Così si esprime Platone nel Sofista, 246a-c, individuando una guerra tra due modi di concepire la vita, una guerra potremmo dire tra materialismo e idealismo:
καὶ μὴν ἔοικέ γε ἐν αὐτοῖς οἷον γιγαντομαχία τις εἶναι διὰ τὴν ἀμφισβήτησιν περὶ τῆς οὐσίας πρὸς ἀλλήλους [...] οἱ μὲν εἰς γῆν ἐξ οὐρανοῦ καὶ τοῦ ἀοράτου πάντα ἕλκουσι [...] ταὐτὸν σῶμα καὶ οὐσίαν ὁριζόμενοι [...]
«e certo in quelli sembra esserci come una gigantomachia dovuta a una disputa tra loro sull’essere [...] gli uni trascinano tutto a terra dal cielo e dall’invisibile [...] definendo come la stessa cosa corpo e essere […]»
οἱ πρὸς αὐτοὺς ἀμφισβητοῦντες (τοὺς τῶν εἰδῶν φίλους, 248a) μάλα εὐλαβῶς ἄνωθεν ἐξ ἀοράτου ποθὲν ἀμύνονται, νοητὰ ἄττα καὶ ἀσώματα εἴδη βιαζόμενοι τὴν ἀληθινὴν οὐσίαν εἶναι [...] ἐν μέσῳ δὲ περὶ ταῦτα ἄπλετος ἀμφοτέρων μάχη τις, ὦ Θεαίτητε, ἀεὶ συνέστηκεν
«quelli che disputano con loro (gli amici delle forme, 248a) con molta cautela si difendono dall'alto, da qualche luogo invisibile, imponendo con la violenza che la realtà vera consiste in certe forme intellegibili e incorporee [...] in mezzo, oh Teeteto, sussiste sempre una battaglia accanita di entrambi su queste cose».
L’ostilità di Platone per il materialismo e la predilezione per un approccio razionalista e spiritualista viene così commentata da Nietzsche, Al di là del bene e del male, 14:
«la fisica… essa ha, dalla sua, la testimonianza degli occhi e delle dita… e ciò esercita su un’età dal fondamentale gusto plebeo l’effetto di un incantesimo… Viceversa, proprio nel recalcitrare all’evidenza sensibile consisteva l’incantesimo del modo platonico di pensare, il quale era un modo di pensare aristocratico… la plebaglia dei sensi, come diceva Platone».
Il riferimento è a Leggi, 689a-b:
ταύτην τὴν διαφωνίαν λύπης τε καὶ ἡδονῆς πρὸς τὴν κατὰ λόγον δόξαν ἀμαθίαν φημὶ εἶναι τὴν ἐσχάτην, μεγίστην δέ, ὅτι τοῦ πλήθους ἐστὶ τῆς ψυχῆς· [b] τὸ γὰρ λυπούμενον καὶ ἡδόμενον αὐτῆς ὅπερ δῆμός τε καὶ πλῆθος πόλεώς ἐστιν.
«questa dissonanza di dolore e piacere in relazione all’opinione secondo ragione io la dico ignoranza estrema e grandissima, in quanto è della maggior parte dell’anima; infatti la parte che soffre e prova piacere è, di essa, ciò che popolo e massa sono della città».
E più avanti, sempre Nietzsche, ribadisce il concetto, Al di là del bene e del male, 190:
«V’è qualcosa della morale platonica, che non appartiene propriamente a Platone, ma che pure si trova nella sua filosofia, si potrebbe dire, malgrado Platone stesso: vale a dire il socratismo, per cui egli era veramente troppo aristocratico… Questo tipo di conclusione odora di plebaglia, la quale in colui che agisce con malvagità vede soltanto le conseguenze dolorose… Platone non ha lesinato i suoi sforzi per interpretare il principio del suo maestro in modo da trovarci dentro qualcosa di raffinato e di aristocratico, soprattutto se stesso».
