Il concetto di «sapienza silenica» risale a La nascita della tragedia di Nietzsche (del 1872); così ne parla al cap. 3:
Quale fu l’immenso bisogno da cui scaturì una così splendente società di esseri olimpici? […] Niente ricorda qui ascesi, spiritualità e dovere: qui parla a noi soltanto un’esistenza rigogliosa, anzi trionfante, in cui tutto ciò che esiste è divinizzato, non importa se sia buono o malvagio… di fronte a questa fantastica dovizia di vita […] con quale filtro magico in corpo questi uomini tracotanti potessero aver goduto la vita, al punto che , dovunque guardassero, rideva loro incontro Elena… «fluttuante in dolce sensualità». […] L'antica leggenda narra che il re Mida inseguì a lungo nella foresta il saggio Sileno, seguace di Dioniso, senza prenderlo. Quando quello gli cadde infine fra le mani, il re domandò quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l'uomo. Rigido e immobile, il demone tace; finché, costretto dal re, esce da ultimo fra stridule risa in queste parole: 'Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio è per te assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è – morire presto’[…] Il Greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter comunque vivere, egli dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici. L’enorme diffidenza verso le forze titaniche della natura […] insomma tutta la filosofia del dio silvestre con i suoi esempi mitici, per la quale perirono i melanconici Etruschi – fu dai Greci ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dèi olimpici. Fu per poter vivere che i Greci dovettero, per profondissima necessità, creare questi dèi. […] quel popolo […] che aveva un talento così unico per il soffrire, come avrebbe potuto sopportare l’esistenza? […] Così gli dèi giustificano la vita umana vivendola essi stessi – la sola teodicea soddisfacente! L’esistenza sotto il chiaro sole di dèi simili viene sentita come ciò che è in sé desiderabile, e il vero dolore degli uomini omerici si riferisce al dipartirsi da essa, soprattutto al dipartirsene presto: sicché di loro si potrebbe poi dire, invertendo la saggezza silenica, «la cosa peggiore di tutte è per essi di morire presto, la cosa in secondo luogo peggiore è di morire comunque un giorno». Se una volta risuona il lamento, ciò avviene per Achille dalla breve vita, per l’avvicendarsi e il mutare della stirpe umana come le foglie… Non è indegno neanche del più grande eroe bramare di vivere ancora, fosse pure come lavoratore a giornata. […] Nei Greci la «volontà» volle intuire se stessa nella trasfigurazione del genio e del mondo dell'arte; per glorificarsi le sue creature dovettero sentire se stesse come degne di glorificazione, dovettero rivedere se stesse in una sfera superiore, senza che questo mondo perfetto dell'intuizione agisse come imperativo o come rimprovero. Questa è la sfera della bellezza, dove essi videro le loro immagini in uno specchio, gli dèi olimpici. Con questo rispecchiamento di bellezza la «volontà» ellenica lottò contro il talento, correlativo a quello artistico, del dolore e della saggezza del dolore: e come monumento della sua vittoria ci sta innanzi Omero, l'artista ingenuo.
La leggenda di Sileno si trova nelle Tusculanae di Cicerone (I, 47-48):
Deorum inmortalium iudicia solent in scholis proferre de morte, nec vero ea fingere ipsi, sed Herodoto auctore aliisque pluribus. Primum Argiae sacerdotis Cleobis et Bito filii praedicantur. Nota fabula est…Adfertur etiam de Sileno fabella quaedam: qui cum a Mida captus esset, hoc ei muneris pro sua missione dedisse scribitur: docuisse regem non nasci homini longe optimum esse, proximum autem quam primum mori.
«Sono soliti nelle scuole proporre i giudizi degli dèi immortali sulla morte, e non li inventano però essi stessi, ma basandosi sull’autorità di Erodoto e altri. Innanzitutto sono celebrati Cleobi e Bitone, i figli della sacerdotessa Argia. La storia è nota […] Si adduce anche un raccontino su Sileno: si scrive che egli, dopo essere stato catturato da Mida, gli diede questa ricompensa in cambio della sua liberazione: insegnò al re che non nascere è per l’uomo la cosa di gran lunga migliore, la seconda poi morire il prima possibile».
