinde viri tanto, et sic ore locuta est
«Rimase immobile per lo stupore la sidonia Didone prima vedendolo , / poi per la vicenda così grande dell’eroe, e così si espresse a parole».
630
Non ignara mali, miseris succurrere disco.
«Non ignara del male, imparo a soccorrere i miseri».
Qui è espresso il topos del πάθει μάθος, la cui formulazione con queste efficaci parole risale a Eschilo, Agamennone, 177, ma si trova in molti altri autori:
Esiodo, Opere e giorni, vv. 217-218
δίκη δ' ὑπὲρ ὕβριος ἴσχει
ἐς τέλος ἐξελθοῦσα· παθὼν δέ τε νήπιος ἔγνω.
«Ma giustizia prevale sulla prepotenza, / quando alla fine arriva; anche uno stolto comprende soffrendo».
Eschilo, Agamennone, 177
Ζῆνα δέ τις προφρόνως ἐπινίκια κλάζων
τεύξεται φρενῶν τὸ πᾶν,
τὸν φρονεῖν βροτοὺς ὁδώ-
σαντα, τὸν πάθει μάθος
θέντα κυρίως ἔχειν.
«Chi intona a Zeus con gioia il canto della vittoria / otterrà in tutto saggezza, / Zeus che ha avviato i mortali ad essere saggi, / che ha stabilito come legge principale / attraverso la sofferenza la comprensione».
Eschilo, Prometeo, 391
ἡ σή, Προμηθεῦ, συμφορὰ διδάσκαλος
«La tua disgrazia, Prometeo, è maestra».
Sofocle, Edipo a Colono, 567-68
ἔξοιδ’ ἀνὴρ ὢν χὤτι τῆς ἐς αὔριον
οὐδὲν πλέον μοι σοῦ μέτεστιν ἡμέρας.
«So di essere un uomo e che il giorno di / domani non appartiene affatto più a me che a te».
Un’affermazione di umanesimo esemplare come quella di Antigone:
Sofocle, Antigone, 523
Οὔτοι συνέχθειν, ἀλλὰ συμφιλεῖν ἔφυν.
«Sono nata per condividere non certo l’odio, ma l’amore».
Euripide, Medea, 34
ἔγνωκε δ' ἡ τάλαινα συμφορᾶς ὕπο
«Ha compreso l'infelice dalla disgrazia»
Euripide, Alcesti, 940
ἄρτι μανθάνω
«ora comprendo»
Questa di Admeto nell’Alcesti è una resipiscenza tardiva, dopo essersi pentito per aver fatto morire la moglie al posto suo.
Platone, Repubblica, X, 619 c-d
εἶναι δὲ αὐτὸν τῶν ἐκ τοῦ οὐρανοῦ ἡκόντων, ἐν τεταγμένῃ πολιτείᾳ ἐν τῷ προτέρῳ βίῳ βεβιωκότα, ἔθει ἄνευ φιλοσοφίας ἀρετῆς μετειληφότα. ὡς δὲ καὶ εἰπεῖν, οὐκ ἐλάττους εἶναι ἐν τοῖς τοιούτοις ἁλισκομένους τοὺς ἐκ τοῦ οὐρανοῦ ἥκοντας, ἅτε πόνων ἀγυμνάστους: τῶν δ᾽ ἐκ τῆς γῆς τοὺς πολλούς, ἅτε αὐτούς τε πεπονηκότας ἄλλους τε ἑωρακότας, οὐκ ἐξ ἐπιδρομῆς τὰς αἱρέσεις ποιεῖσθαι.
«Era egli di quelli giunti dal cielo, e aveva vissuto nella vita precedente in uno stato disciplinato, partecipando della virtù per abitudine senza filosofia. Ma per così dire, non erano in numero minore ad essere colti in siffatti comportamenti coloro che erano giunti dal cielo, in quanto non allenati alle sofferenze; invece tra quelli risaliti dalla terra i più, siccome avevano sofferto in prima persona e avevano visto altri soffrire, non di fretta compivano le scelte».
Polibio, Storie, I, 35, 7
δυεῖν γὰρ ὄντων τρόπων πᾶσιν ἀνθρώποις τῆς ἐπὶ τὸ βέλτιον μεταθέσεως, τοῦ τε διὰ τῶν ἰδίων συμπτωμάτων καὶ τοῦ διὰ τῶν ἀλλοτρίων, ἐναργέστερον μὲν εἶναι συμβαίνει τὸν διὰ τῶν οἰκείων περιπετειῶν, ἀβλαβέστερον δὲ τὸν διὰ τῶν ἀλλοτρίων.
