La teoria della classe media
Tale teoria, che attribuisce il primato morale a quello che oggi chiamiamo “ceto medio”, si trova espressa compiutamente nelle Supplici di Euripide, 238-45:
τρεῖς γὰρ πολιτῶν μερίδες: οἳ μὲν ὄλβιοι
ἀνωφελεῖς τε πλειόνων τ᾽ ἐρῶσ᾽ ἀεί:
οἳ δ᾽ οὐκ ἔχοντες καὶ σπανίζοντες βίου
δεινοί, νέμοντες τῷ φθόνῳ πλέον μέρος,
ἐς τοὺς ἔχοντας κέντρ᾽ ἀφιᾶσιν κακά,
γλώσσαις πονηρῶν προστατῶν φηλούμενοι:
τριῶν δὲ μοιρῶν ἡ 'ν μέσῳ σῴζει πόλεις,
κόσμον φυλάσσουσ᾽ ὅντιν᾽ ἂν τάξῃ πόλις.
«Tre infatti sono le classi di cittadini: i ricchi sono / inutili e bramano sempre di più; / quelli che non hanno nulla e mancano di mezzi di sussistenza / sono temibili: attribuendo troppa parte all’invidia, / lanciano strali cattivi contro i possidenti, / tratti in inganno dalle lingue di capi malvagi; / delle tre classi quella che sta in mezzo salva le città, / preservando l’ordine che la città disponga».
Tale orientamento politico trova un’eco ironica nell’aristocratico Aristofane (Rane, 947-950), che fa dire al personaggio Euripide:
ἔπειτ᾽ ἀπὸ τῶν πρώτων ἐπῶν οὐδὲνα παρῆκ᾽ ἂν ἀργόν,
ἀλλ᾽ ἔλεγεν ἡ γυνή τέ μοι χὠ δοῦλος οὐδὲν ἧττον,
χὠ δεσπότης χἠ παρθένος χἠ γραῦς ἄν.
δημοκρατικὸν γὰρ αὔτ᾽ ἔδρων.
poi fin dalla prime parole non lasciavo nessuno inattivo, / ma parlava la donna per me non meno dello schiavo / e il padrone e la ragazza e la vecchia. / infatti facevo questo democraticamente».
Ad Aristofane si ispira Nietzsche nella sua invettiva contro “l’empio Euripide” (La nascita della tragedia, cap. 11):
Lo spettatore fu portato da Euripide sulla scena [...] Per opera sua l’uomo della vita quotidiana si spinse, dalla parte riservata agli spettatori, sulla scena; lo specchio, in cui prima venivano riflessi solo i tratti grandi e arditi, mostrò ora quella meticolosa fedeltà che riproduce coscienziosamente anche le linee non riuscite della natura. Odisseo, il tipico Greco dell’arte antica, si abbassò ora [...] nella figura del greculo, che in seguito rimase [...] come schiavo domestico bonario e scaltro [...]
Euripide si ascrive a merito nelle Rane di Aristofane di aver liberato coi suoi rimedi casalinghi l’arte tragica dalla sua pomposa corpulenza [...] lo spettatore vedeva e sentiva ora sulla scena euripidea il suo sosia, e si rallegrava che quello sapesse parlare tanto bene [...] con Euripide gli spettatori imparavano essi stessi a parlare, e di ciò Euripide stesso si vanta nella gara con Eschilo [...]
Da allora in poi non fu più un segreto in che modo e con quali sentenze la vita quotidiana si potesse rappresentare sulla scena. Prendeva ora a parlare la mediocrità cittadina, su cui Euripide fondava tutte le sue speranze politiche.
A tale interpretazione spregiativa possiamo contrapporre quella di Gilbert Murray (Euripides and His Age, pp. 194-195):
Like other ideal democrats he turned away from the actual Demos, which surrounded him and howled him down, to a Demos of his imagination, pure and uncorrupted, in which the heart of the natural man should speak. His later plays break out more than once into praises of the unspoiled countryman, neither rich nor poor, who works with his own arm and whose home is “the solemn mountain” not the city streets (cf. especially Orestes, 917-922, as contrasted with 903 ff.; also the Peasant in the Electra; also Bac., 717).
