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martedì 15 aprile 2025

Nihil invitus facit sapiens – Seneca, Epistulae, 54

 

7. nihil invitus facit sapiens; necessitatem effugit, quia vult quod coactura est.

«7. Il sapiente non fa nulla se non vuole; sfugge alla necessità, poiché vuole ciò a cui essa è destinata a costringerlo».


Quando Enea nel VI libro dell’Eneide discende agli inferi1, incontra per l’ultima volta Didone, ormai tra le ombre dei morti; dopo essersene sorpreso e adombrando l’ipotesi di esserne responsabile, dice per giustificarsi:

invitus, regina, tuo de litore cessi,

«senza volerlo regina mi sono allontanato dalla tua spiaggia»2.

Facciamo un passo indietro. Nel I libro del poema Virgilio aveva raccontato l’incontro tra la regina di Cartagine e il pio Enea, fato profugus3, umanamente accolto da Didone4 dopo il naufragio. Nel IV libro avevamo assistito all’esplosione della storia d’amore, favorita per motivi diversi sia da Venere sia da Giunone: dopo essere stato ospitato e soccorso, Enea se ne era andato improvvisamente, ubbidendo agli ordini di Mercurio e rispondendo con queste parole a Didone che tentava disperatamente di dissuaderlo: desine meque tuis incendere teque querellis; / Italiam non sponte sequor, «Smettila di infiammare me e te con le tue lamentele: / non di mia volontà seguo l’Italia» (IV, 360-361)5Ebbene, così Virgilio descrive la reazione dellombra di Didone alle parole di Enea: illa solo fixos ocuols aversa tenebat«ella teneva gli occhi fissi al suolo, girata dallaltra parte»6.


Cfr. per approfondire:


1 Diversamente da Ulisse, che nellOdissea li evoca (XI, vv. 34 sqq.); a questo passo alluderà Nietzsche (Umano, troppo umano II, parte prima, 408, Milano, Adelphi, 1981), parafrasandolo efficacemente anche se non precisamente: «Il viaggio nellAde. Anche io sono stato agli inferi, come Odisseo, e ci tornerò ancora più volte; e non solo montoni ho sacrificato per poter parlare con alcuni morti; bensì non ho risparmiato il mio stesso sangue».

2 Virgilio, Eneide, VI, 460. Ma si potrebbe già obiettare con Seneca (Epistulae, 54, 7): nihil invitus facit sapiens; necessitatem effugit, quia vult quod coactura est, «Il sapiente non fa nulla se non vuole; sfugge alla necessità, poiché vuole ciò a cui essa è destinata a costringerlo».

3 «Profugo per volere del fato» (Eneide, I, 2). T. S. Eliot vede in ciò lelemento che fa del poema virgiliano il classico per antonomasia (Che cosa è un classico?, in Opere. 1939-1962, Bompiani 2003, a cura di Roberto Sanesi, pp. 491-492): «Enea è, dal principio alla fine, una creatura del fato: un uomo che non è un avventuriero o un intrigante, un vagabondo o un arrivista; un uomo che compie il proprio destino non per forza o per decreto arbitrario  né certamente per brama di gloria – ma sottomettendo la propria volontà a un potere più alto […] è bandito dalla patria per uno scopo che supera la sua comprensione, ma che nondimeno egli accetta; e dal punto di vista umano non è uno che sia felice o abbia successo. Ma è il simbolo di Roma, e quello che Enea è per Roma, lantica Roma è per lEuropa. Così Virgilio si conquista la centralità” del classico supremo; è lui il centro della civiltà europea, in una posizione che nessun altro poeta può condividere o usurpare».

4 Allansia di Enea così risponde Didone: non ignara mali miseris succurrere disco, «Non ignara del male, imparo a soccorrere i miseri» (I, 630). È questa la versione virgiliana del τόπος eschileo del πάθει μάθος, «attraverso la sofferenza la comprensione» (Agamennone, 177).

