Euripide, Baccanti: 1° stasimo – traduzione e commento – maturità 2025

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Primo stasimo – vv. 370-431

Si presenta come un commento lirico all’episodio precedente in due coppie strofiche. Le strofi sono direttamente collegate al contesto drammatico: στρ. α denuncia la ὕβρις che Penteo ha appena mostrato e contro di essa si appella allo spirito di Santità (Ὁσία); στρ. β esprime il πόθος, il desiderio inappagato del Coro di fuggire in terre dove i suoi riti non siano banditi come accade a Tebe. Le antistrofi distolgono lo sguardo dalla situazione immediata per illustrare il conflitto di fondo in termini più generali, per mezzo di una serie di γνῶμαι: la lotta tra penteo e il nuovo dio diventa il modello di tutte le lotte tra l’arrogante “ingegnosità” (Dodds usa cleverness) degli intellettuali atei e l’istintivo sentimento religioso della gente. La medesima struttura – strofe drammatica e antistrofe universalizzante – si trova nel terzo stasimo (862 sqq.) e nel quarto (977 sqq.), sebbene in altri cori euripidei il pensiero muova più spesso dall’universale al particolare, come per esempio in Medea, 410 sqq. (il primo stasimo): ἄνω ποταμῶν ἱερῶν χωροῦσι παγαί, / καὶ δίκα καὶ πάντα πάλιν στρέφεται. / ἀνδράσι μὲν δόλιαι βουλαί, θεῶν δ’ / οὐκέτι πίστις ἄραρε· / τὰν δ’ ἐμὰν εὔκλειαν ἔχειν βιοτὰν στρέψουσι φᾶμαι· / ἔρχεται τιμὰ γυναικείῳ γένει· / οὐκέτι δυσκέλαδος φάμα γυναῖκας ἕξει. // μοῦσαι δὲ παλαιγενέων λήξουσ’ ἀοιδῶν / τὰν ἐμὰν ὑμνεῦσαι ἀπιστοσύναν. / οὐ γὰρ ἐν ἁμετέρᾳ γνώμᾳ λύρας / ὤπασε θέσπιν ἀοιδὰν / Φοῖβος, ἁγήτωρ μελέων· ἐπεὶ ἀντάχησ’ ἂν ὕμνον / ἀρσένων γέννᾳ. μακρὸς δ’ αἰὼν ἔχει / πολλὰ μὲν ἁμετέραν ἀνδρῶν τε μοῖραν εἰπεῖν, «In alto scorrono le sorgenti dei sacri fiumi, / e giustizia e tutte le cose si torcono a rovescio; / agli uomini appartengono i consigli fraudolenti, e degli dèi / non è più salda la fede. / La fama stravolgerà la mia vita così da avere gloria; / giunge onore alla genere femminile; / non più una infamante reputazione avrà le donne. // Le Muse degli antichi cantori cesseranno / di inneggiare alla mia infedeltà. / Infatti nel nostro spirito non / accordò suono ispirato di lira / Febo signore dei canti; poiché avrei levato un inno di risposta / al genere maschile. Una lunga età ha / molte cose da dire sul destino nostro e degli uomini»; dopo questi pensieri di carattere generale il coro passa a considerare la situazione particolare di Medea.

