Ciclo delle costituzioni – Costituzione mista – Eterno ritorno

La città ideale – Galleria Nazionale delle Marche a Urbino.

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 L’idea della ciclicità risale a Polibio che la applica all’avvicendarsi delle forme costituzionali e la associa a quella della «costituzione mista», di cui Roma è l’esemplare meglio riuscito. L’argomento è trattato nel libro VI (§§ 1-57) delle sue Storie. Vediamone un riassunto.

 La definizione di «costituzione mista» non compare in Polibio né altrove; egli così la descrive (VI, 3, 7): δῆλον γὰρ ὡς ἀρίστην μὲν ἡγητέον πολιτείαν τὴν ἐκ πάντων τῶν προειρημένων ἰδιωμάτων συνεστῶσαν, «è chiaro infatti che bisogna considerare come la migliore costituzione quella che si compone di tutte le caratteristiche summenzionate».

Capitolo 1

 All’inizio del libro Polibio sospende la narrazione della guerra (siamo nel 216 a.C., prima della battaglia di Canne) per dimostrare che il massimo giovamento per i Romani è derivato dalla «particolarità della costituzione», ἡ τοῦ πολιτεύματος ἰδιότης (1), soprattutto «in relazione all’avere l’idea di conquistare l’impero universale», πρὸς τὸ […] ἔννοιαν σχεῖν τῆς τῶν ὅλων ἐπιβολῆς (1).


Capitolo 2

Ὅτι τὸ ψυχαγωγοῦν ἅμα καὶ τὴν ὠφέλειαν ἐπιφέρον τοῖς φιλομαθοῦσι τοῦτ' ἔστιν ἡ τῶν αἰτιῶν [9] θεωρία καὶ τοῦ βελτίονος ἐν ἑκάστοις αἵρεσις. μεγίστην δ'αἰτίαν ἡγητέον ἐν ἅπαντι πράγματι καὶ πρὸς ἐπιτυχίαν καὶ τοὐναντίον τὴν τῆς πολιτείας [10] σύστασιν, «La cosa più affascinante e che contemporaneamente apporta vantaggio a chi ama imparare è questa, l’esame delle cause e la scelta della soluzione migliore nelle singole situazioni. Ma la causa più importante in ogni azione deve essere considerata sia per il successo sia per il contrario la struttura della costituzione (8-10).


Capitolo 3

 Quella romana presenta notevoli difficoltà di analisi διὰ τὴν ποικιλίαν τῆς πολιτείας, «per la complessità della costituzione» (3), dunque c’è bisogno di un’indagine particolarmente attenta. Da qui parte il ragionamento.

 La maggior parte degli studiosi precedenti ha individuato τρία γένη […] πολιτειῶν, ὧν τὸ μὲν καλοῦσι βασιλείαν, τὸ δ' ἀριστοκρατίαν, τὸ δὲ τρίτον δημοκρατίαν, «tre forme di costituzione, delle quali chiamano una regno, una aristocrazia, la terza democrazia» (5), ma Polibio aggiunge che δῆλον γὰρ ὡς ἀρίστην μὲν ἡγητέον πολιτείαν τὴν ἐκ πάντων τῶν προειρημένων ἰδιωμάτων συνεστῶσαν, «è chiaro che bisogna considerare come la migliore la costituzione che risulta da tutte le caratteristiche dette prima» (8).

 Licurgo fu il primo a escogitare questa forma, ma non si possono escludere ulteriori forme di governo.


Capitolo 4

 Qui, distinguendolo dalla monarchia, viene definito il regno: βασιλείαν ῥητέον […] μόνην τὴν ἐξ ἑκόντων συγχωρουμένην καὶ τῇ γνώμῃ τὸ πλεῖον ἢ φόβῳ καὶ βίᾳ κυβερνωμένην, «bisogna dire regno solo quello concordato da persone che lo vogliono e governato con l’intelligenza più che con paura e violenza» (2); analogamente non bisogna ritenere aristocrazia ogni oligarchia ma solo ἥτις ἂν κατ' ἐκλογὴν ὑπὸ τῶν δικαιοτάτων καὶ φρονιμωτάτων ἀνδρῶν βραβεύηται, «quella che è diretta secondo la scelta dagli uomini più giusti e assennati» (4). Infine non possiamo chiamare δημοκρατίαν, ἐν ᾗ πᾶν πλῆθος κύριόν ἐστι ποιεῖν ὅ, τι ποτ' ἂν αὐτὸ βουληθῇ, «democrazia quella in cui il popolo è padrone di fare proprio tutto ciò che vuole» (4-5), ma quella in cui siano rispettate le tradizioni, si ubbidisce alle leggi e ὅταν τὸ τοῖς πλείοσι δόξαν νικᾷ, «quando vince ciò che sembra giusto alla maggioranza» (5).