Il passo di Erodoto a cui fa riferimento l’Arpinate si trova in Storie, I, 32 e parla dei due ragazzi che tirarono il carro della madre fino al tempio per non farla arrivare in ritardo alla cerimonia; la madre chiese alla dea di ricompensare i figli con la cosa migliore che può essere donata ad un uomo:
ταῦτα δέ σφι ποιήσασι καὶ ὀφθεῖσι ὑπὸ τῆς πανηγύριος τελευτὴ τοῦ βίου ἀρίστη ἐπεγένετο, διέδεξέ τε ἐν τούτοισι ὁ θεὸς ὡς ἄμεινον εἴη ἀνθρώπῳ τεθνάναι μᾶλλον ἢ ζώειν,
«a loro che avevano compiuto queste imprese e che erano stati visti dalla folla radunata capitò una fine della vita ottima, e il dio dimostrò in questi che è meglio per un uomo essere morto che vivere». Alla mattina furono trovati morti.
Come si può notare la sapienza silenica è una sensibilità radicata nella civiltà greca, come vedremo con altri esempi.
Teognide, 427-30 (metà VI a.C.)
“Πάντων μὲν μὴ φῦναι ἐπιχθονίοισιν ἄριστον”μηδ' ἐσιδεῖν αὐγὰς ὀξέος ἠελίου,“φύντα δ' ὅπως ὤκιστα πύλας Ἀίδαο περῆσαι”καὶ κεῖσθαι πολλὴν γῆν ἐπαμησάμενον.
«“Di tutte le cose per gli abitanti della terra non essere nato è la migliore“ / né guardare i raggi del sole acuto, / “ma una volta nato varcare il prima possibile le porte dell’Ade” / e giacere dopo aver accumulato molta terra».
I versi di Teognide sono ripresi da Epicuro (342 a.C.-270 a.C.), in Ep. a Meneceo, 126: πολὺ δὲ χείρων καὶ ὁ λέγων· καλὸν μὴ φῦναι, “φύντα δ’ ὅπως ὤκιστα πύλας Ἀίδαο περῆσαι”, «molto meglio anche chi dice: è bello non essere nato, “ma una volta nato varcare il prima possibile le porte dell’Ade”».
Ancora in ERODOTO troviamo due testimonianze.
V, 4, 2 – le usanze dei Trausi, una tribù di Traci:
τὸν μὲν γενόμενον περιιζόμενοι οἱ προσήκοντες ὀλοφύρονται, ὅσα μιν δεῖ ἐπείτε ἐγένετο ἀναπλῆσαι κακά, ἀνηγεόμενοι τὰ ἀνθρωπήια πάντα πάθεα, τὸν δ' ἀπογενόμενον παίζοντές τε καὶ ἡδόμενοι γῇ κρύπτουσι, ἐπιλέγοντες ὅσων κακῶν ἐξαπαλλαχθείς ἐστι ἐν πάσῃ εὐδαιμονίῃ.
«stando seduti intorno al nato i parenti compiangono quanti mali bisogna che affronti dopo che è nato, elencando tutte le sofferenze umane, mentre coprono di terra il morto scherzando e gioendo, dicendo da quanti mali si è liberato e che si trova in totale felicità».
VII, 45-46, 2-4 – Il pianto di Serse
Ὡς δὲ ὥρα πάντα μὲν τὸν Ἑλλήσποντον ὑπὸ τῶν νεῶν ἀποκεκρυμμένον, πάσας δὲ τὰς ἀκτὰς καὶ τὰ Ἀβυδηνῶν πεδία ἐπίπλεα ἀνθρώπων, ἐνθαῦτα ὁ Ξέρξης ἑωυτὸν ἐμακάρισε, [46] μετὰ δὲ τοῦτο ἐδάκρυσε.
