Il mito della caverna – testo e traduzione

 


Introduco il mito della caverna di Platone, che si trova allinizio del libro VII della Repubblica ( 514a-517e) con il riassunto che ne fa Schopenhauer (Il mondo come volontà e rappresentazione, Libro terzo, § 31); in questo passo il filosofo greco viene accostato a colui che (a detta di Schopenhauer) ha messo un punto fermo nella storia della filosofia, ossia Kant; vedremo il testo platonico parola per parola constatando quanto sia più semplice delle semplificazioni che se ne possono fare. Leggiamo dunque Schopenhauer, che pure è uno dei filosofi più dotati di chiarezza despressione1:

Quello che dice Kant, in sostanza, è questo: «Tempo, spazio e causalità non sono determinazioni della cosa in sé, bensí appartengono solamente al suo fenomeno, in quanto non sono altro che forme della nostra conoscenza. Ora, dato però che ogni molteplicità e ogni generarsi e perire sono possibili solo grazie a tempo, spazio e causalità, ne segue che anch'essi possono essere attribuiti solo al fenomeno, e in nessun modo alla cosa in sé. Ma poiché la nostra conoscenza è condizionata da tali forme, ne segue che tutta la nostra esperienza è solamente conoscenza del fenomeno, non della cosa in sé, e che quindi le sue leggi non possono essere fatte valere per la cosa in sé. Quanto detto lo possiamo estendere anche al nostro io personale: noi lo conosciamo solo come fenomeno, non per ciò che esso può essere in sé». È questo, dal punto di vista che qui ci interessa maggiormente, il senso e il contenuto della dottrina di Kant. Platone invece dice: «Le cose di questo mondo, che sono percepite dai nostri sensi, non hanno un vero essere: esse divengono sempre, ma non sono mai: hanno solo un essere relativo, esistono tutte solo nella e per la loro relazione reciproca, sí che tutta quanta la loro esistenza può essere definita altrettanto legittimamente un non-essere. Esse, di conseguenza, non sono neppure oggetti di un'autentica conoscenza (ἑπιστήμη), in quanto si può avere conoscenza solo di ciò che esiste in sé e per sé e sempre nello stesso modo; esse, al contrario, sono solo l'oggetto di una opinione occasionata dalla sensazione (δόξα μετ᾽αἰσθήσεως ἀλόγου). Sino a quando rimaniamo prigionieri della percezione, siamo come degli uomini che siedano in una profonda caverna, legati cosí strettamente da non poter nemmeno volgere il capo, e che non vedano nulla se non, alla luce di un fuoco che arde alle loro spalle, le ombre, proiettate sulla parete che sta loro dinanzi, delle cose reali che vengono fatte passare tra loro stessi e il fuoco; persino di se stesso e dei suoi compagni ciascuno vede solo l'ombra riflessa su quella parete. La sapienza di costoro si ridurrebbe alla pura e semplice previsione dell'ordine, appreso dall'esperienza, in cui quelle ombre si succedono l'una all'altra. Ciò che, al contrario, può essere chiamato un vero essente (ὄντος ὄν), poiché sempre è, ma non diviene mai, né svanisce, sono le cause reali delle figure di quelle ombre: sono le idee eterne, la forma originaria di tutte le cose. Ad esse non compete alcuna molteplicità: ciascuna di esse, infatti, è unica secondo la propria essenza, in quanto ciascuna è il modello originario di cui tutte le cose omonime, singolari, periture della stessa specie sono copie, ombre. Alle idee non compete neppure alcun generarsi e alcun trapassare: esse, infatti, sono veramente, e non sono sottoposte al divenire né periscono, come accade alle loro copie transitorie (in entrambe queste determinazioni negative è comunque necessariamente posta la premessa che tempo, spazio e causalità non abbiano per le idee alcun senso e alcun valore, e che queste ultime non esistano in tali forme). Solo delle idee, perciò, si dà una conoscenza autentica, dato che essa può avere per oggetto solamente ciò che è sempre e sotto ogni rispetto (ossia ciò che è in sé); non ciò che è e che non è, a seconda del punto di vista dal quale lo si considera». – Questa la dottrina di Platone. È evidente, e non c'è bisogno di provarlo ulteriormente, che il senso profondo delle due dottrine è esattamente lo stesso: entrambe ritengono che il mondo visibile sia un'apparenza fenomenica che, in se stessa, è nulla e che ha solo un significato e una realtà presi a prestito da ciò che in essa si esprime (la cosa in sé per Kant, per Platone lidea).