 Dunque i generi di costituzione non sono tre ma sei: ai primi bisogna aggiungerne τρία δὲ τὰ τούτοις συμφυῆ, λέγω δὲ μοναρχίαν, ὀλιγαρχίαν, ὀχλοκρατίαν, «tre a questi connaturati , dico la monarchia, l’oligarchia, l’oclocrazia» (6). Come si vede, qui la degenerazione del regno non viene ancora chiamata tirannide, come poco dopo (8).

 Il primo a comparire è il regno; segue una prima schematizzazione di come si succedono (regno-tirannide-aristocrazia-oligarchia-democrazia-oclocrazia).


Capitolo 5

 Da questo punto fino al capitolo 9 Polibio descrive nei particolari come avviene la successione delle costituzioni.

 La prima forma di governo che l’umanità si dà è quella monarchica poiché ἀνάγκη τὸν τῇ σωματικῇ ῥώμῃ καὶ τῇ ψυχικῇ τόλμῃ διαφέροντα, τοῦτον ἡγεῖσθαι καὶ κρατεῖν, «è necessario che colui che si distingue per forza fisica e audacia di spirito comandi e abbia il potere (7), e τοῦτο χρὴ φύσεως ἔργον ἀληθινώτατον νομίζειν, «questo bisogna considerare il compito più autentico della natura» (8), come succede anche tra gli altri animali. Dunque ὅρος μέν ἐστι τῆς ἀρχῆς ἰσχύς, ὄνομα δ' ἂν εἴποι τις μοναρχίαν, «limite del potere è la forza, e si potrebbe dare il nome di monarchia» (9). Col tempo però subentrano comunanza di vita e abitudini e nasce il regno, grazie al quale per la prima volta compaiono le idee di del bello e del giusto e i loro contrari.


Capitolo 6

 In questo capitolo si analizza come si formano queste idee. Il punto fondamentale è la gratitudine. ὁπότε τις τῶν ἐκτραφέντων εἰς ἡλικίαν ἱκόμενος μὴ νέμοι χάριν μηδ' ἀμύναι τούτοις οἷς ἐκτρέφοιτο, «quando uno di coloro che sono stati cresciuti, giunto all’età adulta, non riserva gratitudine e non dà protezione a questi da cui è stato cresciuto» (2), ecco che la cosa viene notata dagli altri che si dispiacciono e la riportano a se stessi giudicandola negativa perché in futuro potrebbe toccare anche a loro. In seguito a ciò ὑπογίνεταί τις ἔννοια παρ' ἑκάστῳ τῆς τοῦ καθήκοντος δυνάμεως καὶ θεωρίας· ὅπερ ἐστὶν ἀρχὴ καὶ τέλος δικαιοσύνης, «si insinua in ciascuno una certa idea della potenza e visione del dovere; da qui c’è il principio e il fine della giustizia» (7). Dunque si formano i concetti di bene e male e si tenderà ad imitare il bene, per la sua utilità, ed evitare il male.

 Dunque βασιλεὺς ἐκ μονάρχου λανθάνει γενόμενος, ὅταν παρὰ τοῦ θυμοῦ καὶ τῆς ἰσχύος μεταλάβῃ τὴν ἡγεμονίαν ὁ λογισμός, «un re nasce senza accorgersene da un monarca, qualora al posto del coraggio e della forza prende il dominio il ragionamento1» (12).


Capitolo 7

 Dunque il regno nasce dalla monarchia non appena si formano i concetti di bello e giusto. In origine i re non manifestavano particolare distanza dal popolo, ὁμόσε ποιούμενοι τοῖς πολλοῖς ἀεὶ τὴν δίαιταν (6), «conducendo un tenore di vita sempre in modo simile a quello dei più». Il problema sorge con il passaggio del potere per successione dinastica (κατὰ γένος) e allora la sicurezza è garantita e il sostentamento superiore al necessario. Ne derivano odio e invidia e così ἐγένετο μὲν ἐκ τῆς βασιλείας τυραννίς (8), «nacque dal regno la tirannide.

 Seguono i complotti dei più nobili e magnanimi (τῶν γενναιοτάτων καὶ μεγαλοψυχοτάτων) che non sopportano le prepotenze (ὕβρεις) dei capi.


Capitolo 8

 Il popolo si unisce a questi nobili e nasce l’aristocrazia, la quale con modalità simili alle precedenti degenera in oligarchia.