«Quando vide tutto l’Ellesponto coperto dalle navi, tutte le coste e le pianure di Abido stracolme di uomini, allora Serse si considerò beato, ma dopo pianse».
«Ἐσῆλθε γάρ με λογισάμενον κατοικτῖραι ὡς βραχὺς εἴη ὁ πᾶς ἀνθρώπινος βίος, εἰ τούτων γε ἐόντων τοσούτων οὐδεὶς ἐς ἑκατοστὸν ἔτος περιέσται.»
«Mi è venuto nel riflettere da avere pietà del fatto che è breve tutta la vita umana, se di questi che sono così tanti nessuno sopravviverà fra cento anni».
Ὁ δὲ ἀμείβετο λέγων· «Ἕτερα τούτου παρὰ τὴν ζόην πεπόνθαμεν οἰκτρότερα. Ἐν γὰρ οὕτω βραχέϊ βίῳ οὐδεὶς οὕτω ἄνθρωπος ἐὼν εὐδαίμων πέφυκε, οὔτε τούτων οὔτε τῶν ἄλλων, τῷ οὐ παραστήσεται πολλάκις καὶ οὐκὶ ἅπαξ τεθνάναι βούλεσθαι μᾶλλον ἢ ζώειν.
«E l’altro (Artabano) rispondeva dicendo: “Altri mali più degni di compassione di questo subiamo lungo la vita. In una vita così breve infatti, nessun uomo è per natura così felice, né tra questi né tra gli altri, a cui non non sia venuto in mente spesso e non una sola volta di voler morire piuttosto che vivere».
Αἵ τε γὰρ συμφοραὶ προσπίπτουσαι καὶ αἱ νοῦσοι συνταράσσουσαι καὶ βραχὺν ἐόντα μακρὸν δοκέειν εἶναι ποιεῦσι τὸν βίον. Οὕτω ὁ μὲν θάνατος μοχθηρῆς ἐούσης τῆς ζόης καταφυγὴ αἱρετωτάτη τῷ ἀνθρώπῳ γέγονε· ὁ δὲ θεὸς γλυκὺν γεύσας τὸν αἰῶνα φθονερὸς ἐν αὐτῷ εὑρίσκεται ἐών.»
«Infatti le disgrazie che piombano addosso e le malattie che sconvolgono fanno sembrare lunga una vita che è breve. Così la morte diventa per l’uomo la via di scampo preferibile a un’esistenza che è dolorosa: il dio facendo assaggiare una vita dolce si scopre essere in questo invidioso”».
Famosi sono i versi di Sofocle, EDIPO a COLONO, vv. 1224-1227:
Μὴ φῦναι τὸν ἅπαντα νι-κᾷ λόγον· τὸ δ', ἐπεὶ φανῇ,βῆναι κεῖθεν ὅθεν περ ἥ-κει, πολὺ δεύτερον, ὡς τάχιστα.
«Il non essere nato vince / ogni discorso; andare, dopo che tu sia venuto alla luce, / là da dove appunto sei / giunto al più presto, è di gran lunga il secondo bene».
Anche in Euripide non mancano le testimonianze:
Euripide, Troiane, vv. 636-637:
τὸ μὴ γενέσθαι τῷ θανεῖν ἴσον λέγω,
τοῦ ζῆν δὲ λυπρῶς κρεῖσσόν ἐστι κατθανεῖν.
ἀλγεῖ γὰρ οὐδὲν † τῶν κακῶν ᾐσθημένος· †
ὁ δ’ εὐτυχήσας ἐς τὸ δυστυχὲς πεσὼν
ψυχὴν ἀλᾶται τῆς πάροιθ’ εὐπραξίας. 640
κείνη δ’, ὁμοίως ὥσπερ οὐκ ἰδοῦσα φῶς,
τέθνηκε κοὐδὲν οἶδε τῶν αὑτῆς κακῶν.