Come altri democratici idealisti, Euripide si scostò dal Demos reale, che lo copriva di contumelie, per rifugiarsi nel puro e incorruttibile Demos della sua immaginazione, in cui veramente poteva parlare il cuore dell’uomo della natura. Più d’una volta, nelle sue ultime opere, prorompe l’elogio del contadino non guasto, né povero né ricco, che lavora colle sue braccia e ha casa «sulla montagna solenne» invece che nella strada della città (cfr. specialmente Oreste, 917-922, in contrasto con 903 e segg.; e anche il contadino dell’Elettra e le Baccanti, 717) [Trad. it. di Nina Ruffini, Bari, Laterza, 1932, p. 130].
Vediamo l’Elettra, vv. 367-376:
οὐκ ἔστ’ ἀκριβὲς οὐδὲν εἰς εὐανδρίαν·
ἔχουσι γὰρ ταραγμὸν αἱ φύσεις βροτῶν.
«Non c’è nulla di preciso in rapporto al valore di un uomo: / sono confuse infatti le nature dei mortali».
ἤδη γὰρ εἶδον ἄνδρα γενναίου πατρὸς
τὸ μηδὲν ὄντα, χρηστά τ’ ἐκ κακῶν τέκνα,
λιμόν τ’ ἐν ἀνδρὸς πλουσίου φρονήματι,
γνώμην τε μεγάλην ἐν πένητι σώματι.
«Ho già visto infatti un uomo di padre nobile / che non vale nulla, e buoni figli nati da infami, / miseria nella boria di un uomo ricco, / grande spirito in un corpo povero».
πῶς οὖν τις αὐτὰ διαλαβὼν ὀρθῶς κρινεῖ;
πλούτῳ; πονηρῷ τἄρα χρήσεται κριτῇ.
ἢ τοῖς ἔχουσι μηδέν; ἀλλ’ ἔχει νόσον
πενία, διδάσκει δ’ ἄνδρα τῇ χρείᾳ κακόν.
«Come dunque uno giudicherà distinguendo correttamente? / In base alla ricchezza? Si avvarrà di un giudice davvero cattivo. / O in base a chi non possiede nulla? Ma ha una malattia / la povertà, insegna all’uomo, col bisogno, il male».
Quindi riferendosi al contadino, dato in marito a Elettra, «uomo povero ma nobile» πένης ἀνὴρ γενναῖος (v. 253), conclude (vv. 386-391):
οἱ γὰρ τοιοῦτοι καὶ πόλεις οἰκοῦσιν εὖ
καὶ δώμαθ’· αἱ δὲ σάρκες αἱ κεναὶ φρενῶν
ἀγάλματ’ ἀγορᾶς εἰσιν. οὐδὲ γὰρ δόρυ
μᾶλλον βραχίων σθεναρὸς ἀσθενοῦς μένει·
ἐν τῇ φύσει δὲ τοῦτο κἀν εὐψυχίᾳ.
«Tali persone infatti amministrano bene sia le città / sia le case: ma le carni vuote di intelligenza / sono statue da piazza. Né infatti sostiene il colpo di una lancia / un braccio forte più di uno debole: / questa virtù si trova nell’indole e in un animo di valore».
In chi Euripide identificasse il rappresentante di questa classe media emerge infine nell’Oreste, vv. 918-920:
μορφῇ μὲν οὐκ εὐωπός, ἀνδρεῖος δ' ἀνήρ,
ὀλιγάκις ἄστυ κἀγορᾶς χραίνων κύκλον,
αὐτουργός, οἵπερ καὶ μόνοι σῴζουσι γῆν,
«uno non dal bel volto nell’aspetto, ma un uomo valoroso, / che di rado entra in contatto con la città e il cerchio della piazza, / un contadino che vive del suo lavoro, e di quelli che soli salvano il paese».
