Gratitudine per la vita e demistificazione della morte

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 Lucrezio, De rerum naturaIII, 934-939

 

Quid mortem congemis ac fles?

Nam si grata fuit tibi vita anteacta priorque

et non omnia pertusum congesta quasi in vas

commoda perfluxere atque ingrata interiere,

cur non ut plenus vitae conviva1 recedis

aequo animoque capis securam, stulte, quietem?    934-939

«Perché deplori e piangi la morte? / Se infatti ti è stata gradita la vita passata e vissuta prima di oggi / e non tutte le gioie, come fossero state raccolte in un vaso forato, / sono sfuggite né, divenute sgradite, si sono estinte, / perché non ti congedi dalla vita come un commensate sazio / e con animo sereno non prendi, stolto, un sicuro riposo?».

 Nietzsche esprime lo stesso concetto con un paragone diverso, ma altrettanto efficace (Al di là del bene e del male, Capitolo quarto, Sentenze e intermezzi, 96):

«Bisogna congedarsi dalla vita come Odisseo da Nausicaa – piuttosto benedicendola che restando innamorati di essa».

 Vediamo i versi di Omero a cui allude il filosofo tedesco. Si tratta del canto VIII dell’Odissea, vv. 461-468:

«χαῖρε, ξεῖν’, ἵνα καί ποτ’ ἐὼν ἐν πατρίδι γαίηι

μνήσῃ ἐμεῖ’, ὅτι μοι πρώτῃ ζωάγρι’ ὀφέλλεις.»

τὴν δ’ ἀπαμειβόμενος προσέφη πολύμητις Ὀδυσσεύς·

«Ναυσικάα, θύγατερ μεγαλήτορος Ἀλκινόοιο,

οὕτω νῦν Ζεὺς θείη, ἐρίγδουπος πόσις Ἥρης,

οἴκαδέ τ’ ἐλθέμεναι καὶ νόστιμον ἦμαρ ἰδέσθαι·

τώ κέν τοι καὶ κεῖθι θεῷ ὣς εὐχετοῴμην

αἰεὶ ἤματα πάντα· σὺ γάρ μ’ ἐβιώσαο, κούρη.»            vv. 461-468

«Sii felice, straniero, affinché anche quando un giorno tu sia nella terra dei padri / ti ricordi di me, perché a me per prima tu devi la vita». Rispondendole disse l’accorto Odisseo: «Nausicaa, figlia del magnanimo Alcinoo, / così ora stabilisca Zeus, il tonante sposo di Era, / che arrivi a casa e veda il giorno del ritorno; / così anche là possa io fare voti a te come a una dea / sempre ogni giorno: tu infatti mi hai salvato la vita, fanciulla».


 Preciso che Odisseo non ha in alcun modo approfittato dell’amore di Nausicaa. Viceversa, la gratitudine non è il forte di Enea, il quale ha invece abbondantemente goduto dei favori e delle grazie di Didone innamorata; vediamo come risponde alla regina di Cartagine che lo implora di non lasciarla, ricordandogli il soccorso dopo il naufragio (non ignara mali miseris succurrere disco«non ignara del male imparo a soccorrere i miseri»Eneide, I, 630) e gli impegni da lui presi:

pro re pauca loquar. neque ego hanc abscondere furto

speravi (ne finge) fugam, nec coniugis umquam

praetendi taedas aut haec in foedera veni.                           337-339

«Sulla questione dirò poche cose. Né io ho sperato di nascondere /questa fuga (non crederlo) né mai ho proteso le fiaccole / dello sposo o sono giunto a questi patti».

me si fata meis paterentur ducere vitam

auspiciis et sponte mea componere curas,

urbem Troianam primum dulcisque meorum

reliquias colerem, Priami tecta alta manerent,

et recidiva manu posuissem Pergama victis.                        340-344

«Se i fati2 mi lasciassero condurre la vita secondo i miei / desideri e ricomporre gli affanni secondo la mia volontà, / innanzitutto abiterei la città di Troia e venererei le dolci / reliquie dei miei, alto rimarrebbe il palazzo di Priamo / e avrei ricostruito per i vinti Pergamo caduta due volte».