Capitolo 9

 A questo punto il popolo si affida alla guida di chi ha il coraggio di denunciare le malversazioni, ma temono di affidare il potere ad uno solo e μόνης δὲ σφίσι καταλειπομένης ἐλπίδος ἀκεραίου τῆς ἐν αὑτοῖς ἐπὶ ταύτην καταφέρονται, καὶ τὴν μὲν πολιτείαν ἐξ ὀλιγαρχικῆς δημοκρατίαν ἐποίησαν (3), «siccome l’unica speranza che rimane loro intatta è quella in sé stessi, si rivolgono a questa, e fondano la costituzione democratica da quella oligarchica». Tutto funziona finché vive la prima generazione, che considerava fondamentali uguaglianza di diritti (ἰσηγορία) e libertà di parola (παρρησία); alla seconda però questi valori non sono più tenuti in alta considerazione a causa dell’abitudine (διὰ τὸ σύνηθες), subentra la brama di essere superiori gli agli altri e μεθίσταται δ' εἰς βίαν καὶ χειροκρατίαν ἡ δημοκρατία (8), «la democrazia muta in violenza e dominio della forza», rigettando gli uomini alla condizione di belve finché non trovano un sovrano.

(10) Αὕτη πολιτειῶν ἀνακύκλωσις, αὕτη φύσεως οἰκονομία, καθ' ἣν μεταβάλλει καὶ μεθίσταται καὶ πάλιν εἰς αὑτὰ καταντᾷ τὰ κατὰ τὰς πολιτείας.

«Questo è il ciclo delle costituzioni, questo l’ordine della natura, secondo il quale mutano e si trasformano e di nuovo tornano a se stesse le forme delle costituzioni».

 Dunque bisogna conoscere questa dinamica se si vuole giudicare sulle vicende di uno stato senza ira o invidia (χωρὶς ὀργῆς ἢ φθόνου, 12)2.


Capitolo 10

 Il capitolo 10 è una digressione sulla legislazione di Licurgo, il mitico legislatore spartano, che inventò una costituzione mista prima di Roma; la differenza di Roma è aver raggiunto la sua forma costituzionale «non mediante ragionamento, ma attraverso molte lotte e vicende», οὐ μὴν διὰ λόγου, διὰ δὲ πολλῶν ἀγώνων καὶ πραγμάτων (14).

 Nel capitolo è anche spiegato il motivo del passaggio da una costituzione all’altra:

καθάπερ γὰρ σιδήρῳ μὲν ἰός, ξύλοις δὲ θρῖπες καὶ τερηδόνες συμφυεῖς εἰσι λῦμαι, δι' ὧν, κἂν πάσας τὰς ἔξωθεν διαφύγωσι βλάβας, ὑπ' αὐτῶν φθείρονται τῶν συγγενομένων, [4] τὸν αὐτὸν τρόπον καὶ τῶν πολιτειῶν συγγεννᾶται κατὰ φύσιν ἑκάστῃ καὶ παρέπεταί τις κακία, βασιλείᾳ μὲν ὁ μοναρχικὸς λεγόμενος τρόπος, [5] ἀριστοκρατίᾳ δ' ὁ τῆς ὀλιγαρχίας, δημοκρατίᾳ δ' ὁ θηριώδης καὶ χειροκρατικός (3-5), «come infatti per il ferro la ruggine, per i legni tarli e tignole sono le rovine connaturate, attraverso le quali, se anche scampino a tutti i danni provenienti dall’esterno, sono distrutti proprio da questi che sono congeniti, nello stesso modo anche insieme a ciascuna delle costituzioni è generata per natura e si accompagna una degenerazione». 
ἃ προϊδόμενος Λυκοῦργος οὐχ ἁπλῆν οὐδὲ μονοειδῆ συνεστήσατο τὴν πολιτείαν, ἀλλὰ πάσας ὁμοῦ συνήθροιζε τὰς ἀρετὰς καὶ τὰς ἰδιότητας τῶν ἀρίστων πολιτευμάτων, [7] ἵνα μηδὲν αὐξανόμενον ὑπὲρ τὸ δέον εἰς τὰς συμφυεῖς ἐκτρέπηται κακίας, (6-7) «avendo previsto ciò appunto Licurgo non costruì una costituzione semplice né con una forma singola, ma riunì insieme tutte le virtù e le particolarità delle costituzioni migliori, affinché niente crescendo oltre il dovuto si volgesse nelle degenerazioni connaturate».

 Quindi si spiega il vantaggio della costituzione mista nella quale i poteri si controllano a vicenda.


Capitoli 11-17

 I capitoli 11-17 descrivono i meccanismi della costituzione romana che presenta tutte le migliore forme di governo: il regno rappresentato dai consoli (Οἱ ὕπατοι), l’aristocrazia dal senato (ἡ σύγκλητος) e la democrazia dai tribuni della plebe (Οἱ δήμαρχοι).