Tale esempio positivo viene contrapposto a quello dei versi precedenti (903-908):
ἀνήρ τις ἀθυρόγλωσσος, ἰσχύων θράσει·
[Ἀργεῖος οὐκ Ἀργεῖος, ἠναγκασμένος,
θορύβῳ τε πίσυνος κἀμαθεῖ παρρησίᾳ,
πιθανὸς ἔτ' αὐτοὺς περιβαλεῖν κακῷ τινι.
ὅταν γὰρ ἡδύς τις λόγοις φρονῶν κακῶς
πείθῃ τὸ πλῆθος, τῇ πόλει κακὸν μέγα·
«un uomo dalla lingua senza freni, forte della sua arroganza; / un Argivo non Argivo, costretto, / uno che confida nella confusione e nella sua ignorante libertà di parola, / persuasivo inoltre nell’avvolgerli in un qualche male. / Qualora uno piacevole nelle parole ma male intenzionato / persuada la massa, per la città è un grande male».
Possiamo vedere qui contrapposte due concezioni di democrazia, una che potremmo definire demagogica (vedi scheda che segue), avversata da Euripide, e una più idealizzata, delineata nei versi citati sopra.
Contro i demagoghi
Euripide, Baccanti, 266-271
Τε. ὅταν λάβῃ τις τῶν λόγων ἀνὴρ σοφὸς
καλὰς ἀφορμάς, οὐ μέγ' ἔργον εὖ λέγειν·
σὺ δ' εὔτροχον μὲν γλῶσσαν ὡς φρονῶν ἔχεις,
ἐν τοῖς λόγοισι δ' οὐκ ἔνεισί σοι φρένες.
θράσει δὲ δυνατὸς καὶ λέγειν οἷός τ' ἀνὴρ 270
κακὸς πολίτης γίγνεται νοῦν οὐκ ἔχων.
266-271: «Ti. Quando un uomo sapiente nei discorsi coglie / buoni inizi, non è una grande impresa parlare bene; / tu hai una lingua svelta, come se fossi assennato, / però nelle tue parole non c’è senno. / E un uomo forte per audacia e capace di parlare / risulta un cittadino cattivo se non ha intelletto».
266-271 – Il discorso di Tiresia ha una struttura più formale rispetto a quello di Penteo, il quale era trascinato dall’ira. Conformemente alla prassi oratoria dei Greci si sviluppa a partire da un προοίμιον o proemio (vv. 266-271), prosegue con una serie di πίστεις o argomentazioni e si conclude con un ἐπίλογος o peroratio (vv. 319-27). Il προοίμιον è del tipo di quelli prediletti dagli oratori – una denuncia dell’abuso delle abilità tecniche da parte dell’oratore avversario. Dodds ritiene che questo discorso non abbia un carattere puramente convenzionale: Euripide riflette ripetutamente sul male prodotto dall’arte della persuasione (πειθώ) quando viene esercitata da uomini senza scrupoli e qui sembra voler impartire una lezione che vorrebbe che il suo pubblico facesse propria (vedi scheda in mezzo al testo). In effetti questo era il pericolo più grande dell’antica come della moderna democrazia. Ciò che Euripide ha in mente qui è suggerito dalla sentenza sul κακὸς πολίτης (v. 271), che è poco appropriata in bocca a chi si sta rivolgendo a un re, e in effetti sembra rivolta a orecchie ateniesi piuttosto che macedoni. Ricordiamo che in Macedonia Euripide era stato ospitato in un regno.