«Essendo infatti due i modi del cambiamento in meglio per tutti gli uomini, uno attraverso le sventure proprie e l'altro attraverso quelle altrui, succede che sia più evidente (efficace) quello attraverso le peripezie personali, ma meno dannoso quello attraverso le peripezie altrui».
Nietzsche, Umano, troppo umano, I
Parte terza, La vita religiosa
109. Dolore è conoscenza. Ora la tragedia è questa, che non si può credere a quei dogmi della religione e della metafisica, se si porta nel cuore e nella mente il severo metodo della verità, e d'altra parte si è divenuti attraverso l'evoluzione dell'umanità così delicati, eccitabili e sofferenti, da aver bisogno di mezzi di salute e di consolazione della più alta specie; dal che sorge quindi il pericolo che l'uomo si dissangui sulla verità conosciuta. Ciò esprime Byron in versi immortali:
Sorrow is knowledge: they who know the most
Must mourn the deepest o’er the fatal truth,
The Tree of Knowledge is not that of life.1
Contro tali cure, nessun mezzo giova più dell'evocare, almeno per le ore più tristi e buie dell'anima, la solenne leggerezza di Orazio, e del dire a se stessi con lui:
quid aeternis minorem
consiliis animum fatigas?
Cur non sub alta vel platano vel hac
pinu iacentes...2
[...] Quei dolori possono essere veramente penosi, ma senza dolori non si può diventare una guida e un educatore dell'umanità.
Nietzsche, Umano, troppo umano, II
Parte prima, Opinioni e sentenze
48. Aver molta gioia. Chi ha molta gioia, dev'essere un brav'uomo: ma forse non è il più intelligente, benché raggiunga proprio ciò che il più intelligente con tutta la sua intelligenza cerca di raggiungere.
Nietzsche, La gaia scienza, libro primo
13. Per la teoria del sentimento di potenza. … il dolore si pone sempre il problema della causa, mentre il piacere tende ad arrestarsi su se stesso e a non guardarsi indietro.
Nietzsche, Genealogia della morale
seconda dissertazione, «colpa», «cattiva coscienza» e simili, 3
«Si incide a fuoco qualcosa affinché resti nella memoria: soltanto quel che non cessa di dolorare resta nella memoria» – è questo un assioma della più antica (purtroppo anche più longeva) psicologia sulla terra…
Nausicaa reagisce con uno stile diverso, ma anche lei umanamente:
Odissea, VI, vv. 189-190
ξεῖν', ἐπεὶ οὔτε κακῷ οὔτ' ἄφρονι φωτὶ ἔοικας,
Ζεὺς δ' αὐτὸς νέμει ὄλβον Ὀλύμπιος ἀνθρώποισιν,
ἐσθλοῖσ' ἠδὲ κακοῖσιν, ὅπως ἐθέλῃσιν, ἑκάστῳ·
καί που σοὶ τά γ' ἔδωκε, σὲ δὲ χρὴ τετλάμεν ἔμπης.
«Straniero, siccome non sembri una creatura né cattiva né stupida, / Zeus Olimpio in persona attribuisce felicità agli uomini, / buoni e cattivi, come vuole a ciascuno; / e a te questo ha dato, ed è necessario che tu lo sopporti in ogni caso».
E più avanti, vv. 207-208: πρὸς γὰρ Διός εἰσιν ἅπαντες / ξεῖνοί τε πτωχοί τε, δόσις δ' ὀλίγη τε φίλη τε, «infatti vengono tutti da Zeus / stranieri e mendicanti, e un dono anche piccolo è gradito».
A questo punto viene organizzato un grande banchetto per accogliere gli ospiti e Enea manda a chiamare gli altri e soprattutto il figlio Ascanio.
v. 646
omnis in Ascanio cari stat cura parentis
«L’attenzione del caro padre è tutta su Ascani».
A questo punto Venere, temendo che l’ospitalità dei Cartaginesi, devoti di Giunone, non sia sincera, e le insidie della dea stessa, ordisce la sua trama per assicurare ad Enea un piacevole e riposante soggiorno.