Capitolo 18

 In questo capitolo è individuato il fattore che determina la forza della costituzione romana: ἀνυπόστατον συμβαίνει γίνεσθαι καὶ παντὸς ἐφικνεῖσθαι τοῦ κριθέντος τὴν ἰδιότητα τοῦ πολιτεύματος (4), «risulta che la particolarità del sistema di governo sia invincibile e che raggiunga ogni proposito» perché anche nei momenti di particolare difficoltà (per esempio quando si diffonde il benessere e subentra la superbia, ὕβρις) τότε καὶ μάλιστα συνιδεῖν ἔστιν αὐτὸ παρ' αὑτοῦ ποριζόμενον τὸ πολίτευμα τὴν βοήθειαν (6), «allora soprattutto è possibile vedere che il sistema di governo procura aiuto esso stesso da se stesso», ciò hai le risorse al suo interno. Il fatto è che nessuna componente prevarica l’altra.


Capitoli 19-42

 Questi sono una digressione sulle milizie romane.


Capitolo 43-56

 Questi capitoli confrontano la costituzione romana con quella di altri stati.

 Vengono analizzate quelle di Creta, Sparta e Cartagine; solo velocemente accenna ad Atene e Tebe, che non meritano un approfondimento in quanto i Tebani (tra il 371 e il 362 a.C.), ὥσπερ ἐκ προσπαίου τινὸς τύχης σὺν καιρῷ λάμψαντας, τὸ δὴ λεγόμενον, ἔτι δοκοῦντας ἀκμὴν καὶ μέλλοντας εὐτυχεῖν, τῆς ἐναντίας πεῖραν εἰληφέναι μεταβολῆς (43, 3), «avendo brillato per un’inattesa fortuna unita al momento opportuno, come si dice, quando ancora sembravano essere all’apice e stavano per ottenere il successo, fecero l’esperienza di un cambiamento in senso opposto»; gli Ateniesi raggiunsero l’apice con Temistocle, nella vittoria di Salamina contro i Persiani (480 a.C.), ma poi sperimentarono διὰ τὴν ἀνωμαλίαν τῆς φύσεως (44, 3), «a causa di un’anomalia della natura», il cambiamento in senso opposto: ἀεὶ γάρ ποτε τὸν τῶν Ἀθηναίων δῆμον παραπλήσιον εἶναι συμβαίνει τοῖς ἀδεσπότοις σκάφεσι (44, 4), «infatti succede che il popolo degli Ateniesi sia sempre simile alle navi senza comandante» nelle quali i marinai θαρρήσαντες ἄρξωνται καταφρονεῖν τῶν προεστώτων καὶ στασιάζειν πρὸς ἀλλήλους διὰ τὸ μηκέτι δοκεῖν πᾶσι ταὐτά (44, 5), «inorgogliendosi comincino a disprezzare i capi e a litigare tra di loro per il fatto di non pensare tutti la medesima cosa». Tali navi quindi πολλάκις διαφυγόντες τὰ μέγιστα πελάγη καὶ τοὺς ἐπιφανεστάτους χειμῶνας ἐν τοῖς λιμέσι καὶ πρὸς τῇ γῇ ναυαγοῦσιν. ὃ δὴ καὶ τῇ τῶν Ἀθηναίων πολιτείᾳ πλεονάκις ἤδη συμβέβηκε (44, 7-8), «spesso, dopo essere scampate ai più grandi marosi e alle più notevoli tra le tempeste, fanno naufragio nei porti e in prossimità della terra. E questo, in effetti, è accaduto già più di una volta anche allo stato degli Ateniesi». La conclusione è che non vale la pena di dilungarsi su costituzioni nelle quali ὄχλος χειρίζει τὰ ὅλα κατὰ τὴν ἰδίαν ὁρμήν (44, 9), «il volgo gestisce tutto secondo il proprio capriccio».

 Nel capitolo 50, nel parlare della costituzione di Licurgo, Polibio ne tesse l’elogio, ma solo se si vuole preservare la sicurezza e la libertà;

εἰ δέ τις μειζόνων ἐφίεται, κἀκείνου κάλλιον καὶ σεμνότερον εἶναι νομίζει τὸ πολλῶν μὲν ἡγεῖσθαι, πολλῶν δ' ἐπικρατεῖν καὶ δεσπόζειν, πάντας δ' εἰς αὐτὸν ἀποβλέπειν [4] καὶ νεύειν πρὸς αὐτόν, τῇδέ πῃ συγχωρητέον τὸ μὲν Λακωνικὸν ἐνδεὲς εἶναι πολίτευμα, τὸ δὲ Ῥωμαίων διαφέρειν καὶ δυναμικωτέραν ἔχειν τὴν σύστασιν (50, 3-4) «se invece uno aspira a imprese maggiori, e ritiene che sia più bello e nobile di quello guidare molti, dominare e signoreggiare molti, che tutti guardino a lui e pieghino il capo davanti a lui, in questo caso bisogna ammettere che la forma di governo spartana è difettosa, mentre quella romana è superiore e ha una costituzione più forte».

