La logica dell’imperialismo viene chiaramente espressa da Tucidide: è l’ultimo dei tre discorsi di Pericle, il quale mette in guardia gli Ateniesi dal desistere da una politica imperialistica, la quale, una volta intrapresa, non lascia la libertà di abbandonarla senza la rovina di chi l’abbandona.
II, 63, 2
ἧς οὐδ' ἐκστῆναι ἔτι ὑμῖν ἔστιν, εἴ τις καὶ τόδε ἐν τῷ παρόντι δεδιὼς ἀπραγμοσύνῃ ἀνδραγαθίζεται· ὡς τυραννίδα γὰρ ἤδη ἔχετε αὐτήν, ἣν [3] λαβεῖν μὲν ἄδικον δοκεῖ εἶναι, ἀφεῖναι δὲ ἐπικίνδυνον… τὸ γὰρ ἄπραγμον οὐ σῴζεται μὴ μετὰ τοῦ δραστηρίου τεταγμένον, οὐδὲ ἐν ἀρχούσῃ πόλει ξυμφέρει, ἀλλ' ἐν ὑπηκόῳ, ἀσφαλῶς δουλεύειν.«E non vi è neppure più possibile rinunciarvi1, se uno, avendo paura nel momento presente, si comporta da uomo per bene anche in questo, volendo stare in pace; infatti ormai possedete un impero che è come una tirannide, che sembra ingiusto aver conquistato, ma rischioso lasciar andare… la pace infatti non si salva se non si è schierata insieme all’attività energica, ed essere schiavi nella sicurezza non conviene in una città che comanda, ma in una sottomessa».
Il concetto è poi ribadito da Cleone in III, 37, 2. Mitilene si è ribellata e bisogna dare una punizione esemplare per impedire il ripetersi di tali episodi, essendo la natura del potere tale da dover essere esercitato in modo spietato: l’epigono di Pericle dunque invita gli Ateniesi a considerare ὅτι τυραννίδα ἔχετε τὴν ἀρχὴν καὶ πρὸς ἐπιβουλεύοντας αὐτοὺς καὶ ἄκοντας ἀρχομένους, οἳ οὐκ ἐξ ὧν ἂν χαρίζησθε βλαπτόμενοι αὐτοὶ ἀκροῶνται ὑμῶν, ἀλλ' ἐξ ὧν ἂν ἰσχύι μᾶλλον ἢ τῇ ἐκείνων εὐνοίᾳ περιγένησθε, «che possedete un impero che è una tirannide e che è imposto a uomini che tramano e si sottomettono contro la propria volontà, i quali vi ubbidiscono non per le cose di cui voi stessi, danneggiandovi, li gratificate, ma per il fatto che siete superiori più per la forza che per la loro benevolenza». Dunque il meccanismo del potere è che per conservarsi deve continuamente essere esercitato.
Polibio presenta l’imperialismo romano come il fine a cui tende la storia e ne dà una specie di giustificazione per esempio in Storie VI, dove nel capitolo 50, nel parlare della costituzione di Licurgo, Polibio ne tesse l’elogio, ma solo se si vuole preservare la sicurezza e la libertà; poi prosegue:
εἰ δέ τις μειζόνων ἐφίεται, κἀκείνου κάλλιον καὶ σεμνότερον εἶναι νομίζει τὸ πολλῶν μὲν ἡγεῖσθαι, πολλῶν δ' ἐπικρατεῖν καὶ δεσπόζειν, πάντας δ' εἰς αὐτὸν ἀποβλέπειν [4] καὶ νεύειν πρὸς αὐτόν, τῇδέ πῃ συγχωρητέον τὸ μὲν Λακωνικὸν ἐνδεὲς εἶναι πολίτευμα, τὸ δὲ Ῥωμαίων διαφέρειν καὶ δυναμικωτέραν ἔχειν τὴν σύστασιν (50, 3-4),«se invece uno aspira a imprese maggiori, e ritiene che sia più bello e nobile di quello guidare molti, dominare e signoreggiare molti, che tutti guardino a lui e pieghino il capo davanti a lui, in questo caso bisogna ammettere che la forma di governo spartana è difettosa, mentre quella romana è superiore e ha una costituzione più forte».