 Siamo allinizio del libro VII della Repubblica e Socrate, che sta parlando, si rivolge al suo interlocutore Glaucone. Il mito è tutta una similitudine della condizione umana.

 [514] [a] μετὰ ταῦτα δή, εἶπον, ἀπείκασον τοιούτῳ πάθει τὴν ἡμετέραν φύσιν παιδείας τε πέρι καὶ ἀπαιδευσίας. «Dopo di che, dissi, assomiglia a una condizione siffatta la nostra natura a proposito di conoscenza e ignoranza».

 ἰδὲ γὰρ ἀνθρώπους οἷον ἐν καταγείῳ οἰκήσει σπηλαιώδει, ἀναπεπταμένην πρὸς τὸ φῶς τὴν εἴσοδον ἐχούσῃ μακρὰν παρὰ πᾶν τὸ σπήλαιον, ἐν ταύτῃ ἐκ παίδων ὄντας ἐν δεσμοῖς καὶ τὰ σκέλη καὶ τοὺς αὐχένας, «Guarda infatti degli uomini come in una dimora sotterranea simile a una caverna, con lentrata aperta alla luce grande lungo tutto lantro, che si trovano in questa fin da bambini in catene nelle gambe e nei colli»,

 ὥστε μένειν τε αὐτοὺς εἴς τε τὸ [b] πρόσθεν μόνον ὁρᾶν, κύκλῳ δὲ τὰς κεφαλὰς ὑπὸ τοῦ δεσμοῦ ἀδυνάτους περιάγειν, φῶς δὲ αὐτοῖς πυρὸς ἄνωθεν καὶ πόρρωθεν καόμενον ὄπισθεν αὐτῶν, μεταξὺ δὲ τοῦ πυρὸς καὶ τῶν δεσμωτῶν ἐπάνω ὁδόν, παρ᾽ ἣν ἰδὲ τειχίον παρῳκοδομημένον, ὥσπερ τοῖς θαυματοποιοῖς πρὸ τῶν ἀνθρώπων πρόκειται τὰ παραφράγματα, ὑπὲρ ὧν τὰ θαύματα δεικνύασιν. «così da stare fermi e da guardare solo davanti incapaci di muovere in giro le teste a causa della catena, poi che la luce di un fuoco bruci per loro dall’alto e da lontano dietro di loro, e una strada, tra il fuoco e i prigionieri, in alto, lungo la quale ecco un muretto costruito, come per i giocolieri davanti agli uomini si trovano dei parapetti, sopra i quali mostrano gli spettacoli».

 ὁρῶ, ἔφη. «Vedo, disse».

 ὅρα τοίνυν παρὰ τοῦτο τὸ τειχίον φέροντας ἀνθρώπους σκεύη τε παντοδαπὰ ὑπερέχοντα τοῦ τειχίου καὶ ἀνδριάντας [515] [a] καὶ ἄλλα ζῷα λίθινά τε καὶ ξύλινα καὶ παντοῖα εἰργασμένα, οἷον εἰκὸς τοὺς μὲν φθεγγομένους, τοὺς δὲ σιγῶντας τῶν παραφερόντων. «Guarda ora degli uomini che trasportano lungo questo muretto attrezzi vari che sporgono sopra al muretto e statue e altri animali di pietra e di legno e oggetti (lavorati) di vario tipo, e come è naturale, alcuni parlano, altri tacciono tra i trasportatori».

 ἄτοπον, ἔφη, λέγεις εἰκόνα καὶ δεσμώτας ἀτόπους. «Parli di una immagine strana, disse, e di strani prigionieri».

 ὁμοίους ἡμῖν, ἦν δ᾽ ἐγώ: τοὺς γὰρ τοιούτους πρῶτον μὲν ἑαυτῶν τε καὶ ἀλλήλων οἴει ἄν τι ἑωρακέναι ἄλλο πλὴν τὰς σκιὰς τὰς ὑπὸ τοῦ πυρὸς εἰς τὸ καταντικρὺ αὐτῶν τοῦ σπηλαίου προσπιπτούσας; «Simili a noi dissi io; infatti questi tali credi innanzitutto che di sé stessi e gli uni degli altri possano vedere altro tranne che le ombre proiettate dal fuoco sulla parte dell’antro davanti a loro»;

 πῶς γάρ, ἔφη, εἰ ἀκινήτους γε τὰς κεφαλὰς ἔχειν ἠναγκασμένοι [b] εἶεν διὰ βίου; «Come infatti (potrebbero), disse, se sono costretti ad avere le teste immobili durante la vita?»