Le idee portanti della scena tra Cadmo e Tiresia accolte nel canto e viene loro data espressione emotiva. Prendendo lo spunto dalla ῥῆσις di Tiresia e dimenticando la parte orientale della propria natura il Coro celebra questa volta non il misterioso dio dell’estasi ma il Dioniso che il δῆμος ateniese conosceva, il geniale dio del vino delle feste attiche: i versi 376-385 esprimono liricamente ciò che Tiresia nei versi 272-285 aveva già espresso teologicamente e la stanza conclusiva ritorna su questo tema , presentando la vita religiosa come vita di pietà, gioia e umiltà. La parola chiave è εὐφροσύνη (377), la letizia che è anche buon senso (cfr. εὖ φρονοῦμεν, «abbiamo senno» del v. 196); si contrappone alla ἀφροσύνη, «stoltezza» di uomini come Penteo (387), e il concetto è riassunto in εὐαίωνα, «felice» (v. 426). Opposto a questo atteggiamento “eudemonistico” è quello dei μαινόμενοι καὶ κακόβουλοι φῶτες, «le persone folli e sconsiderate (vv. 399-401), che sono denunciati per lo più negli stessi termini che il vecchio indovino ha applicato a Penteo: questo aveva una εὔτροχονς γλῶσσα, «lingua svelta» (268), quelli hanno ἀχάλινα στόματα, «bocche senza freno» (386); egli era θύραζε τῶν νόμων, «fuori dalle norme» (331), essi sono ἄνομοι, «senza legge» (387); egli era pieno di falsa saggezza (311-312 μηδ', ἢν δοκῇς μέν, ἡ δὲ δόξα σου νοσῇ, / φρονεῖν δόκει τι, «e non credere che, se hai un’opinione, ma è un’opinione malata, / di avere una qualche intelligenza»; 322 νῦν γὰρ πέτῃ τε καὶ φρονῶν οὐδὲν φρονεῖς, «ora infatti voli a vuoto e pur essendo dotato di ragione non ragioni») e così sono questi (395 τὸ σοφὸν δ' οὐ σοφία, «il sapere non è sapienza»).

Si potrebbe essere tentati di andare più a fondo e scovare in certe frasi di questo canto la voce personale di Euripide stesso: vedi ai vv. 389-390, 402-416, 424-426, 430-433. Ma mentre ci sono temi qui che sembrano aver avuto un significato speciale per il poeta nei suoi ultimi anni, c’è poco o nulla che con la sua irrilevanza drammatica ci induca a guardare a ciò come al suo personale pensiero. E bisognerebbe ricordare che i cori di Euripide di solito esprimono uno stato d’animo più che una convinzione.


[στρ. α

Χο. 1

Ὁσία πότνα θεῶν, 370

Ὁσία δ' ἃ κατὰ γᾶν

χρυσέαν πτέρυγα φέρεις,

τάδε Πενθέως ἀίεις;

ἀίεις οὐχ ὁσίαν

ὕβριν ἐς τὸν Βρόμιον, τὸν 375

Σεμέλας, τὸν παρὰ καλλι-

στεφάνοις εὐφροσύναις δαί-

μονα πρῶτον μακάρων; ὃς τάδ' ἔχει,

θιασεύειν τε χοροῖς

μετά τ' αὐλοῦ γελάσαι 380

ἀποπαῦσαί τε μερίμνας,

ὁπόταν βότρυος ἔλθῃ

γάνος ἐν δαιτὶ θεῶν, κισ-

σοφόροις δ' ἐν θαλίαις ἀν-

δράσι κρατὴρ ὕπνον ἀμφιβάλλῃ. 385

[ἀντ. α

ἀχαλίνων στομάτων2

ἀνόμου τ' ἀφροσύνας

τὸ τέλος δυστυχία·

ὁ δὲ τᾶς ἡσυχίας

βίοτος καὶ τὸ φρονεῖν 390

ἀσάλευτόν τε μένει καὶ

ξυνέχει δώματα· πόρσω

γὰρ ὅμως αἰθέρα ναίον-

τες ὁρῶσιν τὰ βροτῶν οὐρανίδαι.

τὸ σοφὸν δ' οὐ σοφία,3 395

τό τε μὴ θνατὰ φρονεῖν.

βραχὺς αἰών· ἐπὶ τούτῳ

δὲ τις ἂν μεγάλα διώκων

τὰ παρόντ' οὐχὶ φέροι. μαι-

νομένων οἵδε τρόποι καὶ 400

κακοβούλων παρ' ἔμοιγε φωτῶν.