Tornando alla gigantomachia, i primi, i materialisti, sono descritti in termini altrettando efficaci in Repubblica, 586a:
[a] Οἱ ἄρα φρονήσεως καὶ ἀρετῆς ἄπειροι, εὐωχίαις δὲ καὶ τοῖς τοιούτοις ἀεὶ συνόντες, κάτω, ὡς ἔοικεν, καὶ μέχρι πάλιν πρὸς τὸ μεταξὺ φέρονταί τε καὶ ταύτῃ πλανῶνται διὰ βίου, ὑπερβάντες δὲ τοῦτο πρὸς τὸ ἀληθῶς ἄνω οὔτε ἀνέβλεψαν πώποτε οὔτε ἠνέχθησαν, οὐδὲ τοῦ ὄντος τῷ ὄντι ἐπληρώθησαν, οὐδὲ βεβαίου τε καὶ καθαρᾶς ἡδονῆς ἐγεύσαντο, ἀλλὰ βοσκημάτων δίκην κάτω ἀεὶ βλέποντες καὶ κεκυφότες εἰς γῆν καὶ εἰς τραπέζας βόσκονται χορταζόμενοι καὶ ὀχεύοντες, [b] καὶ ἕνεκα τῆς τούτων πλεονεξίας λακτίζοντες καὶ κυρίττοντες ἀλλήλους σιδηροῖς κέρασί τε καὶ ὁπλαῖς ἀποκτεινύασι δι' ἀπληστίαν, ἅτε οὐχὶ τοῖς οὖσιν οὐδὲ τὸ ὂν οὐδὲ τὸ στέγον ἑαυτῶν πιμπλάντες.
«Quelli che sono inesperti di pensiero e virtù, che sono sempre in festa e cose siffatte, sono portati, a quanto pare, verso il basso e di nuovo verso il mezzo e durante la vita vagano in questa condizione, né dopo aver superato questo grado, hanno mai alzato lo sguardo né si sono sollevati verso ciò che è veramente alto, né si sono saziati di ciò che realmente è, né hanno gustato un piacere sicuro e puro, ma alla maniera del bestiame, guardando sempre in basso e proni verso la terra e le mense, pascolano ingrassando e accoppiandosi, e per averne di più prendendosi a calci e cornate si uccidono tra loro con corna e zoccoli ferrei a causa dell’insaziabilità, poiché non saziano di sé stessi con cose reali né ciò che è né la dimora».
In modo del tutto simile si esprime Sallustio nel proemio del De catilinae coniuratione:
Omnis homines, qui sese student praestare ceteris animalibus, summa ope niti decet, ne vitam silentio transeant veluti pecora, quae natura prona atque ventri oboedientia finxit. 2 Sed nostra omnis vis in animo et corpore sita est: animi imperio, corporis servitio magis utimur; alterum nobis cum dis, alterum cum beluis commune est.
«Tutti gli uomini che aspirano ad essere superiori agli altri esseri viventi, conviete che si sforzino col massimo impegno di non trascorrere la vita sotto silenzio, come il bestiame, che la natura plasmò prono e obbediente al ventre. Invece tutta la nostra forza è situata nell’animo e nel corpo: dell’animo utilizziamo di più la capacità di comandare, del corpo quella di servire; uno lo abbiamo in comune con gli dèi, l’altro con le bestie».
Seneca poi mette in evidenza un altro aspetto della vita bestiale, che ci impedisce di raggiungere la felicità (De vita beata, 1), cioè il conformismo:
Nihil ergo magis praestandum est quam ne pecorum ritu sequamur antecedentium gregem1, pergentes non quo eundum est sed quo itur. Atqui nulla res nos maioribus malis inplicat quam quod ad rumorem componimur, optima rati ea quae magno adsensu recepta sunt2, quodque exempla nobis pro bonis multa sunt nec ad rationem sed ad similitudinem uiuimus. Inde ista tanta coaceruatio aliorum super alios ruentium.
«Niente dunque dobbiamo assicurarci tanto quanto non seguire al modo delle pecore il gregge di chi ci precede, dirigendoci non dove bisogna andare ma dove si va3. E nessuna cosa ci avviluppa in mali maggiori del fatto di regolarci in base al “si dice”, considerando ottime quelle cose che sono accettate con grande consenso, e del fatto che disponiamo di molti esempi considerati buoni e viviamo non secondo ragione ma per imitazione».
