Le ultime parole di Ecuba riprendono un noto motivo sapienziale.
Il tema si trova già in Omero:
Omero, Odissea, XVIII, 130-137:
οὐδὲν ἀκιδνότερον γαῖα τρέφει ἀνθρώποιο, / πάντων ὅσσα τε γαῖαν ἔπι πνείει τε καὶ ἕρπει. / οὐ μὲν γάρ ποτέ φησι κακὸν πείσεσθαι ὀπίσσω, / ὄφρ᾽ ἀρετὴν παρέχωσι θεοὶ καὶ γούνατ᾽ ὀρώρῃ: / ἀλλ᾽ ὅτε δὴ καὶ λυγρὰ θεοὶ μάκαρες τελέσωσι, / καὶ τὰ φέρει ἀεκαζόμενος τετληότι θυμῷ: / τοῖος γὰρ νόος ἐστὶν ἐπιχθονίων ἀνθρώπων / οἷον ἐπ᾽ ἦμαρ ἄγησι πατὴρ ἀνδρῶν τε θεῶν τε.
«Nulla la terra nutre più meschino dell’uomo, / di tutte le creature quante respirano e strisciano sulla terra. / Infatti non dice mai che in futuro subirà un male, / finché gli dèi gli offrono coraggio e le ginocchia spingano: / ma quando gli dèi beati compiano anche lutti, / anche questi sopporta, suo malgrado, con animo paziente: / tale infatti è la mente degli uomini sopra la terra / quale la indirizza di giorno in giorno il padre degli uomini e degli dèi».
Il contesto è quello della lotta di Odisseo con Iro, che lo aveva umiliato nella reggia di Itaca. Ancora travestito da vecchio mendicante Odisseo gli dà una lezione e all’augurio di Anfinomo, uno dei proci, di essere in futuro felice, risponde con le parole riportate sopra.
Tuttavia la sua formulazione più famosa appartiene ad Erodoto:
Erodoto, Creso e Solone
Erodoto, Storie, I, 32: Solone, ospite di Creso, viene interrogato su chi sia l’uomo più felice; l’Ateniese prima nomina Tello ateniese, poi Cleobi e Bitone, tutte persone qualsiasi, ma che hanno in comune di averer concluso la vita bene. Creso allora si indispettisce, ma Solone gli spiega che «l’uomo è completamente in balia degli eventi» (πᾶν ἐστι ἄνθρωπος συμφορή)1. Poi Solone fa il conto dei giorni di una vita presupposta di settanta anni, comprendente 26250 giorni, ciascuno dei quali è diverso, e aggiunge:
Ἐμοὶ δὲ σὺ καὶ πλουτέειν μέγα φαίνεαι καὶ βασιλεὺς πολλῶν εἶναι ἀνθρώπων· ἐκεῖνο δὲ τὸ εἴρεό με οὔ κώ σε ἐγὼ λέγω, πρὶν τελευτήσαντα καλῶς τὸν αἰῶνα πύθωμαι.
«Tu mi sembri essere molto ricco e regnare su molti uomini; ma quello che mi chiedevi non te lo dico ancora, prima di aver saputo che hai compiuto bene la vita».
Dopo avere fatto una distinzione tra ricchezza e fortuna e felicità, ribadisce:
πρὶν δ' ἂν τελευτήσῃ, ἐπισχεῖν μηδὲ καλέειν κω ὄλβιον, ἀλλ' εὐτυχέα […] Ὣς δὲ καὶ ἀνθρώπου σῶμα ἓν οὐδὲν αὔταρκές ἐστι· τὸ μὲν γὰρ ἔχει, ἄλλου δὲ ἐνδεές ἐστι· ὃς δ' ἂν αὐτῶν πλεῖστα ἔχων διατελέῃ καὶ ἔπειτα τελευτήσῃ εὐχαρίστως τὸν βίον, οὗτος παρ' ἐμοὶ τὸ οὔνομα τοῦτο, ὦ βασιλεῦ, δίκαιός ἐστι φέρεσθαι. Σκοπέειν δὲ χρὴ παντὸς χρήματος τὴν τελευτὴν κῇ ἀποβήσεται· πολλοῖσι γὰρ δὴ [33] ὑποδέξας ὄλβον ὁ θεὸς προρρίζους ἀνέτρεψε. [33] ὑποδέξας ὄλβον ὁ θεὸς προρρίζους ἀνέτρεψε.
«Però prima che sia morto, tratteniamoci e non chiamiamo uno felice, ma fortunato […] Giacché anche un solo corpo umano non è per niente autosufficiente2; colui che possieda con continuità la maggior parte di quelle cose e poi muoia felicemente, questo per me, o re, è giusto che riporti questo nome. Di ogni casa bisogna guardare la conclusione, come andrà a finire: infatti la divinità, dopo aver fatto intravedere a molti la felicità, li ha stroncati capovolgendoli».