[στρ. β

ἱκοίμαν ποτὶ Κύπρον,4

νᾶσον τᾶς Ἀφροδίτας,

ἵν' οἱ θελξίφρονες νέμον-

ται θνατοῖσιν Ἔρωτες 405

Πάφον, τὰν ἑκατόστομοι

βαρβάρου ποταμοῦ ῥοαὶ

καρπίζουσιν ἄνομβροι,

οὗ θ' ἁ καλλιστευομένα5

Πιερία, μούσειος ἕδρα, 410

σεμνὰ κλειτὺς Ὀλύμπου·

ἐκεῖσ' ἄγε με, Βρόμιε Βρόμιε,

πρόβακχ' εὔιε δαῖμον.

ἐκεῖ Χάριτες, ἐκεῖ δὲ Πόθος, ἐκεῖ δὲ βάκ- 415

χαις θέμις ὀργιάζειν.


[ἀντ. β

ὁ δαίμων ὁ Διὸς παῖς6

χαίρει μὲν θαλίαισιν,

φιλεῖ δ' ὀλβοδότειραν Εἰ-

ρήναν, κουροτρόφον θεάν. 420

ἴσαν δ' ἔς τε τὸν ὄλβιον

τόν τε χείρονα δῶκ' ἔχειν

οἴνου τέρψιν ἄλυπον·

μισεῖ δ' ᾧ μὴ ταῦτα μέλει,

κατὰ φάος νύκτας τε φίλας 425

εὐαίωνα διαζῆν,

σοφὰν δ' ἀπέχειν πραπίδα φρένα τε7

περισσῶν παρὰ φωτῶν.

τὸ πλῆθος ὅτι τὸ φαυλότερον ἐνόμισε χρῆ- 8 430

ταί τε, τόδ' ἂν δεχοίμαν.9


La teoria della classe media

Tale teoria, che attribuisce il primato morale a quello che oggi chiamiamo “ceto medio”, si trova espressa compiutamente nelle Supplici, 238-45:

τρεῖς γὰρ πολιτῶν μερίδες: οἳ μὲν ὄλβιοι

ἀνωφελεῖς τε πλειόνων τ᾽ ἐρῶσ᾽ ἀεί:

οἳ δ᾽ οὐκ ἔχοντες καὶ σπανίζοντες βίου

δεινοί, νέμοντες τῷ φθόνῳ πλέον μέρος,

ἐς τοὺς ἔχοντας κέντρ᾽ ἀφιᾶσιν κακά,

γλώσσαις πονηρῶν προστατῶν φηλούμενοι:

τριῶν δὲ μοιρῶν ἡ 'ν μέσῳ σῴζει πόλεις,

κόσμον φυλάσσουσ᾽ ὅντιν᾽ ἂν τάξῃ πόλις.

«Tre infatti sono le classi di cittadini: i ricchi sono / inutili e bramano sempre di più; / quelli che non hanno nulla e mancano di mezzi di sussistenza / sono temibili: attribuendo troppa parte all’invidia, / lanciano strali cattivi contro i possidenti, / tratti in inganno dalle lingue di capi malvagi; / delle tre classi quella che sta in mezzo salva le città, / preservando l’ordine che la città disponga».

Tale orientamento politico trova un’eco ironica nell’aristocratico Aristofane (Rane, 947-950), che fa dire al personaggio Euripide:

ἔπειτ᾽ ἀπὸ τῶν πρώτων ἐπῶν οὐδὲνα παρῆκ᾽ ἂν ἀργόν,

ἀλλ᾽ ἔλεγεν ἡ γυνή τέ μοι χὠ δοῦλος οὐδὲν ἧττον,

χὠ δεσπότης χἠ παρθένος χἠ γραῦς ἄν.

δημοκρατικὸν γὰρ αὔτ᾽ ἔδρων.

poi fin dalla prime parole non lasciavo nessuno inattivo, / ma parlava la donna per me non meno dello schiavo / e il padrone e la ragazza e la vecchia. / infatti facevo questo democraticamente».