5 Giustamente Ovidio nota sarcasticamente che et famam pietatis habet, tamen hospes et ensem / praebuit et causam mortis, Elissa, tuae, «ha pure la fama di pietà, tuttavia da ospite ha fornito la spada e il motivo, Elissa, della tua morte» (Ovidio, Ars amatoria, III, 39-40).

6 Così commenta lepisodio T. S. Eliot (op. cit., pp. 484-485): «Ho sempre pensato che lincontro di Enea con lombra di Didone, nel libro VI, sia non soltanto uno dei brani più commoventi, ma anche uno dei più civili che si possano incontrare in poesia. È un episodio parco nellespressione quanto ricco di significato»; poi Eliot nota come «invece di ingiuriare Enea ella si limiti a ignorarlo – ed è forse il più espressivo rimprovero di tutta la storia della poesia».

lunedì 3 marzo 2025

Dire «non volevo» è una giustificazione? – 1° parte

 

Quando Enea nel VI libro dell’Eneide discende agli inferi, incontra per l’ultima volta Didone, ormai tra le ombre dei morti; dopo essersi sorpreso della sua morte e adombrando l’ipotesi di esserne la causa, dice per giustificarsi:


invitus, regina, tuo de litore cessi

«senza volerlo regina mi sono allontanato dalla tua spiaggia»1.


Facciamo un passo indietro. Nel I libro del poema era stato raccontato l’incontro tra la Sidonia Didone, la regina di Cartagine, e il pio Enea, il troiano fato profugus2, umanamente accolto dalla regina3 in seguito al naufragio. Nel IV libro avevamo assistito all’esplosione della storia d’amore, favorita per motivi diversi sia da Venere sia da Giunone: dopo essere stato ospitato, soccorso e coccolato Enea se ne era andato improvvisamente, ubbidendo agli ordini di Mercurio e rispondendo con queste parole a Didone che tentava disperatamente di dissuaderlo: desine meque tuis incendere teque querelis; / Italiam non sponte sequor, «Smettila di infiammare me e te con le tue lamentele: / non di mia volontà seguo l’Italia» (IV, 630-631)4.

Ebbene, così Virgilio descrive la reazione dell’ombra di Didone alle parole di Enea: illa solo fixos ocuols aversa tenebat, «ella teneva gli occhi fissi al suolo, girata dall'altra parte»5.

Mi sono sempre chiesto se l’assenza di volontarietà nel compiere il male sia o no un’attenuante. In questo articolo cercherò di fornire qualche spunto di riflessione.

Inizio da un breve dialogo di Platone che affronta specificamente questo tema, l’Ippia minore; vediamone un riassunto.

Si parte da una una questione posta da Socrate al sofista Ippia di Elide (364b):

ἀτὰρ τί δὴ λέγεις ἡμῖν περὶ τοῦ Ἀχιλλέως τε καὶ τοῦ Ὀδυσσέως; πότερον ἀμείνω καὶ κατὰ τί φῂς εἶναι;

«Ma cosa ci dici a proposito di Achille e di Odisseo? Chi dei due dici che è migliore e secondo cosa?»

Ippia risponde così (364c):

φημὶ γὰρ Ὅμηρον πεποιηκέναι ἄριστον μὲν ἄνδρα Ἀχιλλέα τῶν εἰς Τροίαν ἀφικομένων, σοφώτατον δὲ Νέστορα, πολυτροπώτατον δὲ Ὀδυσσέα.

«Dico infatti che Omero ha fatto Achille come l’uomo migliore tra quelli giunti a Troia, Nestore il più sapiente, Odisseo il più multiforme nell’ingegno».

