Maturità 2025 – Vera sofferenza e finta felicità – Seneca, De providentia, II, 10-11; VI

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 II.

 1. ‘Quare multa bonis uiris aduersa eueniunt?' Nihil accidere bono uiro mali potest: non miscentur contraria. Quemadmodum tot amnes, tantum superne deiectorum imbrium, tanta medicatorum uis fontium non mutant saporem maris, ne remittunt quidem, ita aduersarum impetus rerum uiri fortis non uertit animum: manet in statu et quidquid euenit in suum colorem trahit; est enim omnibus externis potentior.

 «1. “Perché agli uomini buoni capitano molte avversità?” Nulla di male può accadere all’uomo buono: non si mescolano i contrari. Proprio come tanti fiumi, tante piogge precipitate dal cielo, una così grande abbondanza di fonti curative non mutano il gusto del mare, nemmeno lo attenuano, così l’assalto delle avversità non piega l’animo dell’uomo forte: rimane in posizione e qualsiasi cosa capiti se ne appropria dandogli il proprio colore1; è infatti più potente di tutte le cose esterne».

 2. Nec hoc dico, non sentit illa, sed uincit, et alioqui quietus placidusque contra incurrentia attollitur. Omnia aduersa exercitationes putat. Quis autem, uir modo et erectus ad honesta, non est laboris adpetens iusti et ad officia cum periculo promptus? Cui non industrio otium poena est?

 «2. E non dico questo, che non le percepisce, ma che le vince, e in altre situazioni pacifico e tranquillo si solleva contro gli assalti, Tutte le avversità le considera allenamenti. Chi, purché sia un uomo vero e indirizzato a imprese onorevole, non è desideroso di una giusta fatica2 e disposto a correre pericoli per i doveri? Per quale persona operosa l’ozio non è una punizione?»

 3. Athletas uidemus, quibus uirium cura est, cum fortissimis quibusque confligere et exigere ab iis per quos certamini praeparantur ut totis contra ipsos uiribus utantur; caedi se uexarique patiuntur et, si non inueniunt singulos pares, pluribus simul obiciuntur.

 «3. Noi vediamo gli atleti, che hanno a cuore il vigore dei corpi, scontrarsi con tutti i più forti e esigere da coloro attraverso i quali si preparano alla gara, che usino contro di loro tutte le forze; si lasciano ferire e maltrattare e, se non trovano singoli alla loro altezza, si scagliano contro più di uno contemporaneamente».

 4. Marcet sine aduersario uirtus: tunc apparet quanta sit quantumque polleat, cum quid possit patientia ostendit. Scias licet idem uiris bonis esse faciendum, ut dura ac difficilia non reformident nec de fato querantur, quidquid accidit boni consulant, in bonum uertant; non quid sed quemadmodum feras interest.

 «4. Marcisce la virtù senza un avversario: allora appare quanto sia grande e quanto valga, quando mostra ciò di cui è capace con la sopportazione. Sappi pure che la medesima cosa devono fare gli uomini buoni, cioè non temere le cose dure e difficili3 né lamentarsi del fato, qualsiasi cosa accada prenderla per un bene, volgerla in bene; non cosa, ma come sopporti fa la differenza».

 5. Non uides quanto aliter patres, aliter matres indulgeant? illi excitari iubent liberos ad studia obeunda mature, feriatis quoque diebus non patiuntur esse otiosos, et sudorem illis et interdum lacrimas excutiunt; at matres fouere in sinu, continere in umbra uolunt, numquam contristari, numquam flere, numquam laborare.

 «5. Non vedi quanto padri e madri esprimano l’affetto diversamente l’uno dall’altro? Quelli ordinano di svegliare i figli di buon ora per intraprendere gli studi, non li lasciano nell’ozio nemmeno nei giorni di festa, e spremono loro il sudore e a volte le lacrime; ma le madri vogliono scaldarli in grembo, tenerli nell’ombra4, che non siano mai tristi, non piangano mai, non soffrano mai».