 L’imperialismo romano dunque è cosa bella e nobile.


Capitolo 57

 Con questo capitolo si conclude il trattato sulle costituzioni.

 Dunque alla fine Polibio fa una pessimistica constatazione, in linea con la tendenza degli antichi a concepire la storia come decadenza:

Ὅτι μὲν οὖν πᾶσι τοῖς οὖσιν ὑπόκειται φθορὰ καὶ μεταβολὴ σχεδὸν οὐ προσδεῖ λόγων· ἱκανὴ γὰρ ἡ τῆς φύσεως ἀνάγκη παραστῆσαι τὴν τοιαύτην πίστιν (1), «Che dunque alla base di tutti gli esseri ci sia corruzione e mutamento non ha quasi bisogno di parole: è sufficiente infatti la necessità della natura a confermare tale convinzione».

 Viene ribadito poi che uno stato può incontrare delle difficoltà dall’esterno (fattori naturali, nemici…) o dall’interno (cfr. VI, 10, 3-5); infine ritorna sul concetto che il motore del cambiamento in peggio è da rintracciare nell’opulenza che segue il successo, la quale a sua volta spinge alla brama di potere e all’ambizione3; a questo punto si incarica del cambiamento il popolo, ὁ δῆμος, manipolato da altri bramosi di potere:

τότε γὰρ ἐξοργισθεὶς καὶ θυμῷ πάντα βουλευόμενος οὐκέτι θελήσει πειθαρχεῖν οὐδ' ἴσον ἔχειν τοῖς προεστῶσιν, ἀλλὰ πᾶν [9] καὶ τὸ πλεῖστον αὐτός. οὗ γενομένου τῶν μὲν ὀνομάτων τὸ κάλλιστον ἡ πολιτεία μεταλήψεται, τὴν ἐλευθερίαν καὶ δημοκρατίαν, τῶν δὲ πραγμάτων τὸ χείριστον, τὴν ὀχλοκρατίαν (8-9), «a quel punto adiratosi e guidato dalla passione in tutto non vuole più ubbidire né essere pari ai capi, ma padrone lui completamente di tutto. Avvenuto ciò, la costituzione assumerà in cambio il più bello dei nomi, libertà e democrazia, ma il peggiore dei governi, l’oclocrazia».

 Qui finisce la trattazione e riprende la narrazione da dove si era interrotto, cioè dal 216 a.C., subito dopo la battaglia di Canne.



 Il termine preciso «costituzione mista» non si trova in Polibio né altrove.

 Un embrione di definizione si può considerare Tucidide, VIII, 97, 2: καὶ οὐχ ἥκιστα δὴ τὸν πρῶτον χρόνον ἐπί γε ἐμοῦ Ἀθηναῖοι φαίνονται εὖ πολιτεύσαντες· μετρία γὰρ ἥ τε ἐς τοὺς ὀλίγους καὶ τοὺς πολλοὺς ξύγκρασις ἐγένετο, «e sembra che per la prima volta, almeno per la mia esperienza, gli Ateniesi si siano governati al meglio: infatti la fusione tra i pochi e i molti si produsse nella giusta misura». Sta parlando del governo dei Cinquemila seguito al colpo di stato dei Quattrocento del 411. 

 Cicerone è quello che si avvicina di più alla definizione canonica, in De re publica (I, 29), dove riprende anche il concetto di “ciclo”:

mirique sunt orbes et quasi circuitus in rebus publicis commutationum et uicissitudinum;… Itaque quartum quoddam genus rei publicae maxime probandum esse sentio, quod est ex his quae prima dixi moderatum et permixtum tribus, «sorprendenti sono i cerchi e per così dire le rivoluzioni dei cambiamenti e degli avvicendamenti nelle costituzioni; […] E così sono dell’opinione che debba essere approvata massimamente una certa forma di costituzione di quarto tipo, che è mista in giusta misura tra queste tre che ho detto prima».