266-267 – τῶν λόγων … καλὰς ἀφορμάς: ἀφορμή/-αί ha come significato di base «ciò da cui si parte» e ha sviluppato una serie di significati tecnici in campi diversi: nel linguaggio militare è la base delle operazioni, in quello commerciale il capitale, nel linguaggio giuridico è l’argomentare dell’avvocato. Euripide ama usare la parola nell’ultima accezione: Ecuba, 1238-1239, τὰ χρηστὰ πράγματα / χρηστῶν ἀφορμὰς ἐνδίδωσ' ἀεὶ λόγων, «le buone azioni / infondono sempre gli spunti di buone parole»; Fenicie, 198-200, φιλόψογον δὲ χρῆμα θηλειῶν ἔφυ, / σμικράς τ' ἀφορμὰς ἢν λάβωσι τῶν λόγων / πλείους ἐπεσφέρουσιν, «maligna è la natura delle femmine, / se colgono piccoli pretesti di chiacchiere / ne aggiungono in più». In tutti questi passi ἀφορμαί si riferisce al fondamento concreto dei fatti, λόγοι alla rappresentazione verbale. È una di quelle parole della prosa per mezzo delle quali Euripide provò ad attualizzare la dizione tragica. – μέγ' ἔργον: un’altra espressione colloquiale; cfr. Platone, Simposio, 187e, μέγα ἔργον ταῖς … ἐπιθυμίαις καλῶς χρῆσθαι, «è un compito importante … usare bene i desideri».
269 – Tiresia sta dicendo che è facile fare un buon discorso se si hanno abilità (σοφία) e solidi argomenti. Penteo ha la lingua svelta del σοφός ma il contenuto dei suoi discorsi è dissennato.
271 – νοῦν οὐκ ἔχων: qui è come se dicesse tu quoque a Penteo dopo che Penteo aveva così schernito i due vecchi al v. 252: ecco perché Tiresia lo dice così categoricamente.
Sui ripetuti attacchi ai demagoghi cfr. Medea, 580-583: ἐμοὶ γὰρ ὅστις ἄδικος ὢν σοφὸς λέγειν / πέφυκε, πλείστην ζημίαν ὀφλισκάνει· / γλώσσῃ γὰρ αὐχῶν τἄδικ' εὖ περιστελεῖν / τολμᾷ πανουργεῖν· ἔστι δ' οὐκ ἄγαν σοφός, «per me infatti chi essendo ingiusto è abile a parlare / per natura, si merita una grandissima punizione; / vantandosi infatti di coprire per bene con la lingua azioni ingiuste / osa compiere nefandezze; ma non è troppo sapiente» (Medea risponde a Giasone il quale ha concluso il suo discorso dicendo che χρῆν γὰρ ἄλλοθέν ποθεν βροτοὺς / παῖδας τεκνοῦσθαι, θῆλυ δ' οὐκ εἶναι γένος· / χοὔτως ἂν οὐκ ἦν οὐδὲν ἀνθρώποις κακόν, «bisognerebbe che da qualche altra parte / nascessero i figli, e che non esistesse la razza delle femmine: / e così non ci sarebbe nessun male per gli esseri umani», vv. ); Ippolito, 486-489: τοῦτ' ἔσθ' ὃ θνητῶν εὖ πόλεις οἰκουμένας / δόμους τ' ἀπόλλυσ', οἱ καλοὶ λίαν λόγοι· / οὐ γάρ τὰ τοῖσιν ὠσὶ τερπνὰ χρὴ λέγειν / ἀλλ’ ἐξ ὅτου τις εὐκλεὴς γενήσεται, «è questo ciò che rovina le città ben governate dei mortali / e le case, i discorsi troppo belli; / infatti non bisogna dire le cose piacevoli alle orecchie / ma ciò da