Socratismo estetico

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 Il concetto di «socratismo estetico» risale a Nietzsche come formula di accusa contro Euripide, a suo giudizio reo di aver ucciso la tragedia in combutta con Socrate, eliminando l’elemento dionisiaco (La nascita della tragedia, cap. 12): «Potremo ormai avvicinarci all’essenza del socratismo estetico, la cui legge suprema suona a un di presso:

“Tutto deve essere razionale per essere bello”, come proposizione parallela al principio socratico: «solo chi sa è virtuoso” […] Come esempio della produttività di quel metodo razionalistico ci può servire il prologo euripideo […] Per Euripide […] l’effetto della tragedia era basato […] su quelle grandi scene retorico-liriche, in cui la passione e la dialettica del protagonista si gonfiavano in un fiume largo e potente. La tragedia eschileo-sofoclea impiegava i mezzi artistici più ingegnosi per dare come per caso in mano allo spettatore, nelle prime scene, tutti i fili necessari alla comprensione […] Euripide credette di notare che, durante quelle prime scene, lo spettatore era in particolare agitazione per risolvere il problemino di aritmetica dell’antefatto, sicché le bellezze artistiche e il pathos dell’esposizione andavano per lui perduti. Perciò pose il prologo […] in bocca a un personaggio in cui si potesse aver fiducia: spesso una divinità doveva […] togliere ogni dubbio sulla realtà del mito […] Della stessa veridicità divina Euripide ha bisogno a chiusura del suo dramma, per assicurare il pubblico circa l’avvenire dei suoi eroi: è questo il compito del famigerato deus ex machina  […] Così Euripide è come poeta soprattutto l’eco delle sue cognizioni coscienti […] Egli deve aver avuto spesso l’impressione come di dover far vivere per il dramma l’inizio dello scritto di Anassagora […] “al principio tutto era mescolato, poi venne l’intelletto e creò ordine”. E se col suo nus Anassagora apparve tra i filosofi come il primo sobrio fra individui tutti ebbri, anche Euripide può aver concepito con un’immagine simile il suo rapporto con gli altri poeti della tragedia […] Anche il divino Platone parla per lo più solo ironicamente della facoltà creativa del poeta, quando essa non sia una conoscenza consapevole, e la parifica alla dote dell’indovino e dell’interprete di sogni […] Euripide si accinse a mostrar al mondo […] l’opposto del poeta “irragionevole”; il suo principio estetico “tutto deve essere cosciente per essere bello” è la proposizione parallela al precetto socratico «tutto deve essere cosciente per essere buono”. Per conseguenza Euripide può essere considerato come il poeta del socratismo estetico. Ma Socrate era quel secondo spettatore che non capiva la tragedia antica e perciò non l'apprezzava; in lega con lui Euripide osò essere l’araldo di una nuova creazione artistica. Se a causa di essa la tragedia antica perì, il principio micidiale fu dunque il socratismo estetico […] Riconosciamo in Socrate l’avversario di Dioniso […] e, benché destinato a essere dilaniato dalle Menadi del tribunale ateniese, costringe alla fuga lo stesso potentissimo dio».

 L’essenza del socratismo di cui parla Nietzsche si può rintracciare nel Protagora:

καὶ γὰρ ὑμεῖς ὡμολογήκατε ἐπιστήμης ἐνδείᾳ ἐξαμαρτάνειν περὶ τὴν τῶν ἡδονῶν αἵρεσιν καὶ λυπῶν τοὺς ἐξαμαρτάνοντας – ταῦτα δέ ἐστιν ἀγαθά τε καὶ κακά –, «anche voi infatti siete d'accordo che per mancanza di scienza sbagliano coloro che sbagliano riguardo alla scelta dei piaceri e dei dolori – questi sono i beni e i mali –» (357d); ἐπί γε τὰ κακὰ οὐδεὶς ἑκὼν ἔρχεται οὐδὲ ἐπὶ ἃ οἴεται κακὰ εἶναι, «nessuno va volontariamente verso i mali, nemmeno verso quelli che crede siano mali» (358d).

Si può notare una parentela tra l’illuminismo greco, a cui contribuiscono in modo diversi Euripide e Socrate, insieme ai sofisti, e l’Illuminismo settecentesco nelle parole di Voltaire (Dizionario filosofico, Giusto (Del) e dell’ingiusto):

«Voi tutti egualmente sentite che è meglio dare ciò che avanza del vostro pane, del vostro riso, o della vostra manioca al povero che ve lo chiede umilmente, anziché ammazzarlo o cavargli gli occhi. È chiaro a tutta la terra che fare il bene è piú onesto che oltraggiare, che la mitezza è preferibile all’ira. Si tratta dunque soltanto di servirci della nostra ragione per discernere le sfumature dell'onesto e del disonesto. Il bene e il male sono spesso vicini; le nostre passioni li con-tondono: chi ci illuminerà? Noi stessi, quando siamo in tranquillità d'animo. Chiunque ha scritto sui nostri doveri, ha scritto bene in tutti i paesi del mondo, perché ha scritto soltanto con la ragione. Tutti hanno detto la stessa cosa: Socrate ed Epicuro, Confucio e Cicerone, Marco Antonino e Amurat II hanno avuto la medesima morale».

 È lo stesso filosofo francese a riprendere Socrate.