 τί δὲ τῶν παραφερομένων; οὐ ταὐτὸν τοῦτο; «Cosa (vedrebbero) degli oggetti trasportati? Non forse questa stessa cosa?»

 τί μήν; «E cosa dunque?

 εἰ οὖν διαλέγεσθαι οἷοί τ᾽ εἶεν πρὸς ἀλλήλους, οὐ ταῦτα ἡγῇ ἂν τὰ ὄντα αὐτοὺς νομίζειν ἅπερ ὁρῷεν; «Se dunque fossero in grado di dialogare tra loro, non credi che essi riterrebbero realtà queste cose che vedessero?»

 ἀνάγκη. «Necessariamente».

 τί δ᾽ εἰ καὶ ἠχὼ τὸ δεσμωτήριον ἐκ τοῦ καταντικρὺ ἔχοι; ὁπότε τις τῶν παριόντων φθέγξαιτο, οἴει ἂν ἄλλο τι αὐτοὺς ἡγεῖσθαι τὸ φθεγγόμενον ἢ τὴν παριοῦσαν σκιάν; «E cosa se il carcere avesse anche un’eco dalla parte opposta? Quando uno di coloro che passano parlasse, credi che penserebbero che (sia) qualcos’altro a parlare (ciò che parla) se non l’ombra che passa?»

 μὰ Δί᾽ οὐκ ἔγωγ᾽, ἔφη. «Io no, per Zeus, disse».

 [c] Παντάπασι δή, ἦν δ᾽ ἐγώ, οἱ τοιοῦτοι οὐκ ἂν ἄλλο τι νομίζοιεν τὸ ἀληθὲς ἢ τὰς τῶν σκευαστῶν σκιάς. «In ogni caso, dissi io, tali individui riterrebbero il vero nient’altro che le ombre degli oggetti».

 πολλὴ ἀνάγκη, ἔφη. «Molto necessariamente, disse».

 σκόπει δή, ἦν δ᾽ ἐγώ, αὐτῶν λύσιν τε καὶ ἴασιν τῶν τε δεσμῶν καὶ τῆς ἀφροσύνης, οἵα τις ἂν εἴη, εἰ φύσει τοιάδε συμβαίνοι αὐτοῖς: «Guarda dunque, dissi io, quale sarebbe di loro la liberazione e la cura dalle catene e dalla stoltezza, se capitasse loro per natura una (situazione) siffatta»:

 ὁπότε τις λυθείη καὶ ἀναγκάζοιτο ἐξαίφνης ἀνίστασθαί τε καὶ περιάγειν τὸν αὐχένα καὶ βαδίζειν καὶ πρὸς τὸ φῶς ἀναβλέπειν, πάντα δὲ ταῦτα ποιῶν ἀλγοῖ τε καὶ διὰ τὰς μαρμαρυγὰς ἀδυνατοῖ καθορᾶν ἐκεῖνα ὧν [d] τότε τὰς σκιὰς ἑώρα, «qualora uno fosse liberato e fosse costretto all’improvviso ad alzarsi e a girare il collo e camminare e guardare verso la luce, ma facendo tutte queste cose soffrisse e a causa dei bagliori fosse incapace di scorgere quelle cose di cui allora vedeva le ombre»,

 τί ἂν οἴει αὐτὸν εἰπεῖν, εἴ τις αὐτῷ λέγοι ὅτι τότε μὲν ἑώρα φλυαρίας, νῦν δὲ μᾶλλόν τι ἐγγυτέρω τοῦ ὄντος καὶ πρὸς μᾶλλον ὄντα τετραμμένος ὀρθότερον βλέποι, καὶ δὴ καὶ ἕκαστον τῶν παριόντων δεικνὺς αὐτῷ ἀναγκάζοι ἐρωτῶν ἀποκρίνεσθαι ὅτι ἔστιν; «cosa credi che egli direbbe, se uno gli dicesse che allora vedeva fandonie, mentre ora piuttosto vede più correttamente qualcosa di più vicino alla realtà essendo anche volto a una cosa più reale, e per giunta indicandogli ciascuna delle cose che passano lo costringesse, interrogandolo, a rispondere cosa sia?»

 οὐκ οἴει αὐτὸν ἀπορεῖν τε ἂν καὶ ἡγεῖσθαι τὰ τότε ὁρώμενα ἀληθέστερα ἢ τὰ νῦν δεικνύμενα; «Non credi che sarebbe in imbarazzo e crederebbe le cose che allora venivano viste più vere di quelle ora indicate?»

 πολύ γ᾽, ἔφη. «Di gran lunga, disse».