sed nunc Italiam magnam Gryneus Apollo,               

Italiam Lyciae iussere capessere sortes;

hic amor, haec patria est. si te Karthaginis arces

Phoenissam Libycaeque aspectus detinet urbis,

quae tandem Ausonia Teucros considere terra

invidia est? et nos fas extera quaerere regna.                      345-350

«Ma ora Apollo Grineo mi ha ordinato, / le sorti della Licia mi hanno ordinato di raggiungere l'Italia, la grande Italia; / qui è l'amore, qui la patria. «Se le rocche di Cartagine / e la vista di una città libica trattengono te Fenicia, / che invidia hai che dei Troiani si stabiliscano infine in terra ausonia? / È destino che anche noi cerchiamo regni in terra straniera».

me patris Anchisae, quotiens umentibus umbris

nox operit terras, quotiens astra ignea surgunt,

admonet in somnis et turbida terret imago;

me puer Ascanius capitisque iniuria cari,

quem regno Hesperiae fraudo et fatalibus arvis.                351-355

«L'immagine del padre Anchise mi ammonisce nei sogni e con aria fosca mi atterrisce, / tutte le volte che la notte con umide ombre copre le terre, / tutte le volte che sorgono gli astri infuocati; / mi ammonisce il fanciullo Ascanio e l'offesa del suo caro capo, / che defraudo del regno d'Esperia e dei campi fatali».

nunc etiam interpres divum Iove missus ab ipso

(testor utrumque caput) celeris mandata per auras

detulit: ipse deum manifesto in lumine vidi

intrantem muros vocemque his auribus hausi.

desine meque tuis incendere teque querelis;

Italiam non sponte sequor.'                                                   356-361

«Adesso anche il messaggero degli dèi, mandato dallo stesso Giove / (lo giuro su entrambe le teste) mi ha riferito gli ordini per l'aria veloce; / io stesso ho visto il dio penetrare nella chiara luce / i muri e ne ho raccolto la voce con queste orecchie. / Smettila di infiammare me e te con le tue lamentele: / non di mia volontà seguo l’Italia».

 Dopo la furiosa reazione di Didone non dice nulla e non la rivedrà mai più, se non da morta.

 Concludo questa digressione con il prototipo di tutti gli opportunisti3, il Giasone della Medea di Euripide, a sua volta il prototipo di tutte le donne abbandonate: Giasone, in effetti, si comporta anche peggio; infatti a Medea, che gli ricorda tutto quello che ha fatto per lui, tradendo patria e famiglia e commettendo crimini orrendi, risponde (vv. 526-28, 530-31):

ἐγὼ δ᾽, ἐπειδὴ καὶ λίαν πυργοῖς χάριν,

Κύπριν νομίζω τῆς ἐμῆς ναυκληρίας

σώτειραν εἶναι θεῶν τε κἀνθρώπων μόνην.

...

ὡς Ἔρως σ᾽ ἠνάγκασεν

τόξοις ἀφύκτοις τοὐμὸν ἐκσῶσαι δέμας

«Io, siccome esageri anche troppo il merito, penso che Cipride sola tra dèi e uomini sia la salvatrice della spedizione … Eros ti ha costretto a salvare il mio corpo con frecce invincibili».


Torniamo a Lucrezio, e concludiamo.

Il fatto è che noi ci angustiamo in vita per paura della morte e di quello che seguirà, a causa di tutte le frottole che ci hanno raccontato; tuttavia (III, vv. 978-1023) le pene dell’inferno sono solo superstizione, perché le punizioni dei criminali raccontate nei miti sono in realtà nostre proiezioni nell’oltretomba di situazioni della vita:

Atque ea nimirum quaecumque Acherunte profundo

prodita sunt esse, in vita sunt omnia nobis.        vv. 978-1023

«E senza dubbio quei tormenti, di qualunque tipo, che si tramanda / che ci siano nel profondo Acheronte, sono tutti nella nostra vita».

Ne sono esempi Tantalo, che temendo un macigno che incombe sulla sua testa, simboleggia la paura degli dèi da parte dei mortali per le sventure dovute alla sorte. Poi c’è Tizio, divorato dagli uccelli:

Sed Tityos nobis hic est, in amore iacentem

quem volucres lacerant atque exest anxius angor

aut alia quavis scindunt cuppedine curae.            vv. 992-994

«Ma Tizio è qui in noi, accasciato in amore / che gli uccelli lacerano e un’ansia angosciosa divora / o gli affanni sbranano con una qualche altra passione».

Sui tormenti d’amore tornerà poi alla fine del IV libro.

Sisifo è un altro esempio:

Sisyphus in vita quoque nobis ante oculos est

qui petere a populo fascis saevasque securis

imbibit et semper vinctus tristisque recedit.