Infine senttiamo Schopenhauer, Parerga e paralipomena, Aforismi sulla saggezza della vita:
capitolo secondo
La gente comune si preoccupa unicamente di passare il tempo; chi ha un qualche talento pensa invece a utilizzarlo… In tutti i paesi l’attività principale di ogni società è sempre stata il gioco delle carte: esso è la misura del valore di tale società, e la bancarotta dichiarata di tutti i pensieri. Dal momento che non hanno alcun pensiero da scambiarsi, essi si scambiano delle carte…
Otium sine litteris mors est et hominis vivi sepultura» (Seneca, Ep., 82, 3).
È stato infatti sostenuto abbastanza spesso, e non senza verosimiglianza, che l’uomo spiritualmente limitato è in fondo il più felice… Sofocle si è espresso al riguardo in due modi diametralmente opposti:
πολλῷ τὸ φρονεῖν εὐδαιμονίας πρῶτον ὑπάρχει
Sapere longe prima felicitatis pars est
Antig., 1323
e d’altro canto
ἐν τῷ φρονεῖν γὰρ μηδὲν ἥδιστος βίος
Nihil cogitantium iucundissima vita est
Aiax. 550
L’uomo privo di ogni bisogno spirituale è per l’appunto… con un’espressione… in origine tratta dalla vita studentesca… un filisteo. Costui è e rimane cioè l’ἄμουσος ἀνήρ… Costui è dunque un uomo senza bisogni spirituali… Nessun impulso alla conoscenza e alla comprensione, come fini a sé, e neppure nessun impulso verso godimenti propriamente estetici… Egli si sobbarcherà tuttavia, come una specie di lavoro forzato… quelli tra i godimenti di tale specie che gli sono imposti dalla moda o dall’autorità. Per lui i veri piaceri sono soltanto quelli sessuali, ed egli si rivale con questi. Di conseguenza le ostriche e lo champagne sono il punto culminante della sua esistenza, e lo scopo della sua vita consiste nel procurarsi tutto ciò che contribuisca al suo benessere materiale…
La grande sofferenza di tutti i filistei sta nel fatto che le idealità non forniscono loro alcun passatempo, e che per sfuggire alla noia essi hanno sempre bisogno di realtà. Queste ultime o sono presto esaurite, quando invece di divertire stancano, o provocano mali di ogni genere, mentre le idealità sono inesauribili, e in se stesse innocenti e innocue.»
capitolo quinto
Dove si trovano molti ospiti, vi è infatti molta canaglia… La società realmente buona è dappertutto e necessariamente assai ristretta. In generale poi le feste e i divertimenti splendidi e rumorosi portano sempre in sé un vuoto, anzi una stonatura, già soltanto per il fatto che si oppongono nettamente alla sventura e alla povertà della nostra esistenza, e che il contrasto mette in risalto la verità…
Chi vive nel tumulto degli affari o dei piaceri… il suo animo diventa un caos, e una certa confusione si introduce nei suoi pensieri, come si può vedere dal carattere rotto, frammentario, quasi spezzato della sua conversazione…
1 La metafora del gregge è utilizzata anche da Platone nel Politico, 276b-c, in relazione al governo della comunità: ΞΕ. Ἐπιμέλεια δέ γε ἀνθρωπίνης συμπάσης κοινωνίας οὐδεμία ἂν ἐθελήσειεν ἑτέρα μᾶλλον καὶ προτέρα τῆς βασιλικῆς [c] φάναι καὶ κατὰ πάντων ἀνθρώπων ἀρχῆς εἶναι τέχνη. «Straniero di Elea. Ma nessuna altra arte può pretendere di definirsi, di più e prima di quella regia, cura di tutta quanta la comunità umana e arte di governo su tutti gli uomini». ΝΕ. ΣΩ. Λέγεις ὀρθῶς. «Socrate il giovane. Dici bene». ΞΕ. Μετὰ ταῦτα δέ γε, ὦ Σώκρατες, ἆρ' ἐννοοῦμεν ὅτι πρὸς αὐτῷ δὴ τῷ τέλει συχνὸν αὖ διημαρτάνετο; «Str. Dopo di che, oh Socrate, non notiamo che proprio alla fine è stato commesso un grosso errore?». ΝΕ. ΣΩ. Τὸ ποῖον; «Socr. g. Quale?» ΞΕ. Τόδε, ὡς ἄρ' εἰ καὶ διενοήθημεν ὅτι μάλιστα τῆς δίποδος ἀγέλης εἶναί τινα θρεπτικὴν τέχνην, οὐδέν τι μᾶλλον ἡμᾶς ἔδει βασιλικὴν αὐτὴν εὐθὺς καὶ πολιτικὴν ὡς ἀποτετελεσμένην προσαγορεύειν «Str. Questo, che dunque se anche avessimo creduto in massimo grado che esiste una certa arte di allevare il gregge bipede, per nessuna ragione avremmo dovuto chiamarla subito regia e politica, come se fosse perfetta».