 [e] Οὐκοῦν κἂν εἰ πρὸς αὐτὸ τὸ φῶς ἀναγκάζοι αὐτὸν βλέπειν, ἀλγεῖν τε ἂν τὰ ὄμματα καὶ φεύγειν ἀποστρεφόμενον πρὸς ἐκεῖνα ἃ δύναται καθορᾶν, καὶ νομίζειν ταῦτα τῷ ὄντι σαφέστερα τῶν δεικνυμένων; «E se dunque lo costringesse a guardare verso la luce stessa, (non credi che) soffrirebbe negli occhi e la fuggirebbe girandosi verso quelle cose che riusciva a scorgere e riterrebbe queste realmente più chiare di quelle indicate?»

 οὕτως, ἔφη. «Così è, disse».

 εἰ δέ, ἦν δ᾽ ἐγώ, ἐντεῦθεν ἕλκοι τις αὐτὸν βίᾳ διὰ τραχείας τῆς ἀναβάσεως καὶ ἀνάντους, καὶ μὴ ἀνείη πρὶν ἐξελκύσειεν εἰς τὸ τοῦ ἡλίου φῶς, «Ma se, dissi io, uno lo trascinasse via da là a forza attraverso una salita aspra e ripida, e non lo lasciasse prima di averlo trascinato alla luce del sole»,

 ἆρα οὐχὶ ὀδυνᾶσθαί τε [516] [a] ἂν καὶ ἀγανακτεῖν ἑλκόμενον, καὶ ἐπειδὴ πρὸς τὸ φῶς ἔλθοι, αὐγῆς ἂν ἔχοντα τὰ ὄμματα μεστὰ ὁρᾶν οὐδ᾽ ἂν ἓν δύνασθαι τῶν νῦν λεγομένων ἀληθῶν; «allora (non credi che) soffrirebbe e si adirerebbe di essere trascinato, e dopo che fosse giunto alla luce, avendo gli occhi pieni di bagliore non sarebbe capace vi vedere nemmeno una delle cose che ora sono dette vere?»

 οὐ γὰρ ἄν, ἔφη, ἐξαίφνης γε. «Non (riuscirebbe) infatti, disse, almeno su momento».

 συνηθείας δὴ οἶμαι δέοιτ᾽ ἄν, εἰ μέλλοι τὰ ἄνω ὄψεσθαι. «Certo, io credo, avrebbe bisogno di abituarsi (abitudine), se avesse intenzione di vedere le cose in alto».

 καὶ πρῶτον μὲν τὰς σκιὰς ἂν ῥᾷστα καθορῷ, καὶ μετὰ τοῦτο ἐν τοῖς ὕδασι τά τε τῶν ἀνθρώπων καὶ τὰ τῶν ἄλλων εἴδωλα, ὕστερον δὲ αὐτά: «E dapprima scorgerebbe nel modo più facile le ombre, e dopo questo le immagini degli uomini e quelle delle altre cose (riflesse) nelle acque, poi quelle stesse (cioè le cose stesse, non le immagini riflesse):»

 ἐκ δὲ τούτων τὰ ἐν τῷ οὐρανῷ καὶ αὐτὸν τὸν οὐρανὸν νύκτωρ ἂν ῥᾷον θεάσαιτο, προσβλέπων τὸ τῶν [b] ἄστρων τε καὶ σελήνης φῶς, ἢ μεθ᾽ ἡμέραν τὸν ἥλιόν τε καὶ τὸ τοῦ ἡλίου. «a partire da queste poi potrebbe osservare più facilmente le cose nel cielo e il cielo stesso di notte, guardando la luce delle stelle e della luna, invece che di giorno il sole e la luce del sole».

 πῶς δ᾽ οὔ; «Come no?»

 τελευταῖον δὴ οἶμαι τὸν ἥλιον, οὐκ ἐν ὕδασιν οὐδ᾽ ἐν ἀλλοτρίᾳ ἕδρᾳ φαντάσματα αὐτοῦ, ἀλλ᾽ αὐτὸν καθ᾽ αὑτὸν ἐν τῇ αὑτοῦ χώρᾳ δύναιτ᾽ ἂν κατιδεῖν καὶ θεάσασθαι οἷός ἐστιν. «Per ultimo poi, credo, il sole, non le sue immagini nelle acque né in altra sede, ma esso per se stesso nel suo proprio luogo sarebbe capace di scorgerlo e osservare quale è».

 ἀναγκαῖον, ἔφη. «Necessario (è), disse».