Altre espressioni simili sono presenti nella tragedia; per esempio Sofocle, amico di Erodoto, con cui aveva molto in comune anche nel pensiero, si esprime in modo molto affine allo storiografo di Alicarnasso nella conclusione dell’Edipo re, vv. 1528-1530: ὥστε θνητὸν ὄντ' ἐκείνην τὴν τελευταίαν ἰδεῖν / ἡμέραν ἐπισκοποῦντα μηδέν' ὀλβίζειν, πρὶν ἂν / τέρμα τοῦ βίου περάσῃ μηδὲν ἀλγεινὸν παθών, «sicché nessuno che sia un mortale, guardando a quell’ultimo giorno / a vedersi bisogna ritenere felice, prima che / abbia varcato il confine della vita senza aver subito nessun dolore».
In Euripide il medesimo concetto è espresso prima nell’Andromaca, 100-102: χρὴ δ' οὔποτ' εἰπεῖν οὐδέν' ὄλβιον βροτῶν, / πρὶν ἂν θανόντος τὴν τελευταίαν ἴδηις / ὅπως περάσας ἡμέραν ἥξει κάτω, «non bisogna mai dire felice nessuno dei mortali, / prima di aver visto come / dopo aver varcato l’ultimo giorno sarà giunto sotto terra»; poi nell’Ecuba, 627-28: κεῖνος ὀλβιώτατος, / ὅτῳ κατ’ ἦμαρ τυγχάνει μηδὲν κακόν, «felicissimo quello a cui non capiti nessun male giorno per giorno»; e ancora in Medea, vv. 1224-1230 (sono parole del messaggero che reca la notizia della morte di Creonte e della figlia, vittime di Medea)):
τὰ θνητὰ δ’ οὐ νῦν πρῶτον ἡγοῦμαι σκιάν,
οὐδ’ ἂν τρέσας εἴποιμι τοὺς σοφοὺς βροτῶν
δοκοῦντας εἶναι καὶ μεριμνητὰς λόγων
τούτους μεγίστην μωρίαν ὀφλισκάνειν.
θνητῶν γὰρ οὐδείς ἐστιν εὐδαίμων ἀνήρ·
ὄλβου δ’ ἐπιρρυέντος εὐτυχέστερος
ἄλλου γένοιτ’ ἂν ἄλλος, εὐδαίμων δ’ ἂν οὔ.
«Non ora per la prima volta penso che le cose dei mortali siano ombra / e potrei dire senza timore che quelli tra i mortali reputati / sapienti e indagatori delle ragioni / questi meritino la taccia di massima stoltezza. / nessuno infatti dei mortali è un uomo felice: / se la prosperità affluisce uno può essere / più fortunato di un altro, ma felice non può esserlo».
Qui Euripide sembra proprio riecheggiare le parole di Solone a Creso, nel racconto di Erodoto (vedi sopra, cap. 32).
Notiamo come il tema sia presente così in quella che possiamo considerare una trilogia sulla guerra (Andromaca, Ecuba, Troiane).
Inoltre ben cinque tragedie di Euripide (Alcesti, Medea3, Andromaca, Elena, Baccanti) si concludono con questi versi: πολλαὶ μορφαὶ τῶν δαιμονίων, / πολλὰ δ' ἀέλπτως κραίνουσι θεοί· / καὶ τὰ δοκηθέντ' οὐκ ἐτελέσθη, / τῶν δ' ἀδοκήτων πόρον ηὗρε θεός. / τοιόνδ’ ἀπέβη τόδε πρᾶγμα, «molte sono le forme delle divinità, / molte cose in modo inatteso compiono gli dèi; / e le cose aspettate non si sono compiute, / mentre di quelle inaspettate un dio ha trovato la via. / Così è andata a finire questa azione».
Il concetto si trova espresso anche da Platone nel suo ultimo dialogo, Leggi, VII, 802a: Τούς γε μὴν ἔτι ζῶντας ἐγκωμίοις τε καὶ ὕμνοις τιμᾶν οὐκ ἀσφαλές, πρὶν ἂν ἅπαντά τις τὸν βίον διαδραμὼν τέλος ἐπιστήσηται καλόν, «onorare quelli che sono ancora in vita con encomi e inni non è cosa sicura, prima che uno dopo aver percorso tutta quanta la vita vi abbia posto una bella fine».
Ovidio, Metamorfosi, III, 135-136
sed scilicet ultima semper
exspectanda dies hominis, dicique beatus
ante obitum nemo supremaque funera debet.
«ma evidentemente sempre bisogna / attendere l’ultimo giorno di un uomo, e nessuno deve essere detto / felice prima della morte e dei supremi uffici».
1 Cfr. il Dyskolos di Menandro (vv. 186-188): τὸ μὲν χρόνον γὰρ ἐμποεῖν τῷ πράγματι / ἀποδοκιμάζω. πόλλ' ἐν ἡμέρᾳ μίᾳ / γένοιτ' ἄν, «rifiuto di rimandare / la questione. Molte cose in un giorno solo / potrebbero verificarsi».
2 Cfr. Menandro, Dyskolos, 713-714.
3 In questa tragedia cambia il primo dei versi citati: πολλῶν ταμίας Ζεὺς ἐν Ὀλύμπῳ, «di molti casi è dispensatore Zeus nell’Olimpo»; gli altri sono identici.
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