2 Un concetto analogo si trova in Cicerone, Tusc., II, 63: Sed tamen hoc evenit, ut in vulgus insipientium opinio valeat honestatis, cum ipsam videre non possint. Itaque fama et multitudinis iudicio moventur, cum id honestum putent quod a plerisque laudetur. Te autem, si in oculis sis multitudinis, tamen eius iudicio stare nolim nec, quod illa putet, idem putare pulcherrimum. Tuo tibi iudicio est utendum; tibi si recta probanti placebis, tum non modo tete viceris, quod paulo ante praecipiebam, sed omnes et omnia. Hoc igitur tibi propone, amplitudinem animi et quasi quandam exaggerationem quam altissimam animi, quae maxime eminet contemnendis et despiciendis doloribus, unam esse omnium rem pulcherrimam, eoque pulchriorem, si vacet populo neque plausum captans se tamen ipsa delectet. Quin etiam mihi quidem laudabiliora videntur omnia, quae sine venditatione et sine populo teste fiunt, non quo fugiendus sit (omnia enim bene facta in luce se collocari volunt), sed tamen nullum theatrum virtuti conscientia maius est, « «Ma tuttavia accade questo, che nel volgo degli ignoranti ha valore l’opinione dell’onestà, dato che non sono in grado di vedere l’onestà in sé. E così sono influenzati dalle dicerie e dal giudizio della moltitudine, poiché ritengono onesto ciò che dai più è lodato. Quanto a te poi, se fossi davanti agli occhi della moltitudine, tuttavia non vorrei che ti attenessi al suo giudizio, né che considerassi bellissimo la medesima cosa che quella considera tale. Tu devi usare il tuo giudizio; se piacerai a te stesso quando riconosci il giusto, allora non solo avrai vinto te stesso, cosa che insegnavo poco fa, ma tutti e tutto. Questo quindi proponiti, che la grandezza d’animo e per così dire una certa elevazione la più alta possibile dell’animo, che soprattutto si innalza nel considerare con indifferenza e disprezzo i dolori, è l’unica cosa più bella di tutte, e tanto più bella, se è libera dalla massa e, pur non cercando l’applauso, tuttavia tra diletto essa stessa da se stessa. Anzi, a me sembrano certamente più lodevoli tutte quelle cose che avvengono senza ostentazione e senza la massa come testimone, non perché sia da fuggire (infatti tutte le cose ben fatte vogliono essere collocate nella luce), ma tuttavia nessun teatro è più grande per la virtù della coscienza».
3 Nietzsche considera tale disposizione gregaria tipica del vanitoso, che in fondo è uno schiavo (Al di là del bene e del male, Capitolo nono, Che cos’è aristocratico, 261): La vanità fa parte di quelle cose che sono forse le più difficili a capire per un uomo nobile… Per lui il problema è quello di immaginarsi degli esseri che cercano di destare una buona opinione di sé, quale essi stessi non hanno – e dunque neppure «meritano» – per credere poi essi stessi a questa buona opinione… Il vanitoso si rallegra di ogni buona opinione che sente sul suo conto… allo stesso modo con cui si dispiace di ogni cattiva opinione: egli infatti si assoggetta a entrambe, si sente assoggettato e esse, per quell’antichissimo istinto di soggezione che prorompe in lui. – C’è «lo schiavo» nel sangue del vanitoso».
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