cui uno si procurerà buona fama» (cfr. Tucidide, I, 22, 4: καὶ ἐς μὲν ἀκρόασιν ἴσως τὸ μὴ μυθῶδες αὐτῶν ἀτερπέστερον φανεῖται· ὅσοι δὲ βουλήσονται τῶν τε γενομένων τὸ σαφὲς σκοπεῖν καὶ τῶν μελλόντων ποτὲ αὖθις κατὰ τὸ ἀνθρώπινον τοιούτων καὶ παραπλησίων ἔσεσθαι, ὠφέλιμα κρίνειν αὐτὰ ἀρκούντως ἕξει. κτῆμά τε ἐς αἰεὶ μᾶλλον ἢ ἀγώνισμα ἐς τὸ παραχρῆμα ἀκούειν ξύγκειται, «E forse l’elemento non mitico di esse [le sue storie N.d.T.] apparirà all’ascolto meno piacevole; quanti però vorranno considerare la chiarezza stessa dei fatti accaduti e che sono destinati ad accadere ancora una volta siffatti o simili secondo la natura umana, sarà sufficiente che le giudichino utili. Sono composte come un possesso per sempre piuttosto che come un pezzo da competizione da ascoltare sul momento»); Ecuba, 1187-1194: Ἀγάμεμνον, ἀνθρώποισιν οὐκ ἐχρῆν ποτε / τῶν πραγμάτων τὴν γλῶσσαν ἰσχύειν πλέον· / ἀλλ’ εἴτε χρήστ' ἔδρασε χρήστ' ἔδει λέγειν, / εἴτ’ αὖ πονηρὰ τοὺς λόγους εἶναι σαθρούς, / καὶ μὴ δύνασθαι τἄδικ' εὖ λέγειν ποτέ. / σοφοὶ μὲν οὖν εἰσ' οἱ τάδ' ἠκριβωκότες, / ἀλλ’ οὐ δύνανται διὰ τέλους εἶναι σοφοί, / κακῶς δ' ἀπώλοντ'· οὔτις ἐξήλυξέ πω, «Agamennone, bisognerebbe che per gli uomini mai / la lingua avesse più forza delle azioni compiute; / ma bisognerebbe che uno parlasse bene se ha compiuto azioni buone, / e se ne ha compiute di malvagie che le parole fossero guaste, / e non potesse mistificare le ingiustizie con bei discorsi. / Dunque sono sapienti quelli che hanno elaborato tali sottigliezze, / però non possono essere sapienti completamente, / e finiscono male: nessuno la fa franca, mai»; Fenicie, 526-5227: οὐκ εὖ λέγειν χρὴ μὴ 'πὶ τοῖς ἔργοις καλοῖς, / οὐ γὰρ καλὸν τοῦτ' ἀλλὰ τῇ δίκῃ πικρόν, «non bisogna dire belle parole su azioni non belle, / non è una bella cosa questa ma che ferisce la giustizia» (è la replica del corifeo alle famose parole di Eteocle εἴπερ γὰρ ἀδικεῖν χρή, τυραννίδος πέρι / κάλλιστον ἀδικεῖν, τἄλλα δ' εὐσεβεῖν χρεών, «infatti se proprio è necessario commettere ingiustizia, per la tirannide / è bellissimo commetterla, per il resto si deve essere pii», vv. 524-525; Cicerone, in De officiis, III, 82, ricorda che questi versi erano molto amati da Cesare: Ipse autem socer in ore semper Graecos versus de Phoenissis habebat, quos dicam ut potero; incondite fortasse sed tamen, ut res possit intellegi: “Nam si violandum est ius, regnandi gratia, / Violandum est; aliis rebus pietatem colas.” Capitalis Eteocles vel potius Euripides, qui id unum quod omnium sceleratissimum fuerit, exceperit, «Lo stesso suocero aveva sempre sulle labbra quei versi greci tratti dalle Fenicie, che dirò come potrò; poco