L’aggettivo πολύτροπος, usato qui al superlativo e nel senso di «scaltro», «tessitore d’inganni», è invece l’epiteto che caratterizza positivamente l’eroe nel primo verso dell’Odissea. Ippia specifica poco dopo il suo pensiero aggiungendo che Achille è ἁπλούστατος καὶ ἀληθέστατος, «schietto e veritiero6 al massimo» (364d), come emerge dai versi citati (Iliade, X, 308-3147) che non casualmente Omero fa pronunciare ad Achille nei confronti di Odisseo:

Διογενὲς Λαερτιάδη, πολυμήχαν' Ὀδυσσεῦ,

χρὴ μὲν δὴ τὸν μῦθον ἀπηλεγέως ἀποειπεῖν,

ὥσπερ δὴ κρανέω τε καὶ ὡς τελέεσθαι ὀίω·

ἐχθρὸς γάρ μοι κεῖνος ὁμῶς Ἀΐδαο πύλῃσιν,

ὅς χ' ἕτερον μὲν κεύθῃ ἐνὶ φρεσίν, ἄλλο δὲ εἴπῃ.

αὐτὰρ ἐγὼν ἐρέω, ὡς καὶ τετελεσμένον ἔσται.

«Laerziade di stirpe divina, Odisseo dalle molte risorse, / è necessario certo manifestare francamente il pensiero, come lo realizzerò e come penso che si compirà; / infatti quello mi è odioso come le porte dell’Ade, / che una cosa occulti nel cuore, un’altra dica. / Ma io dirò come anche sarà compiuto».

In questi versi Achille, dopo aver accolto amichevolmente i tre ambasciatori (Fenice, Aiace e Odisseo), rifiuta sdegnato la proposta di Odisseo che su mandato di Agamennone gli promette, in cambio del ritorno ai posti di combattimento, una ricca ricompensa: sette tripodi, dieci talenti d’oro, venti lebeti, dodici cavalli campioni e in più sette donne lesbie, oltre a Briseide (con la quale, assicura, Agamennone non si è ancora accoppiato), subito, e dopo la conquista di Troia altre venti tra le prigioniere (le più belle dopo Elena); infine bottino a non finire. Al ritorno in patria Agamennone gli avrebbe poi dato in sposa una delle tre figlie (Crisotemi, Laodice, Ifianassa) con sette castelli in dote.

Ippia argomenta sulla falsità di Odisseo giocando sui termini τρόπος («carattere, ingegno») e πολύτροπός («dal multiforme ingegno»), in quanto dalle parole di Omero emerge il carattere (τρόπος) ἀληθής τε καὶ ἁπλοῦς, «veritiero e schietto» di Achille, πολύτροπός τε καὶ ψευδής, «dall’ingegno multiforme e falso» di Odisseo.

A questo punto Socrate lo confuta sostenendo che il più scaltro in realtà è Achille il quale, nei versi successivi, prima dice a Odisseo che non tornerà ma l’indomani partirà con la nave (vv. 356-61) e poco dopo dice ad Aiace che aspetterà Ettore presso la sua nave (vv. 654-655). Siccome infatti Odisseo οὐδὲν γοῦν φαίνεται εἰπὼν πρὸς αὐτὸν ὡς αἰσθανόμενος αὐτοῦ ψευδομένου, «è evidente che non dice niente a lui come se si fosse accorto che sta mentendo» (371a), allora significa che Omero ha fatto Achille tanto scaltro da superare Odisseo nella sua stessa arte, concedendosi addirittura il lusso di contraddirsi davanti a lui. Come minimo Achille e Odisseo sono dunque sullo stesso piano.

Queste argomentazioni socratiche hanno lo scopo di indurre Ippia a dire quello che Socrate vuole, cioè che in verità Achille è comunque migliore in quanto (371e):

ταῦτα ὑπὸ εὐηθείας ἀναπεισθεὶς πρὸς τὸν Αἴαντα ἄλλα εἶπεν ἢ πρὸς τὸν Ὀδυσσέα· ὁ δὲ Ὀδυσσεὺς ἅ τε ἀληθῆ λέγει, ἐπιβουλεύσας ἀεὶ λέγει, καὶ ὅσα ψεύδεται, ὡσαύτως,

«indotto dalla semplicità ha detto queste cose ad Aiace diversamente che a Odisseo; Odisseo invece le cose vere che dice, le dice sempre avendole premeditate, e quelle false allo stesso modo».