Nam petere imperium quod inanest nec datur umquam,

atque in eo semper durum sufferre laborem,

hoc est adverso nixantem trudere monte

saxum quod tamen ‹e› summo iam vertice rursum

volvitur et plani raptim petit aequora campi.    vv. 996-1003

«Anche Sisifo è per noi nella vita davanti agli occhi / colui che si mette in testa di chiedere al popolo i fasci e le scuri crudeli / e sempre vinto e triste si ritira. / Infatti aspirare al potere che è vaano e non viene mai concesso, / e sempre sobbarcarsi in ciò una dura fatica, / questo è spingere su per la salita di un monte / un sasso che comunque dalla sommità del monte ancora una volta / rotola e precipita alle distese dell’aperta piana».

Le Danaidi poi, condannate a rimpire d’acqua un’urna senza fondo4, simboleggiano l’avidità insaziabile, cioè:

animi ingratam naturam pascere semper

atque explere bonis rebus satiareque numquam,

quod faciunt nobis annorum tempora, circum

cum redeunt fetusque ferunt variosque lepores,

nec tamen explemur vitai fructibus umquam,    vv. 1003-1007

«pascere sempre l’ingrata natura dell’animo / e riempirla di beni e non saziarla mai, / cosa che fanno per noi le stagioni dell’anno, quando / ritornano ciclicamente e portano i prodotti e le varie piacevolezze, / né tuttavia ci saziamo mai dei frutti della vita».

Infine ci immaginiamo Cerbero, le Furie, il Taartaro e tutti i mostri qui neque sunt usquam nec possunt esse profecto«i quali né esistono da nessuna paarte né certamente possono esistere» (v. 1013). Quindi prosegue: Sed metus in vita poenarum pro male factis«Invece è in vita la paura delle punizioni per i misfatti» (v. 1014), perché, anche se riuscissimo a evitare il carcere, le torture e simili,

at mens sibi conscia factis

praemetuens adhibet stimulos torretque flagellis

nec videt interea qui terminus esse malorum    vv. 1108-1020

possit.

«ciò non ostante la mente consapevole delle azioni / temendo in anticipo applica a sé gli strazi e brucia alle sferzate / né vede nel frattempo quale termine dei mali / possa esserci»5.

Quindi alla fine dei conti:

Hic Acherusia fit stultorum denique vita.

«Qui [cioè sulla terra] si verifica insomma la vita infernale degli stolti»6.



 

 1 La stessa immagine si trova in Orazio, Sermones, I, 1, 116-119 (è una conseguenza del fatto che nessuno è contento della propria condizione perché, come l’avido, considera migliore quella degli altri): inde fit, ut raro, qui se vixisse beatum / dicat et exacto contentus tempore vita / cedat uti conviva satur, reperire queamus«Da qui deriva che di rado possiamo trovare chi dica di aver vissuto / felice e, portato a termine contento il tempo della vita, / se ne vada come un commensale sazio»; c’è anche in Epistole, II, 2, 214-216: Lusisti satis, edisti satis atque bibisti: / tempus abire tibi est, ne potum largius aequo / rideat et pulset lasciva decentius aetas«Ti sei divertito abbastanza, hai mangiato e bevuto abbastanza: / è tempo per te di andare via, affinché l’età a cui piuttosto si addice / lo scherzo non rida di te e ti scacci dopo che hai bevuto più del dovuto». Ma per Orazio queste sono malinconiche considerazioni sull’impossibilità di una tale disposizione.
 
Inceve ritroviamo il paragone in Seneca (Epistulae, 61, 4) con lo stesso spirito di Lucrezio: [4] Ante ad mortem quam ad vitam praeparandi sumus. Satis instructa vita est, sed nos in instrumenta eius avidi sumus; deesse aliquid nobis videtur et semper videbitur: ut satis vixerimus, nec anni nec dies faciunt sed animus. Vixi, Lucili carissime, quantum satis erat; mortem plenus exspecto«[4] Dobbiamo prepararci alla morte prima che alla vita. La vita è dotata a sufficienza, ma noi siamo avidi delle sue risorse; ci sembra che manchi qualcosa e sempre ci sembrerà: fanno sì che abbiamo vissuto a sufficienza, non gli anni non i giorni, ma lo spirito. Ho vissuto, carissimo Lucilio, quanto era sufficiente, aspetto la morte sazio».