 6. Patrium deus habet aduersus bonos uiros animum et illos fortiter amat et 'operibus' inquit 'doloribus damnis exagitentur, ut uerum colligant robur.' Languent per inertiam saginata nec labore tantum sed motu et ipso sui onere deficiunt. Non fert ullum ictum inlaesa felicitas; at cui adsidua fuit cum incommodis suis rixa, callum per iniurias duxit nec ulli malo cedit, sed etiam si cecidit de genu pugnat.

 «La divinità ha nei confronti degli uomini buoni un animo di padre e li ama virilmente e “Siano alle prese,” dice, “con lavori, dolori, danni, per raccogliere la vera forza”. Infiacchiscono nell’inazione i corpi appesantiti e vengono meno non solo per la fatica ma anche per il movimento e il proprio stesso peso. Non sopporta alcun colpo una prosperità mai ferita; ma chi si è trovato in una continua lotta contro le sue disgrazie, ha fatto il callo a forza di offese e non cede al alcun male, ma anche se è caduto combatte in ginocchio».

 7. Miraris tu, si deus ille bonorum amantissimus, qui illos quam optimos esse atque excellentissimos uult, fortunam illis cum qua exerceantur adsignat? Ego uero non miror, si aliquando impetum capiunt spectandi magnos uiros conluctantis cum aliqua calamitate.

 «Ti meravigli tu, se quel dio che ama sommamente i buoni, il quale vuole che quelli siano i migliori e i più eccellenti possibile, assegna loro una sorte con cui si allenino? Io proprio non mi meraviglio, se ogni tanto sono presi irresistibilmente dal desiderio di guardare i grandi uomini in lotta con una qualche calamità».

 8. Nobis interdum uoluptati est, si adulescens constantis animi inruentem feram uenabulo excepit, si leonis incursum interritus pertulit, tantoque hoc spectaculum est gratius quanto id honestior fecit. Non sunt ista quae possint deorum in se uultum conuertere, puerilia et humanae oblectamenta leuitatis:

 «Per talvolta è motivo di piacere, se un ragazzo di animo saldo affronta l’assalto di una belva con uno spiedo, se sostiene senza paura la carica di un leone, e questo spettacolo è tanto più gradito quanto più compie quel gesto con stile. Non sono queste le cose che possono attirare su di sé lo sguardo degli dèi, passatempi puerili e della superficialità umana:»

 9. ecce spectaculum dignum ad quod respiciat intentus operi suo deus, ecce par deo dignum, uir fortis cum fortuna mala compositus, utique si et prouocauit. Non uideo, inquam, quid habeat in terris Iuppiter pulchrius, si <eo> conuertere animum uelit, quam ut spectet Catonem iam partibus non semel fractis stantem nihilo minus inter ruinas publicas rectum.

 «ecco uno spettacolo degno a cui possa rivolgere lo sguardo un dio intento alla sua opera, ecco una coppia degna di dio, un uomo forte alle prese con la cattiva sorte, specialmente se l’ha provocata. Non vedo, dico, che cosa abbia sulla terra Giove di più bello, se vuole rivolgere lì l’attenzione, che guardare Catone5, quando ormai il partito era andato in pezzi non una sola volta, stare dritto ciò non ostante tra le rovine dello stato».

 10. ‘Licet' inquit ‘omnia in unius dicionem concesserint, custodiantur legionibus terrae, classibus maria, Caesarianus portas miles obsideat, Cato qua exeat habet: una manu latam libertati uiam faciet. Ferrum istud, etiam ciuili bello purum et innoxium, bonas tandem ac nobiles edet operas: libertatem quam patriae non potuit Catoni dabit.

 «10. ‘E sia,’ disse, ‘tutti i poteri siano andati a finire sotto il controllo di uno solo, le terre siano presidiate dalle legioni, i mari dalle flotte, un soldato di Cesare assedi le porte, Catone ha una via d’uscita: con una sola mano aprirà la strada alla libertà. Questa spada, puro e inncente anche nella guerra civile, darà alla luce alla fine buone e nobili azioni: darà a Catone la libertà che non poté dare alla patria».