 καὶ μετὰ ταῦτ᾽ ἂν ἤδη συλλογίζοιτο περὶ αὐτοῦ ὅτι οὗτος ὁ τάς τε ὥρας παρέχων καὶ ἐνιαυτοὺς καὶ πάντα ἐπιτροπεύων [c] τὰ ἐν τῷ ὁρωμένῳ τόπῳ, καὶ ἐκείνων ὧν σφεῖς ἑώρων τρόπον τινὰ πάντων αἴτιος. «E dopo queste cose potrebbe ragionare su di esso, cioè che questo e quello che procura le stagioni e gli anni, e che governa tutte le cose nel luogo che viene visto, ed è causa in qualche modo di tutte quelle cose che (attratto nel caso dell’antecedente, dovrebbe essere acc.) essi vedevano».

 δῆλον, ἔφη, ὅτι ἐπὶ ταῦτα ἂν μετ᾽ ἐκεῖνα ἔλθοι«È chiaro, disse, che dopo quelle (esperienze) giungerebbe a queste (considerazioni)».

 τί οὖν; ἀναμιμνῃσκόμενον αὐτὸν τῆς πρώτης οἰκήσεως καὶ τῆς ἐκεῖ σοφίας καὶ τῶν τότε συνδεσμωτῶν οὐκ ἂν οἴει αὑτὸν μὲν εὐδαιμονίζειν τῆς μεταβολῆς, τοὺς δὲ ἐλεεῖν; «E che, dunque? Ricordandosi egli della prima dimora e della sapienza di laggiù e dei compagni di catene di allora non credi che riterrebbe se stesso felice del cambiamento, mentre avrebbe compassione di quelli?»

 καὶ μάλα. «Hai voglia!».

 τιμαὶ δὲ καὶ ἔπαινοι εἴ τινες αὐτοῖς ἦσαν τότε παρ᾽ ἀλλήλων καὶ γέρα τῷ ὀξύτατα καθορῶντι τὰ παριόντα, καὶ μνημονεύοντι μάλιστα ὅσα τε πρότερα αὐτῶν καὶ ὕστερα [d] εἰώθει καὶ ἅμα πορεύεσθαι, καὶ ἐκ τούτων δὴ δυνατώτατα ἀπομαντευομένῳ τὸ μέλλον ἥξειν, «E se c’erano allora tra loro certi onori e lodi e premi per chi distinguesse con più acutezza gli oggetti che passavano, e ricordasse soprattutto quanti tra quelli erano soliti passare per primi e per ultimi e insieme, e quindi prevedesse il più possibile quello che stava per giungere»,

 δοκεῖς ἂν αὐτὸν ἐπιθυμητικῶς αὐτῶν ἔχειν καὶ ζηλοῦν τοὺς παρ᾽ ἐκείνοις τιμωμένους τε καὶ ἐνδυναστεύοντας, ἢ τὸ τοῦ Ὁμήρου ἂν πεπονθέναι καὶ σφόδρα βούλεσθαι «ἐπάρουρον ἐόντα θητευέμεν ἄλλῳ ἀνδρὶ παρ᾽ ἀκλήρῳ» καὶ ὁτιοῦν ἂν πεπονθέναι μᾶλλον ἢ 'κεῖνά τε δοξάζειν καὶ ἐκείνως ζῆν; «credi tu che quello (cioè quello che era uscito dalla caverna) sarebbe desideroso di quelle cose e invidierebbe coloro che sono onorati e che dominano tra quelli, oppure gli capiterebbe il detto di Omero e vorrebbe intensamente “essendo un bifolco servire presso un altro uomo senza beni” (Od., XI, 489; è Achille con Ulisse, la giustificazione estetica apollinea) e subirebbe qualsiasi sorte piuttosto che congetturare quelle cose e vivere in quel modo?»

 [e] Οὕτως, ἔφη, ἔγωγε οἶμαι, πᾶν μᾶλλον πεπονθέναι ἂν δέξασθαι ἢ ζῆν ἐκείνως. «Io almeno penso così, disse, cioè che accetterebbe di subire tutto piuttosto che vivere in quel modo».

 καὶ τόδε δὴ ἐννόησον, ἦν δ᾽ ἐγώ. εἰ πάλιν ὁ τοιοῦτος καταβὰς εἰς τὸν αὐτὸν θᾶκον καθίζοιτο, ἆρ᾽ οὐ σκότους ἂν ἀνάπλεως σχοίη τοὺς ὀφθαλμούς, ἐξαίφνης ἥκων ἐκ τοῦ ἡλίου; «Ma rifletti anche su questo, dissi io. Se tale individuo ridisceso andasse a sedersi di nuovo sul medesimo seggio, non avrebbe forse gli occhi pieni di tenebra, giunto all’improvviso dal sole?»