 Al capitolo XXVI così aveva definito le tre forme di governo:

aut uni tribuendum est, aut delectis quibusdam, aut suscipiendum est multitudini atque omnibus. quare cum penes unum est omnium summa rerum, regem illum unum vocamus, et regnum eius rei publicae statum. cum autem est penes delectos, tum illa civitas optimatium arbitrio regi dicitur. illa autem est civitas popularis—sic enim appellant -, in qua in populo sunt omnia. atque horum trium generum quodvis, si teneat illud vinculum quod primum homines inter se rei publicae societate devinxit, non perfectum illud quidem neque mea sententia optimum, sed tolerabile tamen, «(L’autorità) deve essere attribuita o a uno solo o a determinate persone scelte o deve essere assunta dalla massa e da tutti. Perciò quando tutto quanto il potere è presso uno solo, noi chiamiamo quell’unica persona re, e regno quella forma di stato. Quando poi è presso quelli scelti, allora si dice che quella città è retta dall’arbitrio dei migliori. È invece popolare – così infatti la definiscono – quella città in cui tutti i poteri sono nel popolo. E una qualsiasi di queste tre forme, se mantenesse quel legame che alle origini legò gli uomini tra loro con la comunità dello stato, risulta certamente non quella perfetta né a mio parere la migliore, ma comunque è tollerabile».


Machiavelli riprende il ragionamento di Polibio quasi pedissequamente nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (I, 2) per poi concludere, correggendolo, così:

«E questo è il cerchio nel quale girando tutte le republiche si sono governate e si governano: ma rade volte ritornano ne' governi medesimi; perché quasi nessuna republica può essere di tanta vita, che possa passare molte volte per queste mutazioni, e rimanere in piede».


  Tacito aveva polemizzato con Polibio sulla “costituzione mista”, per poi declinare il concetto di “ciclo” in chiave economico-sociale:

  Annales, IV, 33

Nam cunctas nationes et urbes populus aut primores aut singuli regunt: delecta ex iis et consociata rei publicae forma laudari facilius quam evenire, vel si evenit, haud diuturna esse potest.

«Infatti tutte le nazioni e le città le governano il popolo o i maggiorenti o degli individui singoli: quella forma di stato scelta tra queste e derivante da una loro alleanza è più facile che sia oggetto di lode piuttosto che di realizzazione, o se anche si realizza, non può essere duratura».


  Annales, III, 55

nisi forte rebus cunctis inest quidam velut orbis, ut quem ad modum temporum vices ita morum vertantur.

«a meno che forse in tutte le cose non ci sia come una sorta di ciclo, in modo che, come quello delle stagioni, così si volge l’alternarsi dei costumi».


 Leggiamo come commenta questa ultima considerazione di Tacito Santo Mazzarino (Il pensiero storico classico, III, 7, 1, pag. 82)

«L'idea tacitiana del «ciclo» economico dal 30 a.C. al 68 d.C. è, in fondo, un nuovo dono del pensiero filosofico alla storiografia antica: all’«anaciclosi» polibiana, che si applicava alle forme costituzionali, si aggiunse così un similare concetto di orbis, applicato all'economia. Questo concetto del luxus senatorio stroncato (com'egli dice nel passo degli Annali che citammo: III 55) dall'avvento, nel 69 d.C., di una borghesia «pecuniosa» ma parca, basterebbe a fornire taluni elementi essenziali per una storia sociale del periodo dal 69 d.C. — l'anno di Galba, Otone, Vitellio — fino a tutta l'età flavia: del periodo, insomma, che Tacito aveva trattato nelle Historiae. L'avvento di quella 'borghesia', destinata in qualche caso ad entrare nelle classi dirigenti, è per il Tacito di quel passo degli Annali un fatto senz'altro positivo, l'inizio appunto di un nuovo ideale etico-economico nell'orbis delle vicende umane».


 All’idea di «ciclo» si può accostare quella di eterno ritorno formulata da Nietzsche; vediamone alcuni passi:

 Così parlò Zarathustra. Parte terza.

Il convalescente. 2 Il centro è dappertutto. Ricurvo è il sentiero dell’eternità… ecco, tu sei il maestro dell’eterno ritorno -, questo ormai è il tuo destino!


 Crepuscolo degli idoli, Quel che devo agli antichi

4

Fui il primo che… considerai seriamente quel meraviglioso fenomeno chiamato col nome di Dioniso: esso è spiegabile unicamente sulla base di un eccesso di forza… Se si cerca il contrario, si veda la quasi esilarante povertà d’istinto dei filologi tedeschi, quand’essi giungono in prossimità del dionisiaco… Che cosa si garantivano i Greci con questi misteri? La vita eterna, l’eterno ritorno della vita… il trionfante sì alla vita… la vita vera, come sopravvivenza collettiva attraverso la procreazione, attraverso i misteri della sessualità. Perciò il simbolo sessuale fu per i Greci il simbolo in sé… Nella dottrina dei misteri il dolore è santificato… Affinché esista il piacere del creare, affinché la volontà di vita affermi se stessa eternamente, deve esistere eternamente anche il «tormento della partoriente».

