martedì 15 aprile 2025

Nihil invitus facit sapiens – Seneca, Epistulae, 54

 

7. nihil invitus facit sapiens; necessitatem effugit, quia vult quod coactura est.

«7. Il sapiente non fa nulla se non vuole; sfugge alla necessità, poiché vuole ciò a cui essa è destinata a costringerlo».


Quando Enea nel VI libro dell’Eneide discende agli inferi1, incontra per l’ultima volta Didone, ormai tra le ombre dei morti; dopo essersene sorpreso e adombrando l’ipotesi di esserne responsabile, dice per giustificarsi:

invitus, regina, tuo de litore cessi,

«senza volerlo regina mi sono allontanato dalla tua spiaggia»2.

Facciamo un passo indietro. Nel I libro del poema Virgilio aveva raccontato l’incontro tra la regina di Cartagine e il pio Enea, fato profugus3, umanamente accolto da Didone4 dopo il naufragio. Nel IV libro avevamo assistito all’esplosione della storia d’amore, favorita per motivi diversi sia da Venere sia da Giunone: dopo essere stato ospitato e soccorso, Enea se ne era andato improvvisamente, ubbidendo agli ordini di Mercurio e rispondendo con queste parole a Didone che tentava disperatamente di dissuaderlo: desine meque tuis incendere teque querellis; / Italiam non sponte sequor, «Smettila di infiammare me e te con le tue lamentele: / non di mia volontà seguo l’Italia» (IV, 360-361)5Ebbene, così Virgilio descrive la reazione dellombra di Didone alle parole di Enea: illa solo fixos ocuols aversa tenebat«ella teneva gli occhi fissi al suolo, girata dallaltra parte»6.


Cfr. per approfondire:


1 Diversamente da Ulisse, che nellOdissea li evoca (XI, vv. 34 sqq.); a questo passo alluderà Nietzsche (Umano, troppo umano II, parte prima, 408, Milano, Adelphi, 1981), parafrasandolo efficacemente anche se non precisamente: «Il viaggio nellAde. Anche io sono stato agli inferi, come Odisseo, e ci tornerò ancora più volte; e non solo montoni ho sacrificato per poter parlare con alcuni morti; bensì non ho risparmiato il mio stesso sangue».

2 Virgilio, Eneide, VI, 460. Ma si potrebbe già obiettare con Seneca (Epistulae, 54, 7): nihil invitus facit sapiens; necessitatem effugit, quia vult quod coactura est, «Il sapiente non fa nulla se non vuole; sfugge alla necessità, poiché vuole ciò a cui essa è destinata a costringerlo».

3 «Profugo per volere del fato» (Eneide, I, 2). T. S. Eliot vede in ciò lelemento che fa del poema virgiliano il classico per antonomasia (Che cosa è un classico?, in Opere. 1939-1962, Bompiani 2003, a cura di Roberto Sanesi, pp. 491-492): «Enea è, dal principio alla fine, una creatura del fato: un uomo che non è un avventuriero o un intrigante, un vagabondo o un arrivista; un uomo che compie il proprio destino non per forza o per decreto arbitrario  né certamente per brama di gloria – ma sottomettendo la propria volontà a un potere più alto […] è bandito dalla patria per uno scopo che supera la sua comprensione, ma che nondimeno egli accetta; e dal punto di vista umano non è uno che sia felice o abbia successo. Ma è il simbolo di Roma, e quello che Enea è per Roma, lantica Roma è per lEuropa. Così Virgilio si conquista la centralità” del classico supremo; è lui il centro della civiltà europea, in una posizione che nessun altro poeta può condividere o usurpare».

4 Allansia di Enea così risponde Didone: non ignara mali miseris succurrere disco, «Non ignara del male, imparo a soccorrere i miseri» (I, 630). È questa la versione virgiliana del τόπος eschileo del πάθει μάθος, «attraverso la sofferenza la comprensione» (Agamennone, 177).

5 Giustamente Ovidio nota sarcasticamente che et famam pietatis habet, tamen hospes et ensem / praebuit et causam mortis, Elissa, tuae, «ha pure la fama di pietà, tuttavia da ospite ha fornito la spada e il motivo, Elissa, della tua morte» (Ovidio, Ars amatoria, III, 39-40).

6 Così commenta lepisodio T. S. Eliot (op. cit., pp. 484-485): «Ho sempre pensato che lincontro di Enea con lombra di Didone, nel libro VI, sia non soltanto uno dei brani più commoventi, ma anche uno dei più civili che si possano incontrare in poesia. È un episodio parco nellespressione quanto ricco di significato»; poi Eliot nota come «invece di ingiuriare Enea ella si limiti a ignorarlo – ed è forse il più espressivo rimprovero di tutta la storia della poesia».

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