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Il re spartano Archidamo, parlando, alla vigilia della guerra del Peloponneso, all’assemblea dei Peloponnesiaci, invita a confidare nella propria disciplina (Tucidide, I, 84, 4): πολύ τε διαφέρειν οὐ δεῖ νομίζειν ἄνθρωπον ἀνθρώπου, κράτιστον δὲ εἶναι ὅστις ἐν τοῖς ἀναγκαιοτάτοις παιδεύεται, «non si deve ritenere che un uomo sia molto diverso da un altro uomo, ma che il più forte sia colui che è educato nelle più grandi costrizioni».
Petronio, all’inizio del Satyricon, attraverso le parole del maestro Agamennone, attribuisce la responsabilità della decadenza dell’eloquenza alla mancanza di disciplina (4):
Parentes obiurgatione digni sunt, qui nolunt liberos suos severa lege proficere. Primum enim sic ut omnia, spes quoque suas ambitioni donant. Deinde cum ad vota properant, cruda adhuc studia in forum impellunt, et eloquentiam, qua nihil esse maius confitentur, pueris induunt adhuc nascentibus. Quod si paterentur laborum gradus fieri, ut studiosi iuvenes lectione severa irrigarentur, ut sapientiae praeceptis animos componerent, ut verba atroci stilo effoderent, ut quod vellent imitari diu audirent, <ut persuaderent> sibi nihil esse magnificum quod pueris placeret: iam illa grandis oratio haberet maiestatis suae pondus.
«Sono meritevoli di rimprovero i genitori, che non vogliono che i propri figli progrediscano con dura disciplina. Innanzitutto infatti così come tutte le cose, donano all’ambizione anche le proprie speranze. Poi, quando si affrettano ai desideri, spingono nel foro talenti ancora acerbi, e fanno indossare a fanciulli che stanno ancora nascendo, l’eloquenza, di cui dichiarano che nulla è più grande. E se lasciassero che l’impegno fosse graduale, così che i giovani studiosi fossero irrigati da serie letture, che ordinassero gli animi con i precetti della sapienza, che scavassero le parole con penna implacabile, che ascoltassero a lungo ciò che vogliono imitare, che si persuadessero che niente che piaccia ai fanciulli è magnifico: allora quella grande orazione avrebbe il peso della sua maestà».
Quintiliano (Institutio oratoria, II, 6-8) lamenta più che l’ambizione dei genitori l’eccessiva indulgenza:
Vtinam liberorum nostrorum mores non ipsi perderemus! Infantiam statim deliciis solvimus. Mollis illa educatio, quam indulgentiam vocamus, nervos omnis mentis et corporis frangit. Quid non adultus concupiscet qui in purpuris repit? Nondum prima verba exprimit, iam coccum intellegit, iam conchylium poscit. VII. Ante palatum eorum quam os instituimus. In lecticis crescunt: si terram attigerunt, e manibus utrimque sustinentium pendent. Gaudemus si quid licentius dixerint: verba ne Alexandrinis quidem permittenda deliciis risu et osculo excipimus. Nec mirum: nos docuimus, ex nobis audierunt; VIII. nostras amicas, nostros concubinos vident; omne convivium obscenis canticis strepit, pudenda dictu spectantur. Fit ex his consuetudo, inde natura. Discunt haec miseri antequam sciant vitia esse: inde soluti ac fluentes non accipiunt ex scholis mala ista, sed in scholas adferunt.
«Magari non fossimo noi a rovinare i costumi dei nostri figli! Dissolviamo l’infanzia fin da subito nei piaceri. Quella molle educazione che chiamiamo indulgenza, spezza tutte le energie della mente e del corpo. Che cosa non desidererà da adulto chi striscia nella porpora? Non pronuncia ancora le prime parole, già capisce coccum, già chiede l’ostrica. 7. Istruiamo prima il loro palato che la bocca. Crescono nelle lettighe: se hanno toccato la terra, pendono dalle meni di chi li sostiene da entrambi i lati. Godiamo se dicono qualcosa di particolarmente licenzioso: accogliamo con un sorriso e un bacio parole che non devono essere permesse nemmeno ad amori alessandrini. E non c’è da meravigliarsi: non gliele abbiamo insegnate, da noi le hanno ascoltate; 8. vedono le nostre amanti, i nostri concubini; ogni banchetto strepita di canti osceni, si guardano cose di cui vergognarsi anche solo a parlare. Da questi comportamenti si forma l’abitudine, quindi l’indole. Imparano queste cose, infelici, prima di sapere che sono vizi: quindi, sfrenati e snervati, non ricevono dalle scuole questi mali, ma li portano nelle scuole».
Già Seneca commentava ironicamente la corruzione di Roma nel De beneficiis (III, 16): Numquid iam ullus adulterii pudor est, postquam eo uentum est, ut nulla uirum habeat, nisi ut adulterum inritet? Argumentum est deformitatis pudicitia, «forse c’è ancora qualche pudore per l’adulterio, da quando si è giunti al punto che nessuna ha un marito, se non per ingelosire l’amante? la pudicizia è un indizio di bruttezza».
Torniamo alla disciplina, la quale è uno dei valori celebrati da Tito Livio. L’episodio si trova nel libro VIII, 7. Tito Manlio Torquato (omonimo del figlio), console durante la guerra contro i Latini (340-338 a.C.) condannò a morte il figlio che aveva osato combattere contro il suo ordine, di capo e di padre, dopo averlo accusato in questo modo:
‘quandoque’ inquit, ‘tu, T. Manli, neque imperium consulare neque maiestatem patriam veritus, adversus edictum nostrum extra ordinem in hostem pugnasti et, quantum in te fuit, disciplinam militarem, qua stetit ad hanc diem Romana res, solvisti meque in eam necessitatem adduxisti, ut aut rei publicae mihi aut mei [meorum] obliviscendum sit, nos potius nostro delicto plectemur quam res publica tanto suo damno nostra peccata luat; triste exemplum sed in posterum salubre iuventuti erimus. Me quidem cum ingenita caritas liberum tum specimen istud virtutis deceptum vana imagine decoris in te movet; sed cum aut morte tua sancienda sint consulum imperia aut impunitate in perpetuum abroganda, nec te quidem, si quid in te nostri sanguinis est, recusare censeam, quin disciplinam militarem culpa tua prolapsam poena restituas – i, lictor, deliga ad palum’.