5

La tragedia… Il dire sì alla vita persino nei suoi problemi più oscuri e più gravi, la volontà di vivere che, nel sacrificio dei suoi tipi più elevati, si allieta della propria inesauribilità – questo io chiamai dionisiaco, questo io divinai come il ponte verso la psicologia del poeta tragicoNon per affrancarsi dal terrore della compassione, non per purificarsi da una pericolosa passione mediante un veemente scaricarsi della medesima – come pensava Aristotele – bensì per essere noi stessi, al di là del terrore e della compassione, l’eterno piacere del divenire – quel piacere che comprende in sé anche il piacere dell’annientamento. E così io torno a toccare il punto da cui una volta presi le mosse – la Nascita della tragedia è stata la mia prima trasvalutazione di tutti i valori… io, l’ultimo discepolo del filosofo Dioniso – io, il maestro dell’eterno ritorno… 


 Nietzsche stesso commenta quest’ultimo passo del Crepuscolo degli idoli in Ecce homo (La nascita della tragedia, 3): 

In questo senso io ho il diritto di considerarmi il primo filosofo tragico… Prima di me non esisteva questa trasposizione dell’elemento dionisiaco in pathos filosofico: mancava la saggezza tragica – ne ho cercato invano un qualche segno perfino nei grandi Greci della filosofia, quelli dei due secoli prima di Socrate. Mi è restato un dubbio per Eraclito… L’affermazione del flusso e dell’annientare, che è il carattere decisivo di una filosofia dionisiaca, il sì al contrasto e alla guerra, il divenire, con rifiuto radicale perfino del concetto di «essere» – … La dottrina dell’«eterno ritorno», cioè della circolazione incondizionata e infinitamente ripetuta di tutte le cose – questa dottrina di Zarathustra potrebbe essere già stata insegnata da Eraclito.


 Infine troviamo il concetto di «ciclo» anche in Seneca (Epistulae, 36), come consolazione della morte:

11. Aequo animo debet rediturus exire. Observa orbem rerum in se remeantium: videbis nihil in hoc mundo exstingui sed vicibus descendere ac surgere. 
«11. Con tranquillità deve uscire dalla vita chi è destinato a ritornare. Osserva il ciclo degli eventi che ritornano in se stessi: vedrai che niente in questo mondo si estingue ma a turni tramonta e sorge».

 

 1 Anche secondo Sallustio (Cat., 2) la prima forma di governo che gli uomini si danno è quella monarchica: Igitur initio reges – nam in terris nomen imperi id primum fuit – divorsi pars ingenium, alii corpus exercebant: etiam tum vita hominum sine cupiditate agitabatur; sua cuique satis placebant. 2 Postea vero quam in Asia Cyrus, in Graecia Lacedaemonii et Athenienses coepere urbis atque nationes subigere, lubidinem dominandi causam belli habere, maxumam gloriam in maxumo imperio putare, tum demum periculo atque negotiis compertum est in bello plurumum ingenium posse. 3 Quod si regum atque imperatorum animi virtus in pace ita ut in bello valeret, aequabilius atque constantius sese res humanae haberent neque aliud alio ferri neque mutari ac misceri omnia cerneres. 4 Nam imperium facile iis artibus retinetur, quibus initio partum est, «Dunque all’inizio i re – giacché tale fu il primo nome del potere sulle terre – diversamente uno dall’altro esercitavano una parte l’ingegno, altri il corpo: inoltre allora la vita degli uomini si svolgeva senza brama; ciascuno si accontentava delle proprie cose. 2. Ma dopo che in Asia Ciro, in Grecia Lacedemoni e Ateniesi cominciarono a sottomettere città e popoli, a considerare il desiderio di dominare un motivo di guerra, a ritenere grandissima la gloria in un grandissimo potere, allora infine attraverso il pericolo e le difficoltà si scoprì che in guerra l’ingegno offre le maggiori possibilità di successo. 3. E se la virtù dell’animo di re e generali mantenesse la sua forza in pace così come in guerra, le vicende umane si svolgerebbero con più equilibrio e costanza e non vedresti passare il potere da uno ad un altro né che tutto muta e si confonde. 4 Infatti il potere si mantiene facilmente con quelle qualità dalle quali all’inizio è stato partorito».
 Diversamente la pensa Giambattista Vico, secondo cui alle origini della civiltà la prima forma di governo è quella delle repubbliche aristocratiche e la monarchia giunge alla fine. Cfr. Scienza nuova, Spiegazione della dipintura: «dopo i governi aristocratici, che furono governi eroici, vennero i governi umani, di spezie prima popolari; ne' quali i popoli, perché avevano già finalmente inteso la natura ragionevole (ch'è la vera natura umana) esser uguale in tutti, da sì fatta ugualità naturale [] trassero gli eroi, tratto tratto, all'egualità civile nelle repubbliche popolari [] Ma finalmente, non potendo i popoli liberi mantenersi in civile egualità con le leggi per le fazioni de' potenti, e andando a perdersi con le guerre civili, avvenne naturalmente che, per esser salvi, con una legge regia naturale la qual si truova comune a tutti i popoli di tutti i tempi in tali Stati popolari corrotti [], con tal legge o più tosto costume naturale delle genti umane, vanno a ripararsi sotto le monarchie, ch'è l'altra spezie degli umani governi. Talché queste due forme ultime de' governi, che sono umani, nella presente umanità si scambiano vicendevolmente tra loro; ma niuna delle due passano per natura in istati aristocratici, ch'i soli nobili vi comandino e tutti gli altri vi ubbidiscano; onde son oggi rimaste al mondo tanto rade le repubbliche de' nobili: in Germania, Norimberga; in Dalmazia, Ragugia; in Italia, Vinegia, Genova e Lucca. Perché queste sono le tre spezie degli Stati che la divina provvedenza, con essi naturali costumi delle nazioni, ha fatto nascere al mondo, e con quest'ordine naturale succedono l'una all'altra; perché altre per provvedenza umana di queste tre mescolate, perché essa natura delle nazioni non le sopporta, da Tacito [] son diffinite che «sono più da lodarsi che da potersi mai conseguire, e, se per sorta ve n'hanno, non sono punto durevoli». Per la qual discoverta si dànno altri princìpi alla dottrina politica, non sol diversi ma affatto contrari a quelli che se ne sono immaginati finora».