 καὶ μάλα γ᾽, ἔφη. «Proprio così, disse».

 τὰς δὲ δὴ σκιὰς ἐκείνας πάλιν εἰ δέοι αὐτὸν γνωματεύοντα διαμιλλᾶσθαι τοῖς ἀεὶ δεσμώταις ἐκείνοις, ἐν ᾧ ἀμβλυώττει, [517] [a]  πρὶν καταστῆναι τὰ ὄμματα, οὗτος δ᾽ ὁ χρόνος μὴ πάνυ ὀλίγος εἴη τῆς συνηθείας, «se dunque dovesse fare a gara a distinguere di nuovo le ombre con quelli da sempre prigionieri, cosa in cui è debole di vista [517] [a] prima che gli occhi si siano risistemati, e questo tempo dell’assuefazione fosse non troppo poco»,

 ἆρ᾽ οὐ γέλωτ᾽ ἂν παράσχοι, καὶ λέγοιτο ἂν περὶ αὐτοῦ ὡς ἀναβὰς ἄνω διεφθαρμένος ἥκει τὰ ὄμματα, καὶ ὅτι οὐκ ἄξιον οὐδὲ πειρᾶσθαι ἄνω ἰέναι«non provocherebbe forse una risata, e si direbbe di lui che risalito è giunto rovinato negli occhi, e che non vale la pena nemmeno provare di andare su?»

 καὶ τὸν ἐπιχειροῦντα λύειν τε καὶ ἀνάγειν, εἴ πως ἐν ταῖς χερσὶ δύναιντο λαβεῖν καὶ ἀποκτείνειν, ἀποκτεινύναι ἄν; «e colui che tentasse di liberarli e condurli su, se mai potessero prenderlo tra le mani e ucciderlo, non lo ucciderebbero2

 σφόδρα γ᾽, ἔφη. «Assolutamente», disse.

 ταύτην τοίνυν, ἦν δ᾽ ἐγώ, τὴν εἰκόνα, ὦ φίλε Γλαύκων, [b] προσαπτέον ἅπασαν τοῖς ἔμπροσθεν λεγομένοις, τὴν μὲν δι᾽ ὄψεως φαινομένην ἕδραν τῇ τοῦ δεσμωτηρίου οἰκήσει ἀφομοιοῦντα, τὸ δὲ τοῦ πυρὸς ἐν αὐτῇ φῶς τῇ τοῦ ἡλίου δυνάμει: «Dunque caro Glaucone,» dissi io, «bisogna applicare tutta questa immagine alle cose dette prima, assimilando la sede che appare attraverso la vista alla dimora dei prigionieri, la del fuoco in essa alla potenza del sole»:

 τὴν δὲ ἄνω ἀνάβασιν καὶ θέαν τῶν ἄνω τὴν εἰς τὸν νοητὸν τόπον τῆς ψυχῆς ἄνοδον τιθεὶς οὐχ ἁμαρτήσῃ τῆς γ᾽ ἐμῆς ἐλπίδος, ἐπειδὴ ταύτης ἐπιθυμεῖς ἀκούειν. θεὸς δέ που οἶδεν εἰ ἀληθὴς οὖσα τυγχάνει. «ponendo poi la salita sopra e la visione delle cose di sopra come l’ascesa dell’anima nella regione intellegibile non ti sbaglierai sulla mia previsione, dato che desideri ascoltarla. Dio sa forse se si trovi ad essere vera».

 τὰ δ᾽ οὖν ἐμοὶ φαινόμενα οὕτω φαίνεται, ἐν τῷ γνωστῷ τελευταία ἡ τοῦ [c] ἀγαθοῦ ἰδέα καὶ μόγις ὁρᾶσθαι, ὀφθεῖσα δὲ συλλογιστέα εἶναι ὡς ἄρα πᾶσι πάντων αὕτη ὀρθῶν τε καὶ καλῶν αἰτία, «Ciò che mi appare dunque così mi appare: nell’ambito del conoscibile si trova all’estremità l’idea [c] del bene3 ed è a stento visibile, ma una volta vista bisogna dedurre che veramente è per tutto quanto questa la causa di tutte le cose giuste e belle»,

 ἔν τε ὁρατῷ φῶς καὶ τὸν τούτου κύριον τεκοῦσα, ἔν τε νοητῷ αὐτὴ κυρία ἀλήθειαν καὶ νοῦν παρασχομένη, καὶ ὅτι δεῖ ταύτην ἰδεῖν τὸν μέλλοντα ἐμφρόνως πράξειν ἢ ἰδίᾳ ἢ δημοσίᾳ. «avendo generato nel visibile la luce e il suo signore, e nell’intellegibile essendo essa stessa signora in quando offre verità e pensiero, e poi che bisogna che abbia visto questa colui che abbia intenzione di agire con senno vuoi privatamente vuoi pubblicamente».