Sallustio nell’Epistola di Mitridate lo condanna: Namque Romanis cum nationibus, populis, regibus cunctis una et ea vetus causa bellandi est, cupido profunda imperi et divitiarum, «e infatti i Romani hanno quell’unica e antica causa di fare la guerra con tutte le nationi, i popoli e i re, la brama illimitata di potere e ricchezza». Viene dunque smontata ogni possibile nobiltà delle ragioni dell’imperialismo.
Anche Tacito lo condanna in Agricola, 30:
Romani, quorum superbiam frustra per obsequium ac modestiam effugias. Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, et mare scrutantur: si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit: soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt. Auferre, trucidare, rapere, falsis nominibus imperium, atque, ubi solitudinem faciunt, pacem appellant,«I Romani, dei quali invano puoi evitare la superbia con la sottomissione e la docilità2. Rapinatori del mondo, dopo che a loro che devastano tutto sono mancate le terre, scrutano il mare: se il nemico è ricco sono avidi, se è povero bramosi di potere, essi che non l’Oriente, non l’Occidente possono saziare: soli tra tutti bramano con uguale slancio ricchezza e povertà. Rubare, massacrare, rapire lo chiamano con falsi nomi impero e dove fanno un deserto lo chiamano pace3».
Lo giustifica però nelle Historiae (IV, 73-74):
Siamo tra la fine del 69 e l’inizio del 70, Vitellio è morto e gli è succeduto Vespasiano, ma la situazione scaturita dalla guerra civile ancora non è stabile (bellum magis desierat quam pax coeperat, «era finita la guerra più che cominciata la pace», Hist., IV, 1, 1). La ribellione dei Germani (strenui sostenitori di Vitellio) si espande tra i Galli, a domare i quali viene inviato il generale Petilio Ceriale. Quello che segue è il discorso che egli rivolge ai Galli dopo averli sedati.
Eadem semper causa Germanis transcendendi in Gallias, libido atque avaritia et mutandae sedis amor, ut relictis paludibus et solitudinibus suis fecundissimum hoc solum vosque ipsos possiderent: ceterum libertas et speciosa nomina praetexuntur; nec quisquam alienum servitium et dominationem sibi concupivit ut non eadem ista vocabula usurparet. Regna bellaque per Gallias semper fuēre donec in nostrum ius concederetis. Nos, quamquam totiens lacessiti, iure victoriae id solum vobis addidimus, quo pacem tueremur; […] quo modo sterilitatem aut nimios imbris et cetera naturae mala, ita luxum vel avaritiam dominantium tolerate. Vitia erunt, donec homines, sed neque haec continua et meliorum interventu pensantur [...] Nam pulsis, quod di prohibeant, Romanis quid aliud quam bella omnium inter se gentium existent? octingentorum annorum fortunā disciplināque compages haec coaluit, quae convelli sine exitio convellentium non potest: sed vobis maximum discrimen, penes quos aurum et opes, praecipuae bellorum causae. Proinde pacem et urbem, quam victi victoresque eodem iure obtinemus, amate colite: moneant vos utriusque fortunae documenta ne contumaciam cum pernicie quam obsequium cum securitate malitis.«È sempre lo stesso il motivo per i Germani di passare nelle Gallie, la brama e l’avidità e la voglia di cambiare sede, per possedere, abbandanate le loro paludi e desolazioni, questo terreno fertilissimo e voi stessi: del resto sono addotte come copertura la libertà bei nomi; e non c’è nessuno che ha desiderato per sé l’asservimento altrui e il dominio in modo da non servirsi di quei medesimi vocaboli. Regni e guerre ci sono sempre stati per le Gallie finché non siete finiti sotto la nostra autorità. Noi, seppure tante volte provocati, per diritto di vittoria abbiamo aggiunto solo ciò con cui proteggere la pace; […] come fate con la sterilità o le piogge eccessive e le altre calamità naturali, così sopportate il lusso e l’avidità dei dominatori. I vizi ci saranno, finché ci saranno uomini, ma né queste cose sono continue e sono compensate dall’alternanza di momenti migliori […] Infatti una volta cacciati i Romani, che gli dèi lo impediscano, cosa altro rimarrà se non le guerre di tutti i popoli tra di loro? Questa struttura si è sviluppata grazie alla fortuna e alla disciplina di ottocento anni, e non può essere abbattuta senza la distruzione di chi la abbatte: ma il pericolo più grande è per voi, presso i quali ci sono oro e ricchezze, le principali cause delle guerre. Perciò amate, curate la pace e la città che vinti e vincitori otteniamo con parità di diritti: vi siano di monito gli insegnamenti della sorte di entrambi, affinché non preferiate una ribellione con rovina a una obbedienza con sicurezza».