 Aggredere, anime, diu meditatum opus, eripe te rebus humanis. Iam Petreius et Iuba concucurrerunt iacentque alter alterius manu caesi, fortis et egregia fati conuentio, sed quae non deceat magnitudinem nostram: tam turpe est Catoni mortem ab ullo petere quam uitam.’

 «Intraprendi, animo, l’opera a lungo meditata, strappa te stesso alle vicende umane. Già Petreio e Giuba si sono scontrati e giacciono uccisi uno per mano dell’altro, patto di morte coraggioso e senza pari, ma che non si addice alla nostra grandezza: Per Catone è vergognoso chiedere a qualcun altro tanto la morte quanto la vita’».

 11. Liquet mihi cum magno spectasse gaudio deos, dum ille uir, acerrimus sui uindex, alienae saluti consulit et instruit discedentium fugam, dum studia etiam nocte ultima tractat, dum gladium sacro pectori infigit, dum uiscera spargit et illam sanctissimam animam indignamque quae ferro contaminaretur manu educit.

 Non ho dubbi che gli dèi abbiano guardato con grande gioia, mentre quell’eroe, rigorosissimo vendicatore di se stesso, provvede alla salvezza degli altri e organizza la fuga di chi si rinuncia a combattere, mentre si dedica allo studio6 anche nell’ultima notte, mentre pianta la spada nel sacro petto, mentre sparge le viscere e con la mano tira fuori quell’anima santissima e indegna di essere contaminata dal ferro7».

 Più avanti descrive così i falsi felici:


 VI

 4. Isti quos pro felicibus aspicis, si non qua occurrunt sed qua latent uideris, miseri sunt, sordidi turpes, ad similitudinem parietum suorum extrinsecus culti; non est ista solida et sincera felicitas: crusta est et quidem tenuis. Itaque dum illis licet stare et ad arbitrium suum ostendi, nitent et inponunt; cum aliquid incidit quod disturbet ac detegat, tunc apparet quantum altae ac uerae foeditatis alienus splendor absconderit.

 «4. Questi che tu guardi come fortunati, se li vedi non dal lato con cui si presentano ma da quello che nascondono, sono meschini, squallidi, vergognosi, a somiglianza delle loro pareti belli di fuori; non è questa una felicità solida e autentica: è una patina e pure sottile. E così finché è loro consentito stare dritti e mostrarsi a loro arbitrio, brillano e traggono in inganno; quando capita qualcosa che li sconvolge e scopre, allora appare quanta profonda e reale ripugnanza nascondesse quello splendore posticcio».


 Questa idea piace a Seneca, che la declina con la metafora teatrale in Epistulae, 80:

 5. Libera te primum metu mortis (illa nobis iugum inponit), deinde metu paupertatis. 6. Si vis scire quam nihil in illa mali sit, compara inter se pauperum et divitum vultus: saepius pauper et fidelius ridet; nulla sollicitudo in alto est; etiam si qua incidit cura, velut nubes levis transit: horum qui felices vocantur hilaritas ficta est aut gravis et suppurata tristitia, eo quidem gravior quia interdum non licet palam esse miseros, sed inter aerumnas cor ipsum exedentes necesse est agere felicem. 7. Saepius hoc exemplo mihi utendum est, nec enim ullo efficacius exprimitur hic humanae vitae mimus, qui nobis partes quas male agamus adsignat.

 «5. Liberati innanzitutto dalla paura della morte (essa ci impone un giogo), poi dalla paura della povertà. 6. Se vuoi sapere quanto non ci sia nulla di male in essa, confronta tra loro i volti dei poveri e dei ricchi: il povero ride più spesso e più schiettamente; nessuna preoccupazione si trova nel profondo; anche se incappa in qualche affanno, passa come una nuvola leggera: l’allegria di questi che sono chiamati felici è recitata oppure è una tristezza opprimente e che rode, e di certo tanto più opprimente poiché non è possibile ogni tanto essere infelici apertamente, ma divorando il cuore stesso tra le pene si è obbligati a fare la parte del felice. 7. Devo usare più spesso questo esempio, e infatti da nessun altro con più efficacia è rappresentato questo mimo della vita umana, che ci assegna i ruoli che interpretiamo male».