Poco prima (367a) però si era convenuto8 sul fatto che:

ὁ μὲν ἀμαθὴς πολλάκις ἂν βουλόμενος ψευδῆ λέγειν τἀληθῆ ἂν εἴποι ἄκων, εἰ τύχοι, διὰ τὸ μὴ εἰδέναι, σὺ δὲ ὁ σοφός, εἴπερ βούλοιο ψεύδεσθαι, ἀεὶ ἂν κατὰ τὰ αὐτὰ ψεύδοιο,

«l’ignorante spesso, pur volendo dire il falso, potrebbe dire il vero involontariamente, caso mai, per il fatto di non sapere, mentre il sapiente, come te, se volesse dire il falso, direbbe il falso sempre nello stesso modo».

La logica conclusione è che Odisseo è migliore di Achille, ma Ippia non la accetta (371e-372a):

Καὶ πῶς ἄν, ὦ Σώκρατες, οἱ ἑκόντες ἀδικοῦντες καὶ [372] [a] ἑκόντες ἐπιβουλεύσαντες καὶ κακὰ ἐργασάμενοι βελτίους ἂν εἶεν τῶν ἀκόντων, οἷς πολλὴ δοκεῖ συγγνώμη εἶναι, ἐὰν μὴ εἰδώς τις ἀδικήσῃ ἢ ψεύσηται ἢ ἄλλο τι κακὸν ποιήσῃ; καὶ οἱ νόμοι δήπου πολὺ χαλεπώτεροί εἰσι τοῖς ἑκοῦσι κακὰ ἐργαζομένοις καὶ ψευδομένοις ἢ τοῖς ἄκουσιν.

«E come, o Socrate, coloro che commettono ingiustizia volontariamente e che volontariamente premeditano e attuano dei mali sarebbero migliori di coloro che agiscono così involontariamente, per i quali pare esserci molta indulgenza, qualora uno senza saperlo commetta ingiustizia o menta o compia un qualche altro male? Anche le leggi in fin dei conti sono molto più dure con coloro che compiono volontariamente dei mali e mentono piuttosto che con chi lo fa involontariamente».

Ippia ha spostato la discussione sul piano morale, quello del bene e del male, ma Socrate rimane del suo parere (372d):

ἐμοὶ γὰρ φαίνεται, ὦ Ἱππία, πᾶν τοὐναντίον ἢ ὃ σὺ λέγεις· οἱ βλάπτοντες τοὺς ἀνθρώπους καὶ ἀδικοῦντες καὶ ψευδόμενοι καὶ ἐξαπατῶντες καὶ ἁμαρτάνοντες ἑκόντες ἀλλὰ μὴ ἄκοντες, βελτίους εἶναι ἢ οἱ ἄκοντες. 
«A me infatti sembra, o Ippia, tutto il contrario di quello che dici tu: coloro che danneggiano gli uomini e commettono ingiustizia e mentono e ingannano e sbagliano volontariamente, non invece involontariamente, sono migliori di coloro che lo fanno involontariamente».

La parte finale del dialogo presenta una serie di esempi in cui il filo conduttore è che per voler fare qualcosa male bisogna saperlo fare bene, dunque la volontà di fare il male presuppone la capacità di fare il bene; il più convincente è questo (374c):

Πότερον οὖν ἂν δέξαιο πόδας κεκτῆσθαι ἑκουσίως χωλαίνοντας ἢ ἀκουσίως;

«Preferiresti possedere dei piedi che zoppicano volontariamente o involontariamente?»

Questa è la conclusione paradossale (376a):

ἡ δυνατωτέρα καὶ ἀμείνων ψυχή, ὅτανπερ ἀδικῇ, ἑκοῦσα ἀδικήσει, ἡ δὲ πονηρὰ ἄκουσα. 

«L’anima più capace e migliore, qualora appunto commetta ingiustizia, la commetterà volontariamente, mentre quella malvagia involontariamente».


