Pubblico qui la tesi di laurea di Adele Gentili, ex studentessa tra le migliori.
Di seguito il PDF, quindi un estratto.
«Attraverso la sofferenza, la comprensione»: il principio del πάθει μάθος e le sue origini
“Attraverso la sofferenza, la comprensione”:
il principio del πάθει µάθος e le sue origini
Sofferenza e conoscenza: un’esperienza e un processo che fanno parte del vissuto ineludibile della condizione umana e con cui l’uomo, da sempre, si è trovato e si ritrova a dover fare i conti. All’apparenza, sembrano essere distanti e inconciliabili tra loro, tuttavia non è così: esse sono strette insieme da un antico legame, che affonda alcune delle proprie radici nella cultura greca e che trova, nella letteratura ad essa connessa, una delle sue più profonde e riuscite formulazioni: τῷ πάθει µάθος, “attraverso la sofferenza, la comprensione” (Aesch. Ag. 177). L’autore di questa sentenza è Eschilo e a pronunciarla è il coro dei Vecchi Argivi, nel momento in cui, all’interno della parodo dell’Agamennone, intona il cosiddetto ‘Inno a Zeus’. Si tratta di un’espressione che individua nella sofferenza un veicolo di conoscenza e che sarà destinata, nel corso dei secoli, a diventare topica; tuttavia, quali sono le sue origini?
Le seguenti pagine si propongono di fornire delle risposte a questo interrogativo, risalendo agli albori del πάθει µάθος eschileo e riscoprendo, all’interno della letteratura greca, le più antiche tracce del nesso tra sofferenza e conoscenza, e in modo particolare, dell’idea che sia possibile apprendere tramite il dolore.
- Omero ed Esiodo
Le prime espressioni poetiche del valore paideutico della sofferenza compaiono all’interno dei poemi omerici, nell’Iliade in modo particolare, e in Esiodo, all’interno delle Opere e i giorni.
Per quanto riguarda il contesto iliadico, ci troviamo all’inizio del XVII libro: intorno al cadavere di Patroclo infuria la lotta tra gli Achei, che vogliono riportare il suo corpo alle navi, e i Troiani, che sperano di trasportarlo in città; Menelao si fa avanti per difendere il cadavere, “smaniosio di uccidere chiunque gli si ponesse di fronte” (Il. XVII 8); ma subito gli si avvicina Euforbo, che, rivendicando le armi e le spoglie dell’eroe morto, vantando di esserne il primo uccisore, lo sfida a duello. L’Atride, allora, per intimidire l’avversario, afferma (Il. XVII 30-32):
… ἀλλά σ ̓ ἔγω γ ̓ ἀναχωρήσαντα κελεύωἐς πληθὺν ἰέναι, µηδ ̓ ἀντίος ἵστασ ̓ ἐµεῖο,πρίν τι κακὸν παθέειν· ῥεχθὲν δέ τε νήπιος ἔγνω.“Ma io ti consiglio di indietreggiare edi ritornare nel mucchio, e di non porti di fronte a me,prima di subire un qualche danno: lo stolto comprende dopo che è stato compiuto”.
Con queste parole, Menelao mette in guarda Euforbo avvertendolo che, se non ascolterà il suo consiglio, ne pagherà le conseguenze, mettendo a rischio la sua stessa vita, e sottolineando che solamente uno stolto ha bisogno di venire a contatto con un’esperienza negativa per capire e ‘imparare la lezione’.
Per quanto riguarda il contesto delle Opere e i giorni, invece, Esiodo ha appena terminato il racconto dell’apologo dello sparviero e dell’usignolo (Op. 202-212)1 e si rivolge oradirettamente al fratello Perse, destinatario del poemetto, dicendo (Op. 216-218):
… ὁδὸς δ ̓ ἑτέρηφι παρελθεῖνκρείσσων ἐς τὰ δίκαια· δίκη δ' ὑπὲρ ὕβριος ἴσχειἐς τέλος ἐξελθοῦσα· παθὼν δέ τε νήπιος ἔγνω.“È preferibile da percorrere la strada dall’altra parte,verso le opere giuste; la giustizia, una volta giunta al suo compimento,prevale sulla prepotenza: lo stolto comprende soffrendo”.