ἐγὼ δὲ τοξεύσασα τῆς εὐδοξίας
λαχοῦσα πλεῖον τῆς τύχης ἡμάρτανον.
«Il non nascere io lo dico pari al morire, / mentre rispetto al vivere nel dolore è meglio morire. / Infatti non soffre nulla chi non percepisce i mali; / invece chi avendo avuto fortuna poi è caduto nella sventura / ha perduto nell’anima il precedente successo. / Quella invece, proprio come se non avesse mai visto la luce, / è morta e non sa niente dei propri mali. / Mentre io dopo aver mirato alla buona fama / e averla colta, a maggior ragione fallivo il bersaglio della fortuna».
Vediamo anche qualche passo latino.
LUCREZIO, De rerum natura
V, 174
quidve mali fuerat nobis non esse creatis?,
«che male sarebbe stato per noi non essere stati creati?».
V, 222-27
tum porro puer, ut saevis proiectus ab undis
navita, nudus humi iacet infans indigus omni
vitali auxilio, cum primum in luminis oras
nixibus ex alvo matris natura profudit,
vagituque locum lugubri complet, ut aequumst
cui tantum in vita restet transire malorum.
«Ed ecco il fanciullo, come un naufrago buttato a riva dalle crudeli / onde, nudo giace al suolo privo di parola bisognoso di ogni / aiuto vitale, non appena la natura lo ha fatto uscire / dal ventre della madre sui lidi della luce, con le doglie / e riempie il luogo di un lugubre vagito, come è giusto / per cui nella vita è riservato di attraversare tanti mali».
Leopardi aveva in mente questi versi quando scrisse il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (vv. 39-56; 100-104):
Nasce l'uomo a fatica,/Ed è rischio di morte il nascimento. /Pr ova pena e tormento / Per prima cosa; e in sul principio stesso / La madre e il genitore / Il prende a consolar dell'esser nato./Poi che crescendo viene, / L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre / Con atti e con parole / Studiasi fargli core, / E consolarlo dell'umano stato: / Altro ufficio più grato / Non si fa da parenti alla lor prole./Ma perchè dare al sole, / Perchè reggere in vita / Chi poi di quella consolar convenga? / Se la vita è sventura, / Perchè da noi si dura? […] Questo io conosco e sento, / Che degli eterni giri, / Che dell'esser mio frale, / Qualche bene o contento / Avrà fors'altri; a me la vita è male.
Seneca
Consolatio ad Marciam, 22 (per una donna, figlia del senatore e storiografo martire di Tiberio Cremuzio Cordo, a cui era morto il figlio):
Itaque, si felicissimum est non nasci, proximum est, puto, brevi aetate defunctos cito in integrum restitui, «e così, se la massima fortuna è non nascere, la seconda è, credo, essere restituiti allo stato originario in fretta dopo aver compiuto una vita breve».
Consolatio ad Polybium, 4, 3 (per un uomo, un potente liberto di Claudio, a cui era morto un fratello):
Non vides, qualem nobis vitam rerum natura promiserit, quae primum nascentium hominum fletum esse voluit?, «Non vedi quale vita ci ha riservato la natura, che ha voluto che per prima cosa ci fosse il pianto degli uomini quando nascono?».
Infine vediamo Petronio, Satyricon, , 48, 8 (è Trimalchione che durante la cena si atteggia a filosofo):
Nam Sybillam quidem Cumis, ego ipse, oculis meis, vidi in ampulla pendere et cum illi pueri dicerent: Σιβύλλα, τὶ θέλεις; respondebat illa: ἀποθανεῖν θέλω, «io stesso infatti vidi con i miei occhi a Cuma la Sibilla essere sospesa in un’ampolla e siccome i fanciulli dicevano: “Sibilla, cosa vuoi”, ella rispondeva: “morire voglio”».
Queste parole di Petronio sono citate come epigrafe all’inizio di The waste land di T.S. Eliot (1922).
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