657-60
At Cytherea novas artes, nova pectore versat
Consilia, ut faciem mutatus et ora Cupido
pro dulci Ascanio veniat, donisque furentem
incendat reginam, atque ossibus implicet ignem
«Ma la Citerea rivolge nel petto nuove arti, nuovi / progetti, affinché mutato nell’aspetto e nel volto Cupido / vada al posto del dolce Ascanio, e con doni la folle regina / infiammi, e appicchi il fuoco alle ossa».
Rimane tuttavia la preoccupazione che Giunone non stia con le mani in mano, data la favorevole occasione (ricordiamo che Cartagine è devota alla regina degli dèi, che dunque si trova su un terreno favorevole).
672-674
haud tanto cessabit cardine rerum.
Quocirca capere ante dolis et cingere flamma
reginam meditor
«Non starà ferma in una congiuntura così critica. / Perciò catturare prima con inganni e cingere di fiamma / la regina medito».
Quindi si rivolge al figlio, Cupido, illustrandogli il compito che dovrà svolgere, cioè far innamorare Didone. Dalle parole che usa emerge un’idea estremamente negativa dell’amore.
683-689
“Tu faciem illius noctem non amplius unam
falle dolo, et notos pueri puer indue voltus
ut, cum te gremio accipiet laetissima Dido
regalis inter mensas laticemque Lyaeum,
cum dabit amplexus atque oscula dulcia figet,
occultum inspires ignem fallasque veneno.”
Paret Amor dictis carae genetricis.
«“Tu per non più di una notte simula con l’inganno / l’ aspetto di quello, e tu fanciullo indossa le note sembianze del fanciullo / affinché, quando Didone ti accoglierà piena di gioia in grembo / tra le mense regali e il liquore Lieo, / quando offrirà abbracci e inchioderà dolci baci, / infoda un fuoco nascosto e la inganni col veleno.” / Ubbidisce Amore alle parole dell’amata genitrice».
A questo punto comincia il banchetto e tutti, contenti, ammirano i doni dei Troiani e vezzeggiano il bambino. Didone invece comincia a scivolare in un precipizio da cui non potrà risalire.
vv. 712-714
Praecipue infelix, pesti devota futurae,
expleri mentem nequit ardescitque tuendo
Phoenissa
«Particolarmente infelice, consacrata alla peste imminente, / non può saziare la mente e brucia guardando / la Fenicia.»
Il banchetto comunque prosegue e Didone lo protrae chiedendo ad Enea di raccontare le sue avventure.
748-49
Nec non et vario noctem sermone trahebat
infelix Dido, longumque bibebat amorem
«E così pure protraeva con vari discorsi la notte / l’infelice Didone, e beveva il lungo amore».
Il canto si conclude con la richiesta ad enea di raccontare tutto dal principio; tale racconto occupa i canti II e III, che corrispondono ai cosiddetti “apologhi” dell’Odissea.
Liber secundus
v. 1
Conticuere omnes, intentique ora tenebant
«Tacquero tutti, e attenti tendevano i volti.»
I versi che seguono sono alcuni di quelli famosi in cui Laocoonte tenta senza successo di dissuadere i Troiani dall’accettare il dono del cavallo.
vv. 43-4
Creditis avectos hostis? Aut ulla putatis
dona carere dolis Danaum? Sic notus Ulixes?
«Credete partiti i nemici? Oppure pensate che / dei doni dei Danai siano privi di inganni? Così vi è noto Ulisse?»
vv. 48-9
equo ne credite, Teucri.
Quicquid id est, timeo Danaos et dona ferentis
«Non fidatevi del cavallo, Teucri. / Qualunque casa sia, temo i Danai anche se portano doni.»
vv. 65-6
Accipe nunc Danaum insidias, et crimine ab uno
disce omnes.
«Accetta ora le insidie dei Danai, e da un solo crimine / imparali tutti.»
I versi che seguono riportano le parole del figlio di Achille in procinto di vendicare il padre. Poco prima Priamo aveva ricordato la nobiltà di Achille, che aveva restituito il corpo di Ettore, accusando Nettolemo di non essere veramente figlio di suo padre. La scena è raccontata da Enea che mentre si aggira smarrito in mezzo alla strage, nascosto osserva.
vv. 547-50
Cui Pyrrhus: “Referes ergo haec et nuntius ibis
Pelidae genitori; illi mea tristia facta
degeneremque Neoptolemum narrare memento.