 8. omnium istorum personata felicitas est. Contemnes illos si despoliaveris.

 «8. La felicità di tutti costoro è una maschera8. Li disprezzerai se avrai tolto loro i vestiti».

 Il concetto è che non hominibus tantum sed rebus persona demenda est et reddenda facies sua9, «Non solo agli uomini ma anche alle cose bisogna levare la maschera e restituire il loro aspetto autentico» (Epistulae, 24, 13).

 1 La traduzione letterale sarebbe «la tira verso il proprio colore», cioè se ne appropria rendendola un vantaggio. Per chiarire l’espressione è utile un passo di Schopenhauer, Parerga e paralipomena II, Capitolo ventiduesimo, Pensare da sé: «257. Come la più ricca biblioteca, se è in disordine, non è utile, quanto una piuttosto modesta, ma ben ordinata; parimenti la più grande quantità di conoscenze se non elaborate a fondo con il proprio pensiero vale assai meno di una quantità molto minore di esse, che però sia stata pensata a fondo e da più punti di vista. Infatti soltanto mediante la combinazione, svolta in ogni senso, di quello che sappiamo, e mediante il confronto di ogni verità con ogni altra, è possibile assimilare il proprio saper e averne sicuro possesso. Si può pensare a fondo soltanto ciò che si sa, perciò bisogna imparare qualcosa, ma si sa, altresì, soltanto ciò che si è pensato a fondo… 260. La lettura non è che un surrogato del pensiero autonomoBisogna leggere, dunque, soltanto quando la sorgente dei pensieri propri cessa di sgorgareInvece, è un peccato contro lo spirito santo scacciare i pensieri propri

 Anche se alle volte una verità, una intuizione, che siamo riusciti a cogliere con molta fatica e lentamente, pensando e combinando i nostri pensieri in modo autonomo, si sarebbe potuta trovare bella e pronta e agevolmente in un libro, quella verità è tuttavia cento volte più preziosa, se si è raggiunta pensando da sé… porta il colore, la sfumatura, limpronta del nostro intero modo di pensarePerciò i versi di Goethe:

Ciò che hai in eredità dai padri

guadagnalo per possederlo

 Colui che pensa da sé impara a conoscere le autorità che confermano le sue vedute soltanto in seguitomentre il filosofo libresco parte dalle autorità».

 2 L’idea risale a Esiodo, Opere, 289 τῆς δ' ἀρετῆς ἱδρῶτα θεοὶ προπάροιθεν ἔθηκαν, «davanti alla virtù gli dèi hanno posto il sudore». La stessa torna altrove in Seneca: Epistulae, 31, 7: non est viri timere sudorem, «non è da uomini temere il sudore»; 67, 12: cape, quantam debes, virtutis pulcherrimae ac magnificentissimae speciem, quae nobis non ture nec sertis, sed sudore et sanguine colenda est, «devi capire, è tuo dovere, lo splendore della bellissima e magnificentissima virtù, che noi dobbiamo onorare non con incenso e corone, ma con sudore e sangue».

 3 Anche perché come dice Socrate in Repubblica, VI, 497d: τὰ γὰρ δὴ μεγάλα πάντα ἐπισφαλῆ, καὶ τὸ λεγόμενον τὰ καλὰ τῷ ὄντι χαλεπά, «tutte le cose grandi sono rischiose, e c’è il detto le cose belle sono in raltà difficcili».