Esiodo invita Perse a prestare ascolto alla giustizia e a non accrescere la prepotenza, sottolineando che la prima trionferà sempre sulla seconda, e ricordandogli come solo uno stolto ha bisogno di soffrire per arrivare a comprendere.
ῥεχθὲν δέ τε νήπιος ἔγνω e παθὼν δέ τε νήπιος ἔγνω: sono queste, dunque, le prime espressioni poetiche indicanti l’idea che attraverso la sofferenza si può giungere alla conoscenza. Si tratta di due espressioni molto simili tra loro, tanto per forma quanto per contenuto. A livello formale, sono entrambe della lunghezza di un emistichio e differiscono per il solo verbo iniziale (nella prima si ha il participio aoristo passivo di ῥέζω, nella seconda, il participio aoristo di πάσχω); a livello contenutistico – ed è su questo aspetto che vale la pena soffermarsi – entrambe fanno dell’apprendimento tramite il dolore una prerogativa di una precisa categoria di persone, gli stolti (νήπιοι), attribuendogli, per giunta, una sfumatura negativa. Ciò su cui sembrano puntare l’attenzione queste espressioni, infatti, non è tanto il beneficio che una persona può trarre dalla sofferenza, quanto più il fatto che questa è un’esperienza a priori negativa, di cui solo una persona stolta ha bisogno per diventare più assennata, al pari di un bambino che, giocando col fuoco, ha bisogno di scottarsi per capirne la pericolosità2. Dalla sofferenza, in questi termini, una persona saggia non trae alcun vantaggio, se non, al massimo, quello di dimostrare di possedere la saggezza già in sé connaturata3.
Ciò che colpisce, inoltre, tanto del monito di Menelao al suo avversario, quanto di quello di Esiodo a suo fratello, è che questi non si pongono come delle vere e proprie lezioni di saggezza, ma semplicemente come le riprese di un’espressione dal sapore proverbiale che doveva essere nota ai più4: il concetto dello stolto che impara soffrendo doveva avere, almeno inizialmente, uno status proverbiale e doveva fare parte dell’immaginario collettivo dell’epoca. Diversi indizi ci spingono ad affermarlo: innanzitutto, la presenza in entrambe le espressioni di ἔγνω, indicativo aoristo di γιγνώσκω con valore gnomico, e delle particelle δέ e τε che, unite insieme, si trovano in espressioni di portata generale, nelle quali ricoprono una funzione generalizzante5; inoltre, il fatto che l’emistichio iliadico con ῥεχθὲν ricorre identico in un altro passo dell’opera, nel XX libro (v. 198)6; e infine, una testimonianza di Platone nel Simposio (222b), che conferma come anche nel IV secolo a.C. il proverbio (τὴν παροιµίαν) fosse diffuso:
ἃ δὴ καὶ σοὶ λέγω, ὦ Ἀγάθων, µὴ ἐξαπατᾶσθαι ὑπὸ τούτου, ἀλλ ̓ ἀπὸ τῶν ἡµετέρων παθηµάτων γνόντα εὐλαβηθῆναι, καὶ µὴ κατὰ τὴν παροιµίαν ὥσπερ νήπιον παθόντα γνῶναι.
“E ti dico queste cose, Agatone, affinché tu non sia ingannato da lui [Socrate], ma, dopo aver imparato dalle nostre esperienze tu sia cauto, e tu non impari dopo avere sofferto, come lo stolto secondo il proverbio”7.