Maneat, quaeso, duretque gentibus, si non amor nostri, at certe odium sui, quando urgentibus imperii fatis nihil iam praestare fortuna maius potest quam hostium discordiam.
«Rimanga, io prego, e perduri tra le genti, se non l’amore verso di noi, quanto meno l’odio tra di loro, dal momento che incalzando le sorti dell’impero niente ormai la fortuna può fornire di più grande che la discordia dei nemici».
L’altro si trova in Annales, II, 26. Si sta parlando di Tiberio che dopo aver inviato Germanico contro i Germani lo richiama dopo le prime vittorie dicendo che Posse et Cheruscos ceterasque rebellium gentis, quoniam Romanae ultioni consultum esset, internis discordiis relinqui, «si potevano lasciare alle loro discordie interne i Cherusci e gli altri popoli ribelli, poiché si era provveduto alla vendetta di Roma», ma lo storico attribuisce tendenziosamente tale strategia all’invidia di Tiberio: Haud cunctatus est ultra Germanicus, quamquam fingi ea, seque per invidiam parto iam decŏri abstrahi intellegeret, «Germanico non indugiò oltre, sebbene capisse che quegli argomenti erano falsi, e che per invidia veniva strappato alla gloria già raggiunta». Tacito lascia intendere che se Tiberio non avesse richiamato Germanico, questi avrebbe potuto conquistare la libera Germania ricoprendosi di gloria. Quello che è cambiato tra la Germania e gli Annales è il contesto storico: nel primo caso siamo subito dopo la morte di Domiziano, per cui Tacito dice (Germania, 37) proximis temporibus triumphati magis quam victi sunt, «Nei tempi recenti [i Germani] sono stati oggetto di trionfo più che di vittoria», manifestando sfiducia nelle possibilità di vittoria; nel secondo caso siamo sotto il principato di Traiano che aveva ripreso energicamente la politica espansionistica facendo raggiungere all’impero la sua massima estensione.
1 All’egemonia, nominata prima.
2 Qui Tacito sembra voler smascherare la celebrazione dell’imperialismo romano che si trova in Virgilio, Eneide, VI, vv. 851-853: tu regere imperio populos, Romane, memento / (hae tibi erunt artes), pacique imponere morem, / parcere subiectis et debellare superbos, «Tu, Romano, ricorda di regnare sui popoli con imperio / (queste saranno le tue arti), imporre il costume della pace, / risparmiare chi si è sottomesso e sterminare i superbi». Sono le parole con cui Anchise sintetizza la missione che spetterà al figlio Enea in Italia, fondando la stirpe romana.
3 La condanna dell’imperialismo pronunciata dal nemico esterno («obiettività epica») possiamo riscontrarla anche nelle Troiane di Euripide (vv. 764-765): ὦ βάρβαρ’ ἐξευρόντες Ἕλληνες κακά, / τί τόνδε παῖδα κτείνετ’ οὐδὲν αἴτιον;, «Oh Greci che avete inventato barbare atrocità, / perché uccidete questo bambino che non ha nessuna colpa?». Questi versi pronunciati da una troiana contro i Greci (non Achei o Danai) nel 415 a.C. ad Atene non potevano non significare per gli spettatori Ateniesi una condanna dell’imminente, e destinata al disastro, spedizione in Sicilia (415-413 a.C.).
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