 2 Cfr. le analoghe profssioni di imparzialità di Tacito: neque amore et sine odio, «né con amore e senza odio» (Historie, I, 1) e sine ira et studio, «senza ira senza passione» (Annales, I, 1).

 3 Analoga concezione si trova in Sallustio che, in entrambe le sue monografie, insiste sulla fuzione positiva del metus hostilis, «la paura del nemico». Vediamo prima il De Catilinae coniuratione: Igitur domi militiaeque boni mores colebantur; concordia maxuma, minuma avaritia erat; ius bonumque apud eos non legibus magis quam natura valebat, «Dunque sia in pace sia in guerra venivano praticati i buoni costumi; massima era la concordia, minima lavidità; il diritto e lonestà erano in auge non più per le leggi che per disposizione naturale» (9, 1); sta parlando delle origini, poi aggiunge: Sed ubi labore atque iustitia res publica crevit, reges magni bello domiti, nationes ferae et populi ingentes vi subacti, Carthago, aemula imperi Romani, ab stirpe interiit, cuncta maria terraeque patebant, saevire fortuna ac miscere omnia coepit. 2 Qui labores, pericula, dubias atque asperas res facile toleraverant, iis otium divitiaeque optanda alias, oneri miseriaeque fuere, «Ma quando lo stato grazie alla fatica e alla giustizia crebbe, grandi re fu domati in guerra, genti feroci e popoli grandi furono sottomessi con la violenza, Cartagine, rivale dell’impero, fu totalmente estirpata, tutti i mari e le terre si aprivano, la sorte cominciò a incrudelire e a rimescolare tutto. Coloro che avevano sopportato fatiche, pericoli situazioni incerte e aspre con facilità, per questi l’ozio e la ricchezza, cose desiderabili in altre circostanza, furono un grave motivo di sventura» (10, 1-2). Il medesimo argomento si trova anche in Bellum Iugurthinum, 41: Ceterum mos partium et factionum ac deinde omnium malarum artium paucis ante annis Romae ortus est otio atque abundantia earum rerum, quae prima mortales ducunt. Nam ante Carthaginem deletam populus et senatus Romanus placide modesteque inter se rem publicam tractabant, neque gloriae neque dominationis certamen inter civis erat: metus hostilis in bonis artibus civitatem retinebat. Sed ubi illa formido mentibus decessit, scilicet ea, quae res secundae amant, lascivia atque superbia incessere. Ita quod in adversis rebus optaverant otium, postquam adepti sunt, asperius acerbiusque fuit, «Del resto il costume dei partiti e delle fazioni e poi di tutte le cattive pratiche nacque a Roma pochi anni prima a causa dell’ozio e dell’abbondanza di quelle cose che i mortali considerano di primaria importanza. Infatti prima della distruzione di Cartagine il popolo e il senato romano affrontavano tra loro la politica con pacatezza e misura, né tra i cittadini c’era competizione per la gloria e il dominio: la paura del nemico tratteneva i cittadini nei buoni costumi. Ma quando quel timore si allontanò dalle menti, evidentemente quei vizi che la prosperità ama, dissolutezza e suberbia, si fecero avanti. Così quell’ozio che nelle avversitàavevano desiderato, dopo averlo ottenuto, fu particolarmente aspro e penetrante».

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