1 Si tratta del primo esempio di favola attestato nella letteratura greca. In maniera breve ed efficace, l’apologo esemplifica la logica della sopraffazione e della violenza che vige nel mondo animale, dove il debole è sempre vittima del forte. Lo sparviero spiega all’usignolo che si lamenta, essendo finito tra i suoi artigli, che sarà lui a decidere del suo destino, in quanto legittimato dalla sua forza; questa è la legge del più forte e a essa è stolto opporre resistenza: il debole che oserà confrontarsi con il più forte non potrà trionfare e, oltre alla vergogna, sarà destinato a patire dolori (Op. 211s.: ἄφρων δ ̓ , ὅς κ ̓ ἐθέλῃ πρὸς κρείσσονας ἀντιφερίζειν· / νίκης τε στέρεται πρός τ ̓ αἴσχεσιν ἄλγεα πάσχει, “È stolto colui che vuole mettersi in contrasto con i più forti: è privato della vittoria e oltre alla vergogna soffre dolori”). Laddove vige la legge del più forte, non ha senso discutere in termini di giustizia; e di ciò se ne ricorderà bene anche Tucidide nel cosiddetto Dialogo dei Meli e degli Ateniesi (Thuc. V 84-116).
2 Cfr. N. C. Croy, Endurance in Suffering: Hebrews 12:1-13 in its Rhetorical, Religious, and Philosophical Context, Cambridge 1998, p. 139: «The earliest poetic expressions of the educative value of suffering were usually stated negatively. That is, the accent was not on the positive benefit that accrued to a noble person who suffered incidentally, but on the inevitable awakening of the foolish person who suffered as a result of folly»; e B. R. Dyer, The Wordplay µαθεῖν-παθεῖν in Hebrews 5:8. «Novum Testamentum» LXIII (2021), p. 495: «Learning through suffering was understood negatively to show that a foolish person was eventually taught due to his or her own stupidity».
3 Significativa in questo senso è una sentenza pindarica in I. 1, 41(Istmica scritta in onore di Erodoto di Tebe, vincitore della gara con il carro): ὁ πονήσαις δὲ νόῳ καὶ προµάθειαν φέρει, “Colui che affronta fatiche con senno possiede anche prudenza”. Dalla sentenza non emerge un’idea di sofferenza positiva o educativa, ma l’opposto: chi agisce con senno, con discernimento, nell’affrontare le fatiche e i dolori, dimostra già di possedere la saggezza e anche di appartenere alla schiera di coloro a cui è connaturata la capacità di prevedere le conseguenze del proprio agire, la προµήθεια (cfr. G. A. Privitera, Lettura della prima Istmica di Pindaro, «QUCC» XXVIII (1978), p. 117).
4 Quello a cui Euforbo andrà incontro non sarà una «lofty religious insight gained from adversity», ma «the 4 brutish lesson of a sound thrashing» (N. C. Croy, op. cit., p. 140); quanto al testo esiodeo, «i versi 213-764 contengono opinioni e norme morali tradizionalmente condivise (per questo si ha sempre l’impressione di leggervi una sequela di proverbi)» e proprio per questo motivo, in generale, il poema si potrebbe definire «sapienziale» piuttosto che «didascalico, perché raccoglie la sapienza degli antichi più che impartire veri e propri insegnamenti» (A. Porro-W. Lapini, Letteratura greca, Bologna 2017, p. 70).
5 Cfr. J.D. Denniston, The Greek Particles, pp. 521-528.
6 A pronunciare il detto, questa volta, è Achille nei confronti di Enea prima dell’inizio del loro duello, che l’eroe troiano, inizialmente restio, ha accettato di intraprendere dopo essere stato persuaso da Apollo.
7 A parlare è Alcibiade che, dopo aver tessuto le lodi non già di Amore ma di Socrate stesso – che da adolescente aveva tentato più volte di sedurre, pur venendo sempre rifiutato – conclude il proprio discorso, rivolgendosi così ad Agatone.
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