elegantemente forse, ma tuttavia, in modo che si possa comprendere il concetto: “Infatti se bisogna violare il diritto, per regnare / bisogna violarlo; per il resto coltiva la pietà”. Avrebbe meritato la pena capitale Eteocle o piuttosto Euripide, che per quell’unica cosa, la più scellerata di tutte, ha fatto un’eccezione»); Oreste, vv. 907-908: ὅταν γὰρ ἡδύς τις λόγοις φρονῶν κακῶς / πείθηι τὸ πλῆθος, τῆι πόλει κακὸν μέγα, «qualora uno piacevole nelle parole ma male intenzionato / persuada la massa, per la città è un grande male» (poco prima un tale individuo era stato definito θορύβῳ τε πίσυνος κἀμαθεῖ παρρησίᾳ, «uno che confida nella confusione e nella sua ignorante libertà di parola»). Questi esempi li ho letti nel commento di Dodds; quest’ultimo l’ho notato io: nelle Troiane, quando Ecuba viene a sapere di essere stata assegnata a Ulisse, prorompe con questa invettiva (vv. 283-287): μυσαρῷ δολίῳ λέλογχα φωτὶ δουλεύειν, / πολεμίῳ δίκας, παρανόμῳ δάκει, / ὃς πάντα τἀκεῖθεν ἐνθάδ<ε στρέφει, τὰ δ’> / ἀντίπαλ’ αὖθις ἐκεῖσε διπτύχῳ γλώσσᾳ / φίλα τὰ πρότερ’ ἄφιλα τιθέμενος πάντων, «Ho avuto in sorte di essere schiava di un uomo nefando e fraudolento, / nemico di giustizia, una belva senza legge, / che tutto ciò che viene da là lo stravolge qua, / e al contrario di nuovo là con lingua biforcuta / rendendo senza amore le cose di prima amate da tutti»; in effetti Ulisse è nella tragedia l’archetipo mitologico del sofista truffaldino e anche del demagogo, nonché in generale il personaggio prediletto dai sofisti.
Nella concezione idealizzata la democrazia si contrappone alla tirannide in quanto rispettosa dell’uguaglianza1, come nelle Fenicie (rappresentata subito dopo il colpo di stato oligarchico del 411); Eteocle, che in questa tragedia rappresenta il tiranno, così si rivolge alla madre:
ἐγὼ γὰρ οὐδέν, μῆτερ, ἀποκρύψας ἐρῶ·
ἄστρων ἂν ἔλθοιμ' ἡλίου†πρὸς ἀντολὰς
καὶ γῆς ἔνερθε, δυνατὸς ὢν δρᾶσαι τάδε,
τὴν θεῶν μεγίστην ὥστ' ἔχειν Τυραννίδα.
«Io infatti, madre, parlerò senza dissimulare alcunché: / io andrei alle sorgenti degli astri e del sole / e dentro la terra, se avessi il potere di farlo, / pur di possedere la più grande delle divinità, la Tirannide» (503-506).
ἀνανδρία γάρ, τὸ πλέον ὅστις ἀπολέσας
τοὔλασσον ἔλαβε.
«sarebbe viltà infatti per uno perdere il più / e prendere il meno» (509-510).
ὡς οὐ παρήσω τῶιδ' ἐμὴν τυραννίδα.
εἴπερ γὰρ ἀδικεῖν χρή, τυραννίδος πέρι
κάλλιστον ἀδικεῖν, τἄλλα δ' εὐσεβεῖν χρεών.
«Sicché non consegnerò a costui la mia tirannide. / infatti se proprio è necessario commettere ingiustizia, per la tirannide / è bellissimo commetterla, per il resto si deve essere pii2» (523-525).