«Dal momento che tu, disse, Tito Manlio, non rispettando né il comando del console né l’autorità del padre, combattesti contro il nemico contravvenendo a un nostro ordine fuori dallo schieramento e, per quanto fu in te, hai dissolto la disciplina militare, sulla quale si basò fino ad ora la potenza romana, e hai posto me nella necessità di dovermi dimenticare o della Repubblica o di me stesso, espiamo noi il nostro delitto piuttosto che sia la Repubblica a pagare con così grave danno le nostre colpe; saremo un esempio triste ma salutare per i giovani in futuro. Certo mi dispone a tuo favore non soltanto l’innato affetto per i figli, ma anche questa prova di valore, mascherata dietro un falso miraggio di gloria; ma siccome i comandi del console devono o essere resi inviolabili con la tua morte o aboliti per sempre con l’impunità, penso che non vorrai rifiutarti, se c’è in te un po’ del nostro sangue, di ristabilire con la tua punizione la disciplina militare rilassata per colpa tua – va’, littore, legalo al palo!».
Se da un lato viene messa in rilievo l’importanza della disciplina, dall’altro viene segnalata anche la necessità del riposo e del gioco.
Cosi Seneca (Epistole, II, 15, 6):
Neque ego te iubeo semper imminere libro aut pugillaribus: dandum est aliquod intervallum animo, ita tamen ut non resolvatur, sed remittatur.
«6. Né io ti ordino di stare sempre sopra a un libro o a delle tavolette: si deve concedere un qualche intervallo all’animo, tuttavia non così che si snervi, ma che si rimetta in forze».
Un cencetto identico si trova in Seneca, De tranquillitate animi, XVII, 5:
Danda est animis remissio: meliores acrioresque requieti surgent. Vt fertilibus agris non est imperandum (cito enim illos exhauriet numquam intermissa fecunditas), ita animorum impetus assiduus labor franget; uires recipient paulum resoluti et remissi. Nascitur ex assiduitate laborum animorum hebetatio quaedam et languor,
«Si deve concedere agli animi distensione; rinasceranno migliori e più acuti una volta riposati. Come non bisogna dare ordini ai campi fertili (presto infatti li esaurirà una fecondità mai interrotta), così la fatica continua spezzerà gli slanci degli animi; recupereranno le forze un poco rilassati e distesi. Nasce dall’assiduità delle fatiche un certo stordimento e stanchezza degli animi».
Similmente anche Quintiliano, Institutio, I, 8-12:
Danda est tamen omnibus aliqua remissio, non solum quia nulla res est quae perferre possit continuum laborem, atque ea quoque quae sensu et animā carent ut servare vim suam possint velut quiete alternā retenduntur, sed quod studium discendi voluntate, quae cogi non potest, constat. Itaque et virium plus adferunt ad discendum renovati ac recentes et acriorem animum, qui fere necessitatibus repugnat. Nec me offenderit lusus in pueris (est et hoc signum alacritatis), neque illum tristem semperque demissum sperare possim erectae circa studia mentis fore, cum in hoc quoque maxime naturali aetatibus illis impetu iaceat. Modus tamen sit remissionibus, ne aut odium studiorum faciant negatae aut otii consuetudinem nimiae. Sunt etiam nonnulli acuendis puerorum ingeniis non inutiles lusus, cum positis invicem cuiusque generis quaestiunculis aemulantur. Mores quoque se inter ludendum simplicius detegunt,
«Bisogna dare comunque a tutti un po’ di distensione, non solo perché non c’è nessuna cosa che possa sostenere una fatica continua, e anche quelle cose che sono prive di sensibilità e anima, per conservare la propria forza si rilassano con una quiete per così dire alternata, ma poiché lo studio è fatto di volontà di imparare, che non può essere costretta (N.d.R.: cfr. Seneca, Epistulae, X, 81, 13: velle non discitur, «il volere non si impara»). E così apportano sia più forze all’apprendimento rinnovati e freschi sia un animo più acuto, che in genere si oppone alle costrizioni. Né mi può offendere il gioco nei bambini (anche questo è un segno di vivacità), né potrei sperare che quello triste e sempre depresso sarà di mente intenta allo studio, dato che si intorpidisce anche in questo slancio massimamente naturale in quelle età. Ci sia tuttavia un misura per le distensioni, affinché non producano o odio per gli studi se negate o abitudine all’zio se troppe. Ci sono anche alcuni non inutili giochi per acuire le intelligenze dei bambini, quando gareggiano ponendosi a vicenda domandine di qualsiasi genere. I caratteri anche si scoprono più schiettamente in mezzo al gioco».
Sul valore assoluto dell’educazione cfr. Platone, Gorgia, 470e:
οὐ γὰρ οἶδα παιδείας ὅπως ἔχει καὶ δικαιοσύνης,
«non so infatti come sta quanto a educazione e a giustizia».
È quanto risponde Socrate a Polo, suo interlocutore, il quale osserva che molti pur commettendo ingiustizia sono felici e a dimostrazione di ciò cita prima il re di Macedonia Archelao poi il Gran Re, dei quali però Socrate non si sente di affermare se sono felici perché non li conosce.
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