 Questa idea di Nietzsche, callida nella sua formulazione, viene però giustamente smontata da Dodds in I Greci e l’irrazionale (cap. VI, Razionalismo e reazione nell’età classica):

«Il mondo demonico si è ritirato, lasciando soli gli uomini con le loro passioni. È questo che rende così dolorosamente commoventi i casi patologici studiati da Euripide; egli ci mostra uomini e donne che affrontano inermi il mistero del male, non piú cosa estranea che aggredisce dall'esterno la loro ragione, ma parte dell'esser loro, ἦθος ἀνθρώπῷ δαίμων [ERACLITO, 119 D-K]. Eppure il male, anche se cessa di essere soprannaturale, non diventa meno misterioso e terrificante. Medea sa di lottare non contro un alastor, ma contro il proprio io irrazionale, il thumos, e domanda pietà a quell'io, come uno schiavo implora il padrone brutale. Invano: gli impulsi dell'azione sono nascosti nel thumos, dove né la ragione né la pietà possono raggiungerli. “So quale malvagità sto per compiere, ma il thumos è piú forte delle mie decisioni; il thumos, radice delle peggiori azioni dell’uomo”. Con queste parole abbandona la scena; quando ritorna, ha condannato i suoi figli a morte e se stessa ad una vita di prevalutata infelicità. Medea infatti non soffre di socratiche “illusioni di prospettiva”; la sua aritmetica morale è senza errori, né commette l'errore di confondere la propria passione con uno spirito maligno. Sta in questo la sua suprema tragicità. Non so se il poeta, scrivendo la Medea, avesse in mente Socrate. Ma un ripudio cosciente della teoria socratica è stato riconosciuto, secondo me con ragione, nelle famose parole che egli pose in bocca a Fedra tre anni più tardi. […] Euripide, nelle sue ultime opere, si preoccupa non tanto dell’importanza della ragione umana, quanto del dubbio più vasto, se sia possibile discernere un qualche fine razionale nell'ordinamento della vita umana… credo ancora che la parola “irrazionalista”, da me un tempo suggerita, sia quella che meglio si addice a Euripide. Euripide dunque, se vedo giusto, riflette non soltanto l'Illuminismo, ma anche la reazione contro l’Illuminismo».

 I versi della Medea (431 a.C.) a cui allude Dodds sono i 1078-1080:

καὶ μανθάνω μὲν οἷα τολμήσω κακά,

θυμὸς δὲ κρείσσων τῶν ἐμῶν βουλευμάτων,

ὅσπερ μεγίστων αἴτιος κακῶν βροτοῖς,

«e comprendo quali mali oserò, / ma più forte delle mie riflessioni è la passione, / la quale è causa dei massimi mali per i mortali».

 Le parole di Fedra sono invece tratte dall’Ippolito (428 a.C.), vv. 380-383:

τὰ χρήστ᾽ ἐπιστάμεσθα καὶ γιγνώσκομεν, 

οὐκ ἐκπονοῦμεν δ᾽, οἱ μὲν ἀργίας ὕπο, 

οἱ δ᾽ ἡδονὴν προθέντες ἀντὶ τοῦ καλοῦ 

ἄλλην τιν᾽,

«conosciamo il bene e lo comprendiamo, / ma non ci impegniamo a metterlo in pratica, alcuni per pigrizia, / altri preferendo un qualche altro piacere al bello».

 Già Eraclito aveva detto (85 D-K): θυμῷ μάχεσθαι χαλεπόν· ὃ γὰρ ἂν θέλῃ, ψυχῆς ὠνεῖται«combattere con l'animo è arduo: ciò che vuole infatti locompra a prezzo  dell’anima».

 Concludo la riabilitazione di Euripide con Snell (La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Aristofane e l’estetica):

«Euripide porta la coscienza morale a una nuova crisi... Così al posto del conflitto drammatico abbiamo discussioni di uomini per i quali la vita stessa è diventata oggetto di dubbio. E così dalla tragedia si passa al dialogo filosofico-morale. Se la tragedia più tarda porta alla riflessione astrattamente razionale degli oggetti che rappresentava una volta in figure vive, essa non fa che seguire una legge storica dello spirito greco; anche le altre grandi forme di poesia hanno aperto la via all'osservazione scientifica. L'epopea porta alla storia; la poesia teogonia e cosmogonia sfocia nella filosofia naturale ionica che ricerca l'ἀρχή, la ragione e il principio delle cose; dalla poesia lirica si sviluppano i problemi riguardanti lo spirito e il significato delle cose. Così la tragedia preannunzia la filosofia attica, il cui interesse principale è rivolto all'azione umana, al bene. I dialoghi di Platone riprendono le discussioni dei personaggi della tragedia. […] Goethe, che non era animato da nessun risentimento contro lo spirito... si è fortemente adirato che Schlegel... trovasse da ridire contro Euripide. “Un poeta, – diceva a Eckermann – che Aristotele esaltava, Menandro ammirava e alla cui morte Sofocle e l'intera città di Atene vestirono a lutto, doveva pur valere qualcosa. Quando un uomo dei nostri tempi come Schlegel vuole rilevare dei difetti in questo grande dell'antichità, non dovrebbe farlo altrimenti che in ginocchio”. E per finire, riporteremo ancora la parola di Goethe scritta nel suo diario alcuni mesi prima della morte: “Non finisco di meravigliarmi come l’élite dei filologi non comprenda i suoi meriti e secondo la bella usanza tradizionale lo subordini ai suoi predecessori seguendo l'esempio di quel pagliaccio di Aristofane... Ma c'è forse una nazione che abbia avuto dopo di lui un drammaturgo che sia appena degno di porgergli le pantofole?”».

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