 4 Tenerli nell’ombra significa evitare il contatto con la realtà, che può rappresentare un problema. L’ombra nell’antichità non è mai positiva perché significa solitudine e distacco dalla realtà e dalla cultura. Vedi nell’articolo «Il sapere non è sapienza» la figura dell’umbraticus doctor.

 5 È Catone Uticense (o il Giovane), così soprannominato per distinguerlo dall’avo, il Censore, morto nel 149 a.C.. Fiero avversario di Cesare, dopo la battaglia di Farsálo del 48 a.C., in cui Cesaro sconfisse Pompeo, continuò a battersi, ma per non cadere prigioniero del rivale si diede in Utica la morte nel 46 a.C.. È l’eroe degli stoici.

 6 Si tratta del Fedone platonico, che tratta dell’immortalità dell’anima. Lo sappiamo da 68, 2: κατακλιθεὶς ἔλαβεν εἰς χεῖρας τῶν Πλάτωνος διαλόγων τὸν περὶ ψυχῆς, «prese tra le mani quello sull’anima dei dialoghi di Platone».

 7 In Epistulae, 24, 8 descrive così l’ultimo gesto: nudas in vulnus manus egit et generosum illum contemptoremque omnis potentiae spiritum non emisit sed eiecit, «mise le mani nude nella ferita e quello spirito nobile e sprezzante di ogni potenza non lo lasciò andare ma lo cacciò fuori». Così Plutarco, Vita di Catone, 70, 10: dopo essersi inferto il colpo sviene e i medici tentano sistemare le viscere uscite e lo ricuciono; ὡς οὖν ἀνήνεγκεν ὁ Κάτων καὶ συνεφρόνησε, τὸν μὲν ἰατρὸν ἀπεώσατο, ταῖς χερσὶ δὲ τὰ ἔντερα σπαράξας καὶ τὸ τραῦμ' ἐπαναρρήξας, ἀπέθανεν, «come dunque rinvenne Catone e riprese lucidità, cacciò via il medico, poi lacerandosi con le mani le viscere e squarciando di nuovo la ferita morì».

 8 Lo stesso concetto si trova in De providentia, VI, 4: Isti quos pro felicibus aspicis, si non qua occurrunt sed qua latent uideris, miseri sunt, sordidi turpes, ad similitudinem parietum suorum extrinsecus culti; non est ista solida et sincera felicitas: crusta est et quidem tenuis. Itaque dum illis licet stare et ad arbitrium suum ostendi, nitent et inponunt; cum aliquid incidit quod disturbet ac detegat, tunc apparet quantum altae ac uerae foeditatis alienus splendor absconderit, «4. Questi che tu guardi come fortunati, se li vedi non dal lato con cui si presentano ma da quello che nascondono, sono meschini, squallidi, vergognosi, a somiglianza delle loro pareti belli di fuori; non è questa una felicità solida e autentica: è una patina e pure sottile. E così finché è loro consentito stare dritti e mostrarsi a loro arbitrio, brillano e traggono in inganno; quando capita qualcosa che li sconvolge e scopre, allora appare quanta profonda e reale ripugnanza nascondesse quello splendore posticcio».

  Cfr. Schopenhauer, Parerga e paralipomena I, Aforismi sulla saggezza della vita. Capitolo quinto: «La maggior parte degli splendori e delle magnificenze è una pura apparenzatutto ciò è l’insegna, latteggiamento, il geroglifico della gioialo scopo consiste semplicemente nel far credere ad altri che là per lappunto ha preso alloggio la gioia: la vera intenzione è di suscitare tale illusione nel cervello altrui».

 9 Cfr. Lucrezio, De rerum natura, III, vv. 55-58: quo magis in dubiis hominem spectare periclis / convenit / adversisque in rebus noscere qui sit; / nam verae voces tum demum pectore ab imo / eliciuntur [et] eripitur persona manet res., «A maggior ragione è necessario osservare luomo nei dubbiosi / pericoli e conoscere chi sia nelle avversità; infatti allora infine le vere voci dal profondo del cuore / erompono e viene strappata la maschera, rimane lessenza».

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