1 Virgilio, Eneide, VI, 460.

2 «Profugo per volere del fato» (Eneide, I, 2). T. S. Eliot vede in ciò l’elemento che fa del poema virgiliano il classico per antonomasia (Che cosa è un classico?, in Opere. 1939-1962, Bompiani 2003, a cura di Roberto Sanesi, pp. 491-492): «Enea è, dal principio alla fine, una creatura del fato: un uomo che non è un avventuriero o un intrigante, un vagabondo o un arrivista; un uomo che compie il proprio destino non per forza o per decreto arbitrario né certamente per brama di gloria – ma sottomettendo la propria volontà a un potere più alto é […] è bandito dalla patria per uno scopo che supera la sua comprensione, ma che nondimeno egli accetta; e dal punto di vista umano non è uno che sia felice o abbia successo. Ma è il simbolo di Roma, e quello che Enea è per Roma, lantica Roma è per lEuropa. Così Virgilio si conquista la centralità” del classico supremo; è lui il centro della civiltà europea, in una posizione che nessun altro poeta può condividere o usurpare».

3 All’ansia di Enea così risponde Didone: non ignara mali miseris succurrere disco, «Non ignara del male, imparo a soccorrere i miseri» (I, 630). È questa la versione virgiliana del τόπος eschileo del πάθει μάθος, «attraverso la sofferenza la comprensione» (Agamennone, 177).

4 Giustamente Ovidio nota sarcasticamente che famam pietatis habet, «ha la fama di pietà» (Ovidio, Ars, III, 39).

5 Così commenta l’episodio T. S. Eliot (op. cit., pp. 484-485): «Ho sempre pensato che l’incontro di Enea con l’ombra di Didone, nel libro VI, sia non soltanto uno dei brani più commoventi, ma anche uno dei più civili che si possano incontrare in poesia. È un episodio parco nell’espressione quanto ricco di significato»; poi Eliot nota come «invece di ingiuriare Enea ella si limiti a ignorarlo – ed è forse il più espressivo rimprovero di tutta la storia della poesia».

6 Euripide associa semplicità e verità in tre versi molto belli delle Fenicie (469-472): ἁπλοῦς ὁ μῦθος τῆς ἀληθείας ἔφυ / κοὐ ποικίλων δεῖ τἄνδιχ’ ἑρμηνευμάτων· / ἔχει γὰρ αὐτὰ καιρόν· ὁ δ’ ἄδικος λόγος / νοσῶν ἐν αὑτῷ φαρμάκων δεῖται σοφῶν, «il discorso della verità è semplice per natura / e ciò che è giusto non ha bisogno di intricate interpretazioni: / ha in sé ciò che è opportuno; il discorso ingiusto invece / avendo il vizio dentro di sé ha bisogno di espedienti sofisticati». Questi versi sono ripresi da Seneca (Epistulae ad Lucilium, 49, 12): ut ait ille tragicus, “veritatis simplex oratio est”, ideoque illam implicari non oportet; nec enim quicquam minus convenit quam subdola ista calliditas animis magna conantibus, «Come dice quel famoso tragico, “il discorso della verità è semplice”, e quindi non è il caso di complicarlo; e infatti non c’è alcuna cosa che convenga meno di questa furbizia subdola agli animi che si preparano a grandi imprese».

7 Il testo originale è leggermente diverso: διογενὲς Λαερτιάδη πολυμήχαν' Ὀδυσσεῦ / χρὴ μὲν δὴ τὸν μῦθον ἀπηλεγέως ἀποειπεῖν, / ᾗ περ δὴ φρονέω τε καὶ ὡς τετελεσμένον ἔσται, / ὡς μή μοι τρύζητε παρήμενοι ἄλλοθεν ἄλλος. / ἐχθρὸς γάρ μοι κεῖνος ὁμῶς Ἀΐδαο πύλῃσιν / ὅς χ' ἕτερον μὲν κεύθῃ ἐνὶ φρεσίν, ἄλλο δὲ εἴπῃ. / αὐτὰρ ἐγὼν ἐρέω ὥς μοι δοκεῖ εἶναι ἄριστα·

8 In quel momento si parlava di calcolo, ma il concetto viene assunto anche come norma generale.

domenica 13 ottobre 2024

Virgilio, Eneide – riassunto ragionato libri II-III

 

Liber secundus

v. 1

Conticuere omnes, intentique ora tenebant

«Tacquero tutti, e attenti tendevano i volti.»