 συνοίομαι, ἔφη, καὶ ἐγώ, ὅν γε δὴ τρόπον δύναμαι. «La penso come te anche io», disse, «almeno nel modo in cui ne sono capace».

 ἴθι τοίνυν, ἦν δ᾽ ἐγώ, καὶ τόδε συνοιήθητι καὶ μὴ θαυμάσῃς ὅτι οἱ ἐνταῦθα ἐλθόντες οὐκ ἐθέλουσιν τὰ τῶν ἀνθρώπων πράττειν, ἀλλ᾽ ἄνω ἀεὶ ἐπείγονται αὐτῶν αἱ ψυχαὶ διατρίβειν: [d] εἰκὸς γάρ που οὕτως, εἴπερ αὖ κατὰ τὴν προειρημένην εἰκόνα τοῦτ᾽ ἔχει. «Su dunque», dissi io, «concorda anche su questo e non meravigliarti del fatto che coloro che sono arrivati a questo punto non vogliono attendere alle faccende degli uomini, ma le loro anime aspirano sempre a trascorrere il tempo lassù: [d] infatti è verosimile che sia in qualche modo così, se appunto la questione sta secondo la summenzionata immagine».

 εἰκὸς μέντοι, ἔφη. «È certamente verosimile», disse.

 Τί δέ; τόδε οἴει τι θαυμαστόν, εἰ ἀπὸ θείων, ἦν δ' ἐγώ, θεωριῶν ἐπὶ τὰ ἀνθρώπειά τις ἐλθὼν κακὰ ἀσχημονεῖ τε καὶ φαίνεται σφόδρα γελοῖος ἔτι ἀμβλυώττων καὶ πρὶν ἱκανῶς συνήθης γενέσθαι τῷ παρόντι σκότῳ ἀναγκαζόμενος ἐν δικαστηρίοις ἢ ἄλλοθί που ἀγωνίζεσθαι περὶ τῶν τοῦ δικαίου σκιῶν ἢ ἀγαλμάτων ὧν αἱ σκιαί, καὶ διαμιλλᾶσθαι [e] περὶ τούτου, ὅπῃ ποτὲ ὑπολαμβάνεται ταῦτα ὑπὸ τῶν αὐτὴν δικαιοσύνην μὴ πώποτε ἰδόντων; «E che? Pensi che questo sia qualcosa di cui meravigliarsi, se», dissi io, «uno giunto da contemplazioni divine ai mali umani fa una brutta figura e appare molto ridicolo, quando, avendo la vista ancora debole e prima di essersi sufficientemente assuefatto alle presenti tenebre, viene costretto a combattere nei tribunali o da qualche altra parte sulle ombre del giusto o sulle statue di cui ci sono le ombre, e a competere [e] su questo, cioè su come queste cose vengono concepite da coloro che non hanno mai visto la giustizia in sé?».

 Οὐδ’ ὁπωστιοῦν θαυμαστόν, ἔφη. «Non c’è proprio motivo di meravigliarsi».