Nunc morere.”
«E a lu Pirro: “Queste cose dunque riferirai e andrai nunzio / al padre Pelide; ricordati di narrare a lui / le mie tristi azioni e l’ignobile neottolemo. / Ora crepa.”»
Il verso che segue è il famoso invito di Enea, rivolto al padre, a salire sulle proprie spalle.
707
ergo age, care pater, cervici imponere nostrae;
«Su dunque, caro padre, sali sulle nostre spalle»
Creusa, la moglie di Enea si è smarrita; in realtà è morta e mentre Enea la cerca disperatamente, gli appare dicendogli di non preoccuparsi.
792-4
Ter conatus ibi collo dare bracchia circum:
ter frustra comprensa manus effugit imago,
par levibus ventis volucrique simillima somno3
«Tre volte tentai allora di metterle intorno al collo le braccia: / tre volte invano afferrata sfuggì dalle mani il fantasma, / pari ai venti leggeri e similissima all’alato sonno.»
Questo è un τόπος gestuale che risale a Omero, Odissea, XI, 206-208: τρὶς μὲν ἐφωρμήθην, ἑλέειν τέ με θυμὸς ἀνώγει, / τρὶς δέ μοι ἐκ χειρῶν σκιῇ / εἴκελον ἢ καὶ ὀνείρῳ / ἔπτατ' «tre volte mi lancia, e il cuore mi spingeva ad abbracciarla, / tre volte dalle mie mani a ombra simile o a sogno / volò via».
Tale τόπος sarà poi ripreso da Dante in Purgatorio, II, 76-81, quando incontra il suo amico Casella:
«Io vidi una di lor trarresi avante
per abbracciarmi con sì grande affetto,
che mosse me a far lo somigliante.
Ohi ombre vane, fuor che ne l'aspetto!
tre volte dietro a lei le mani avvinsi,
e tante mi tornai con esse al petto».
Liber tertius
L’incontro con Polidoro, ucciso dal re tracio Licurgo (che lo ospitava per conto di Priamo in cambio di una ricompensa, ma che poi, visto l’andamento della guerra, era passato dalla parte degli Achei), è l’occasione per uno degli interventi appassionati del narratore; in questo caso tuttavia le parole sono pronunciate direttamente da Enea che si è fatto narratore di secondo grado.
vv. 56-7
Quid non mortalia pectora cogis,
auri sacra fames?
«A cosa non costringi i petti mortali, / maledetta fame dell’oro?»
Il passo offre anche lo spunto a Dante (Inferno, XIII, 46-48) per un ironico rimprovero da parte di Virgilio, quando Dante rompe un ramo che in realtà è Pier delle Vigne e si stupisce:
“S'elli avesse potuto creder prima”,
rispuose 'l savio mio, “anima lesa,
ciò c' ha veduto pur con la mia rima… ”
1 «Dolore è la conoscenza: coloro che conoscono più di tutti / devono soffrire più profondamente di tutti per questa fatale verità, / l'albero della conoscenza non è quello della vita» (Byron, Manfredi, I, 1, 11-13).
2 fugit retro / levis iuventas et decor, arida / pellente lascivos amores / canitie facilemque somnum. / Non semper idem floribus est honor / vernis neque uno luna rubens nitet / voltu: quid aeternis minorem / consiliis animum fatigas? / Cur non sub alta vel platano vel hac / pinu iacentes (11-14) sic temere et rosa / canos odorati capillos,/ dum licet, Assyriaque nardo / potamus uncti? «Fugge dietro a noi la leggera gioventù e la grazia, mentre l'arida / vecchiaia scaccia i lascivi amori / e il facile sonno. / Non è sempre la stessa la bellezza dei fiori / primaverili né la luna rosseggiante risplende con un solo / volto: perché stanchi con eterni progetti / un cuore che è più piccolo? / Perché, sdraiati così alla buona sotto un alto platano / o sotto questo pino / coi capelli grigi profumati di rosa / e unti di nardo assiro, / finché è possibile, perché non beviamo?» (Orazio, Odi, II, 11, vv. 5-17).
3 Gli stessi identici tre versi si trovano nel canto VI, vv. 700-702, riferiti all’incontro col padre Anchise negli Inferi.
Nessun commento:
Posta un commento