 I versi che seguono sono alcuni di quelli famosi in cui Laocoonte tenta senza successo di dissuadere i Troiani dall’accettare il dono del cavallo.


vv. 43-4

Creditis avectos hostis? Aut ulla putatis

dona carere dolis Danaum? Sic notus Ulixes?

«Credete partiti i nemici? Oppure pensate che / dei doni dei Danai siano privi di inganni? Così vi è noto Ulisse?»


vv. 48-9

equo ne credite, Teucri.

Quicquid id est, timeo Danaos et dona ferentis

«Non fidatevi del cavallo, Teucri. / Qualunque casa sia, temo i Danai anche se portano doni.»

 

vv. 65-6

Accipe nunc Danaum insidias, et crimine ab uno

disce omnes.

«Accetta ora le insidie dei Danai, e da un solo crimine / imparali tutti.»

 I versi che seguono riportano le parole del figlio di Achille in procinto di vendicare il padre. Poco prima Priamo aveva ricordato la nobiltà di Achille, che aveva restituito il corpo di Ettore, accusando Nettolemo di non essere veramente figlio di suo padre. La scena è raccontata da Enea che mentre si aggira smarrito in mezzo alla strage, nascosto osserva.


vv. 547-50

Cui Pyrrhus: Referes ergo haec et nuntius ibis

Pelidae genitori; illi mea tristia facta

degeneremque Neoptolemum narrare memento.

Nunc morere.

«E a lu Pirro: Queste cose dunque riferirai e andrai nunzio / al padre Pelide; ricordati di narrare a lui / le mie tristi azioni e l’ignobile neottolemo. / Ora crepa.»

 Il verso che segue è il famoso invito di Enea, rivolto al padre, a salire sulle proprie spalle.


v. 707

ergo age, care pater, cervici imponere nostrae;

«Su dunque, caro padre, sali sulle nostre spalle»


 Creusa, la moglie di Enea si è smarrita; in realtà è morta e mentre Enea la cerca disperatamente, gli appare dicendogli di non preoccuparsi.


vv. 792-4

Ter conatus ibi collo dare bracchia circum:

ter frustra comprensa manus effugit imago,

par levibus ventis volucrique simillima somno3

«Tre volte tentai allora di metterle intorno al collo le braccia: / tre volte invano afferrata sfuggì dalle mani il fantasma, / pari ai venti leggeri e similissima all’alato sonno.»

 Questo è un τόπος gestuale che risale a Omero, Odissea, XI, 206-208: τρὶς μὲν ἐφωρμήθηνἑλέειν τέ με θυμὸς ἀνώγει, / τρὶς δέ μοι ἐκ χειρῶν σκιῇ εἴκελον ἢ καὶ ὀνείρῳ ἔπτατ' «tre volte mi lancia, e il cuore mi spingeva ad abbracciarla, / tre volte dalle mie mani a ombra simile o a sogno / volò via».

 Tale τόπος sarà poi ripreso da Dante in Purgatorio, II, 76-81, quando incontra il suo amico Casella:


«Io vidi una di lor trarresi avante

per abbracciarmi con sì grande affetto,

che mosse me a far lo somigliante.

Ohi ombre vane, fuor che ne l'aspetto!

tre volte dietro a lei le mani avvinsi,

e tante mi tornai con esse al petto».


Liber tertius


 L’incontro con Polidoro, ucciso dal re tracio Licurgo (che lo ospitava per conto di Priamo in cambio di una ricompensa, ma che poi, visto l’andamento della guerra, era passato dalla parte degli Achei), è l’occasione per uno degli interventi appassionati del narratore; in questo caso tuttavia le parole sono pronunciate direttamente da Enea che si è fatto narratore di secondo grado.


vv. 56-7

Quid non mortalia pectora cogis,

auri sacra fames?

 «A cosa non costringi i petti mortali, / maledetta fame dell’oro?»