 2 Dunque sono i Fata che obbligano Enea. Fatum è connesso etimologicamente col verbo for, faris, fatus sum, fari = dire, è ciò che dicono gli dèi; dalla stessa radice deriva anche fas, ciò che è sacro agli dèi. Interessante è la differenza tra fas e mos; il mos è una legge che nasce dal consenso, di cui non ha bisogno il fas, che è una legge che si impone da sola. Per evidenziare tale differenza è utile una domanda di un legato, Bleso, a dei soldati che minacciavano una rivolta (Tacito, Annales, I, 19, 3) Cur contra more obsequii, contra fas disciplinae vim meditentur? «Perché volgere l'animo alla violenza contro l'usanza dell'ossequio e la sacra legge della disciplina?». / 

 3 Così parla dell’ingratitudine Teognide, Silloge (105-112)Δειλοὺς εὖ ἕρδοντι ματαιοτάτη χάρις ἐστίν· / ἶσον καὶ σπείρειν πόντον ἁλὸς πολιῆς. / οὔτε γὰρ ἂν πόντον σπείρων βαθὺ λήιον ἀμῶις, / οὔτε κακοὺς εὖ δρῶν εὖ πάλιν ἀντιλάβοις· / ἄπληστον γὰρ ἔχουσι κακοὶ νόον· ἢν δἓν ἁμάρτηις, / ῶν πρόσθεν πάντων ἐκκέχυται φιλότης· / οἱ δἀγαθοὶ τὸ μέγιστον ἐπαυρίσκουσι παθόντες, / μνῆμα δἔχουσἀγαθῶν καὶ χάριν ἐξοπίσω. «E' un favore del tutto vano fare del bene ai vili: / è come seminare la superficie del mare canuto. / Infatti seminando il mare non mieti folta messe, / né facendo del bene ai malvagi puoi riceverne del bene in cambio: / ché i malvagi hanno mente insaziabile; se tu falliscil’affetto per tutti i favori di prima si versa per terra. I buoni invece gustano al massimo quanto ricevono (οἱ ἀγαθοὶ τὸ μέγιστον ἐπαύρισκουσι παθόντες), / e serbano memoria dei beni e gratitudine in seguito».

 4 Pertusum vas, come quello del commensale che non si vuole congedare dal banchetto della vita (III, v. 936).

 5 Così si era già espresso Esiodo, Opere, 265-266: οἷ αὐτῷ κακὰ τεύχει ἀνὴρ ἄλλῳ κακὰ τεύχων, / ἡ δὲ κακὴ βουλὴ τῷ βουλεύσαντι κακίστη«prepara i mali per se stesso un uomo che prepara mali per un altro, / e il cattivo consiglio è pessimo per chi lha progettato».
 Vedi anche Seneca, Epistulae, 81, 19: 19. Omnia facienda sunt ut quam gratissimi simus. Nostrum enim hoc bonum est, quemadmodum iustitia non est (ut vulgo creditur) ad alios pertinens: magna pars eius in se redit. Nemo non, cum alteri prodest, sibi profuit, non eo nomine dico, quod volet adiuvare adiutus, protegere defensus, quod bonum exemplum circuitu ad facientem revertitur (sicut mala exempla recidunt in auctores nec ulla miseratio contingit iis qui patiuntur iniurias quas posse fieri faciendo docuerunt), sed quod virtutum omnium pretium in ipsis est. Non enim exercentur ad praemium: recte facti fecisse merces est«[19] Bisogna fare tutte le cose per essere il più grati possibile. Questo infatti è un nostro bene, esattamente come la giustizia non riguarda (come comunemente si crede) gli altri: una gran parte di essa ricade su se stessa. Non c’è nessuno che, quando giova all’altro, non ha giovato a se stesso; non dico nel senso che vorrà aiutare perché è stato aiutato, difendere perché difeso, per il fatto che il buon esempio ritorna circolarmente da chi lo ha dato (così come i cattivi esempi ricadono sugli autori e nessuna commiserazione tocca a coloro che subiscono ingiustizie che, con il loro agire, hanno insegnato che possono accadere), ma per il fatto che il valore di tutte le virtù coincide con le stesse. Non si praticano infatti in vista di un premio: la ricompensa di una cosa ben fatta è averla fatta».

 6 Cfr. Virgilio, Georgiche, II, vv. 490-492: felix qui potuit rerum cognoscere causas / atque metus omnis et inexorabile fatum / subiecit pedibus strepitumque Acherontis auari«fortunato chi poté conoscere le cause delle cose / e tutte le paure e l’inesorabile fato / schiacciò sotto i piedi e lo strepito dell’avido Acheronte».







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