Questa la risposta di Giocasta , che è un inno all’uguaglianza:
τί τῆς κακίστης δαιμόνων ἐφίεσαι
Φιλοτιμίας, παῖ; μὴ σύ γ'· ἄδικος ἡ θεός·
«Perché sei trascinato dalla peggiore delle divinità3, / l’Ambizione, o figlio? Non farlo: è una dea ingiusta» (531-532)
κεῖνο κάλλιον, τέκνον,
Ἰσότητα τιμᾶν,
«Quello è più bello, figlio, / onorare, l’Uguaglianza» (535-536)
τὸ γὰρ ἴσον μόνιμον ἀνθρώποις ἔφυ,
τῷ πλέονι δ' αἰεὶ πολέμιον καθίσταται
τοὔλασσον ἐχθρᾶς θ' ἡμέρας κατάρχεται. 540
καὶ γὰρ μέτρ' ἀνθρώποισι καὶ μέρη σταθμῶν
Ἰσότης ἔταξε κἀριθμὸν διώρισεν,
νυκτός τ' ἀφεγγὲς βλέφαρον ἡλίου τε φῶς
ἴσον βαδίζει τὸν ἐνιαύσιον κύκλον,
κοὐδέτερον αὐτῶν φθόνον ἔχει νικώμενον. 545
εἶθ' ἥλιος μὲν νύξ τε δουλεύει μέτροις,
σὺ δ' οὐκ ἀνέξηι δωμάτων ἔχων ἴσον;
[καὶ τῷδ' ἀπονεῖμαι; κἆιτα ποῦ 'στιν ἡ δίκη;]
τί τὴν τυραννίδ', ἀδικίαν εὐδαίμονα,
τιμᾶις ὑπέρφευ καὶ μέγ' ἥγησαι τόδε; 550
«L’uguale infatti è per natura stabile per gli uomini, / mentre del più è sempre nemico / il meno e dà inizio al giorno dell’odio. / E infatti per gli uomini le misure e le parti di pesi / l’Uguaglianza le stabilì e definì il numero, / l’oscura palpebra della notte e la luce del sole / percorrono uguale il ciclo annuale, / e nessuno dei due prova invidia quando è vinto. / Se allora anche il sole e la notte si sottomettono alla misura, / non accetterai anche tu di avere una parte uguale della casa?4 / e di dare a questo la sua parte? E poi dove è la giustizia? / Perché la tirannide, un’ingiustizia felice5, / onori straordinariamente e pensi che ciò sia grande? (538-550)
τί δ' ἔστι τὸ πλέον; ὄνομ' ἔχει μόνον·
ἐπεὶ τά γ' ἀρκοῦνθ' ἱκανὰ τοῖς γε σώφροσιν.
[οὔτοι τὰ χρήματ' ἴδια κέκτηνται βροτοί, 555
τὰ τῶν θεῶν δ' ἔχοντες ἐπιμελούμεθα·
ὅταν δὲ χρῃζωσ' αὔτ' ἀφαιροῦνται πάλιν·
ὁ δ' ὄλβος οὐ βέβαιος ἀλλ' ἐφήμερος.]
«Ma cosa è il più? Ha solo un nome; / giacché ciò che basta è sufficiente per gli assennati. / Di certo i mortali non hanno beni propri in loro possesso, / ma ci prendiamo cura di cose che appartengono agli dèi: / quando vogliono se le riprendono indietro6; la prosperità non è salda, ma dura un giorno»(553-558).
1 Così la intendeva Erodoto nelle parole di Otane (III, 80) Πλῆθος δὲ ἄρχον πρῶτα μὲν οὔνομα πάντων κάλλιστον ἔχει, ἰσονομίην, «innanzitutto la maggioranza che comanda ha il nome più bello di tutti, “isonomia”», cioè legge uguale per tutti.
2 Cicerone, in De officiis, III, 82, ricorda che questi versi erano molto amati da Cesare: Ipse autem socer in ore semper Graecos versus de Phoenissis habebat, quos dicam ut potero; incondite fortasse sed tamen, ut res possit intellegi: “Nam si violandum est ius, regnandi gratia, / Violandum est; aliis rebus pietatem colas.” Capitalis Eteocles vel potius Euripides, qui id unum quod omnium sceleratissimum fuerit, exceperit, «Lo stesso suocero aveva sempre sulle labbra quei versi greci tratti dalle Fenicie, che dirò come potrò; poco elegantemente forse, ma tuttavia, in modo che si possa comprendere il concetto: “Infatti se bisogna violare il diritto, per regnare / bisogna violarlo; per il resto coltiva la pietà”. Avrebbe meritato la pena capitale Eteocle o piuttosto Euripide, che per quell’unica cosa, la più scellerata di tutte, ha fatto un’eccezione»
3 Secondo Sallustio, invece, è piuttosto simile alla virtù (Cat., 11, 1): Sed primo magis ambitio quam avaritia animos hominum exercebat, quod tamen vitium propius virtutem erat, «Ma in principio travagliava gli animi degli uomini più dell’avidità l’ambizione, che tuttavia è un vizio assai vicino alla virtù», si intende ovviamente una virtù alla Machiavelli, cioè svincolata dalla morale.