 1 Sulla chiarezza come pregio fondamentale si raccomanda Aristotele (Poetica, 1458a): Λέξεως δὲ ἀρετὴ σαφῆ καὶ μὴ ταπεινὴν εἶναι, «Virtù del linguaggio è essere chiaro e non sciatto». Anche Orazio la pensa così: Ars poetica, 448-450: parum claris lucem dare coget, / arguet ambigue dictum, mutanda notabit, / fiet Aristarchus, «Costringerà a dare luce alle espressioni poco chiare, / spiegherà ciò che è stato detto ambiguamente, segnalerà le cose da cambiare, / diventerà un Aristarco» (Il soggetto è colui che ha il compito di criticare con sincerità un lavoro per rilevarne i difetti). Aristotele poi aggiunge (1459a): πολὺ δὲ μέγιστον τὸ μεταφορικὸν εἶναι. μόνον γὰρ τοῦτο οὔτε παρ' ἄλλου ἔστι λαβεῖν εὐφυΐας τε σημεῖόν ἐστι· τὸ γὰρ εὖ μεταφέρειν τὸ τὸ ὅμοιον θεωρεῖν ἐστιν, «ma la cosa di gran lunga più importante è essere metaforici. Infatti solo questo non è possibile prenderlo da unaltra parte ed è segno di una natura ben fatta: il fare delle belle metafore infatti è osservare ciò che è simile». E in Reth., ΙΙΙ, 11, 5: καὶ ἐν φιλοσοφίᾳ τὸ ὅμοιον καὶ ἐν πολὺ διέχουσι θεωρεῖν εὐστόχου, «anche in filosofia osservare ciò che è simile anche nelle cose molto distanti è proprio di una persona perspicace». Il medesimo concetto si trova in Schopenhauer, Parerga e paralipomena II (capitolo ventitreesimo, sul mestiere dello scrittore e sullo stile, 289): «Le similitudini hanno un grande valore, in quanto riconducono un rapporto sconosciuto a uno notoInoltre ogni vero intendere consiste in ultima analisi in un afferrare rapportinon appena ho colto anche soltanto in due casi diversi lo stesso rapporto, io ho un concetto di tutta la sua specie il saperne fare di sorprendenti ma pertinenti è prova di profonda intelligenza».

2 È difficile non pensare alla sorte di Socrate, condannato a morte nel 399 a.C. dal tribunale ateniese per empietà e corruzione dei giovani secondo Nietzsche giustamente perché aveva corrotto la tragedia in combutta con Euripide (La nascita della tragedia):

«Riconosciamo in Socrate lavversario di Dionisoe, benché destinato a essere dilaniato dalle Menadi del tribunale ateniese, costringe alla fuga lo stesso potentissimo dio» (cap. 12). 
«Che Socrate avesse uno stretto legame di tendenza con Euripide, non sfuggì all’antichità di quel tempo; e lespressione più eloquente di questo fiuto felice è quella leggenda circolante ad Atene, secondo cui Socrate usava aiutare Euripide a poetare. Dai partigiani del «buon tempo antico» i due nomi venivano pronunciati assieme, quando si trattava di enumerare i presunti corruttori del popolo: dal loro influsso seguiva che lantica e quadrata valentia di corpo e danimo, degna di Maratona, fosse sempre più sacrificata a un dubbio razionalismoin questo tono, mezzo di sdegno e mezzo di disprezzo, la commedia aristofanesca suole parlare di quegli uomini. [...] Socrate, come avversario dellarte tragica, si asteneva dal frequentare la tragedia, mettendosi fra gli spettatori soltanto quando veniva rappresentato un nuovo dramma di Euripide» (cap. 13).

  3 Cfr. Repubblica 505a: ἡ τοῦ ἀγαθοῦ ἰδέα μέγιστον μάθημα […] εἰ δὲ μὴ ἴσμεν, ἄνευ δὲ ταύτης εἰ ὅτι μάλιστα τἆλλα ἐπισταίμεθα, οἶσθ’ ὅτι οὐδὲν ἡμῖν ὄφελος, «l’idea del bene è il massimo apprendimento […] se non la conosciamo, senza questa, se sappiamo al meglio le altre cose, capisci che niente è per noi un vantaggio». Successivamente poi (VI, 508b-c) Socrate istituisce l’analogia tra Sole e Bene ripresa qui nel libro VII: Τοῦτον τοίνυν, ἦν δ' ἐγώ, φάναι με λέγειν τὸν τοῦ ἀγαθοῦ ἔκγονον, ὃν τἀγαθὸν ἐγέννησεν ἀνάλογον ἑαυτῷ, ὅτιπερ αὐτὸ [c] ἐν τῷ νοητῷ τόπῳ πρός τε νοῦν καὶ τὰ νοούμενα, τοῦτο τοῦτον ἐν τῷ ὁρατῷ πρός τε ὄψιν καὶ τὰ ὁρώμενα. «Dunque dì pure che, diss’io, che io affermo che questo è figlio del bene, che il bene generò analogo a se stesso, che quello che il bene nella sfera intellegibile in relazione all’intelletto e ai suoi oggetti, così è il sole nella sfera visibile in relazione alla vista ai suoi oggetti».

6 commenti:

  1. Effettivamente il testo platonico è molto più semplice delle semplificazioni che ne sono state fatte Bravo Alessandro Margherita

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    1. Schopenhauer dice, giustamente, che leggere le storie della filosofia anziché i testi dei filosofi, è come studiare la storia sui manuali pur avendo la possibilità di viaggiare nel tempo...

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    2. Parole sante !👏Margherita

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