 Il passo offre anche lo spunto a Dante (Inferno, XIII, 46-48) per un ironico rimprovero da parte di Virgilio, quando Dante rompe un ramo che in realtà è Pier delle Vigne e si stupisce:


S'elli avesse potuto creder prima,

rispuose 'l savio mio, anima lesa,

ciò c' ha veduto pur con la mia rima… ”



3 Gli stessi identici tre versi si trovano nel canto VI, vv. 700-702, riferiti all’incontro col padre Anchise negli Inferi.

sabato 12 ottobre 2024

Virgilio, Eneide – riassunto ragionato libro I – 5° parte

 

A questo punto viene organizzato un grande banchetto per accogliere gli ospiti e Enea manda a chiamare gli altri e soprattutto il figlio Ascanio.


v. 646

omnis in Ascanio cari stat cura parentis

«L’attenzione del caro padre è tutta su Ascani».


 A questo punto Venere, temendo che l’ospitalità dei Cartaginesi, devoti di Giunone, non sia sincera, e le insidie della dea stessa, ordisce la sua trama per assicurare ad Enea un piacevole e riposante soggiorno.


657-60

At Cytherea novas artes, nova pectore versat

Consilia, ut faciem mutatus et ora Cupido

pro dulci Ascanio veniat, donisque furentem

incendat reginam, atque ossibus implicet ignem

«Ma la Citerea rivolge nel petto nuove arti, nuovi / progetti, affinché mutato nell’aspetto e nel volto Cupido / vada al posto del dolce Ascanio, e con doni la folle regina / infiammi, e appicchi il fuoco alle ossa».


 Rimane tuttavia la preoccupazione che Giunone non stia con le mani in mano, data la favorevole occasione (ricordiamo che Cartagine è devota alla regina degli dèi, che dunque si trova su un terreno favorevole).


672-674

haud tanto cessabit cardine rerum.

Quocirca capere ante dolis et cingere flamma

reginam meditor

«Non starà ferma in una congiuntura così critica. / Perciò catturare prima con inganni e cingere di fiamma / la regina medito».


 Quindi si rivolge al figlio, Cupido, illustrandogli il compito che dovrà svolgere, cioè far innamorare Didone. Dalle parole che usa emerge un’idea estremamente negativa dell’amore.


683-689

Tu faciem illius noctem non amplius unam

falle dolo, et notos pueri puer indue voltus

ut, cum te gremio accipiet laetissima Dido

regalis inter mensas laticemque Lyaeum,

cum dabit amplexus atque oscula dulcia figet,

occultum inspires ignem fallasque veneno.

Paret Amor dictis carae genetricis.

«Tu per non più di una notte simula con l’inganno / l’ aspetto di quello, e tu fanciullo indossa le note sembianze del fanciullo / affinché, quando Didone ti accoglierà piena di gioia in grembo / tra le mense regali e il liquore Lieo, / quando offrirà abbracci e inchioderà dolci baci, / infoda un fuoco nascosto e la inganni col veleno. / Ubbidisce Amore alle parole dell’amata genitrice».


 A questo punto comincia il banchetto e tutti, contenti, ammirano i doni dei Troiani e vezzeggiano il bambino. Didone invece comincia a scivolare in un precipizio da cui non potrà risalire.


vv. 712-714

Praecipue infelix, pesti devota futurae,

expleri mentem nequit ardescitque tuendo

Phoenissa

«Particolarmente infelice, consacrata alla peste imminente, / non può saziare la mente e brucia guardando / la Fenicia.»


 Il banchetto comunque prosegue e Didone lo protrae chiedendo ad Enea di raccontare le sue avventure.


748-49

Nec non et vario noctem sermone trahebat

infelix Dido, longumque bibebat amorem

«E così pure protraeva con vari discorsi la notte / l’infelice Didone, e beveva il lungo amore».


 Il canto si conclude con la richiesta ad enea di raccontare tutto dal principio; tale racconto occupa i canti II e III, che corrispondono ai cosiddetti apologhi dell’Odissea.