4 Cfr. Seneca, Epistulae, 4: 6. Cum rerum natura delibera: illa dicet tibi et diem fecisse se et noctem, «Prendi le decisioni in accordo con la natura: ella ti dirà che ha fatto sia il giorno sia la notte».
5 La stessa idea si trova in Platone, Repubblica, I, nelle parole di Trasimaco: φημὶ γὰρ ἐγὼ εἶναι τὸ δίκαιον οὐκ ἄλλο τι ἢ τὸ τοῦ κρείττονος συμφέρον, «io dico che il giusto non è altro che l'utile del più forte» (338c); poi più avanti aggiunge: πάντων δὲ ῥᾷστα μαθήσῃ, ἐὰν ἐπὶ τὴν τελεωτάτην ἀδικίαν ἔλθῃς, ἣ τὸν μὲν ἀδικήσαντα εὐδαιμονέστατον ποιεῖ, τοὺς δὲ ἀδικηθέντας καὶ ἀδικῆσαι οὐκ ἂν ἐθέλοντας ἀθλιωτάτους. ἔστιν δὲ τοῦτο τυραννίς, ἣ οὐ κατὰ σμικρὸν τἀλλότρια καὶ λάθρᾳ καὶ βίᾳ ἀφαιρεῖται, καὶ ἱερὰ καὶ ὅσια καὶ ἴδια καὶ δημόσια, ἀλλὰ συλλήβδην, «capirai nel modo più facile di tutti, se ti rivolgi alla perfetta ingiustizia, la quale rende chi commette ingiustizia felicissimo, mentre coloro che la subiscono e che non vorrebbero subirla disgraziatissimi. È questa la tirannide, la quale non in piccola misura sottrae i beni altrui di nascosto e con la violenza, e quelli sacri e quelli sante e quelli privati e quelli pubblici, ma tutto insieme» (344a-b); chi compie queste azioni privatamente e in piccolo è chiamato criminale ed è pubblicamente infamato, al contrario coloro che compiono queste nefandezze pubblicamente e per il potere εὐδαίμονες καὶ μακάριοι [c] κέκληνται, οὐ μόνον ὑπὸ τῶν πολιτῶν ἀλλὰ καὶ ὑπὸ τῶν ἄλλων ὅσοι ἂν πύθωνται αὐτὸν τὴν ὅλην ἀδικίαν ἠδικηκότα· οὐ γὰρ τὸ ποιεῖν τὰ ἄδικα ἀλλὰ τὸ πάσχειν φοβούμενοι ὀνειδίζουσιν οἱ ὀνειδίζοντες τὴν ἀδικίαν, «sono chiamati felici, non solo dai concittadini, ma anche dagli altri, quanti abbiano saputo che egli ha compiuto l’ingiustizia totale: infatti coloro che biasimano l’ingiustizia la biasimano temendo non di fare azioni ingiuste ma di subirle» (344c). Questo naturalmente è il pensiero di un sofista, per confutare il quale Socrate impiegherà tutto il dialogo.
6 Una riflessione quasi identica si trova in Seneca, Consolatio ad Marciam, 10, 2: Itaque non est quod nos suspiciamus tamquam inter nostra positi: mutua accepimus. Vsus fructusque noster est, cuius tempus ille arbiter muneris sui temperat; nos oportet in promptu habere quae in incertum diem data sunt et appellatos sine querella reddere: pessimi debitoris est creditori facere conuicium, «E così non è il caso di provare ammirazione, come se fossimo stati posti tra beni che ci appartengono: li abbiamo ricevuti in prestito. Nostro è l’usufrutto, la cui durata è regolata da quello che del proprio dono è padrone; bisogna che noi teniamo a disposizione ciò che ci è stato concesso a scadenza, per quanto indefinita, e bisogna che se richiesti lo restituiamo senza lamentarci: è proprio di un pessimo debitore prendersela con il creditore».
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