Ad Aristofane si ispira Nietzsche nella sua invettiva contro “l’empio Euripide” (La nascita della tragedia, cap. 11):

Lo spettatore fu portato da Euripide sulla scena [...] Per opera sua luomo della vita quotidiana si spinse, dalla parte riservata agli spettatori, sulla scena; lo specchio, in cui prima venivano riflessi solo i tratti grandi e arditi, mostrò ora quella meticolosa fedeltà che riproduce coscienziosamente anche le linee non riuscite della natura. Odisseo, il tipico Greco dellarte antica, si abbassò ora [...] nella figura del greculo, che in seguito rimase [...] come schiavo domestico bonario e scaltro [...] Euripide si ascrive a merito nelle Rane di Aristofane di aver liberato coi suoi rimedi casalinghi larte tragica dalla sua pomposa corpulenza [...] lo spettatore vedeva e sentiva ora sulla scena euripidea il suo sosia, e si rallegrava che quello sapesse parlare tanto bene [...] con Euripide gli spettatori imparavano essi stessi a parlare, e di ciò Euripide stesso si vanta nella gara con Eschilo [...] Da allora in poi non fu più un segreto in che modo e con quali sentenze la vita quotidiana si potesse rappresentare sulla scena. Prendeva ora a parlare la mediocrità cittadina, su cui Euripide fondava tutte le sue speranze politiche.

A tale interpretazione spregiativa possiamo contrapporre quella di Gilbert Murray (Euripides and His Age, pp. 194-195):

Like other ideal democrats he turned away from the actual Demos, which surrounded him and howled him down, to a Demos of his imagination, pure and uncorrupted, in which the heart of the natural man should speak. His later plays break out more than once into praises of the unspoiled countryman, neither rich nor poor, who works with his own arm and whose home is the solemn mountain not the city streets (cf. especially Orestes, 917-922, as contrasted with 903 ff.; also the Peasant in the Electra; also Bac., 717).

«Come altri democratici idealisti, Euripide si scostò dal Demos reale, che lo copriva di contumelie, per rifugiarsi nel puro e incorruttibile Demos della sua immaginazione, in cui veramente poteva parlare il cuore dell’uomo della natura. Più d’una volta, nelle sue ultime opere, prorompe l’elogio del contadino non guasto, né povero né ricco, che lavora colle sue braccia e ha casa «sulla montagna solenne» invece che nella strada della città (cfr. specialmente Oreste, 917-922, in contrasto con 903 e segg.; e anche il contadino dell’Elettra e le Baccanti, 717)»10.

Vediamo l’Elettra, vv. 367-376:

οὐκ ἔστ’ ἀκριβὲς οὐδὲν εἰς εὐανδρίαν·

ἔχουσι γὰρ ταραγμὸν αἱ φύσεις βροτῶν.

«Non c’è nulla di preciso in rapporto al valore di un uomo: / sono confuse infatti le nature dei mortali».

ἤδη γὰρ εἶδον ἄνδρα γενναίου πατρὸς

τὸ μηδὲν ὄντα, χρηστά τ’ ἐκ κακῶν τέκνα,

λιμόν τ’ ἐν ἀνδρὸς πλουσίου φρονήματι,

γνώμην τε μεγάλην ἐν πένητι σώματι.

«Ho già visto infatti un uomo di padre nobile / che non vale nulla, e buoni figli nati da infami, / miseria nella boria di un uomo ricco, / grande spirito in un corpo povero».

πῶς οὖν τις αὐτὰ διαλαβὼν ὀρθῶς κρινεῖ;

πλούτῳ; πονηρῷ τἄρα χρήσεται κριτῇ.

ἢ τοῖς ἔχουσι μηδέν; ἀλλ’ ἔχει νόσον

πενία, διδάσκει δ’ ἄνδρα τῇ χρείᾳ κακόν.

«Come dunque uno giudicherà distinguendo correttamente? / In base alla ricchezza? Si avvarrà di un giudice davvero cattivo. / O in base a chi non possiede nulla? Ma ha una malattia / la povertà, insegna all’uomo, col bisogno, il male».

Quindi riferendosi al contadino, dato in marito a Elettra, «uomo povero ma nobile» πένης ἀνὴρ γενναῖος (v. 253), conclude (vv. 386-391):

οἱ γὰρ τοιοῦτοι καὶ πόλεις οἰκοῦσιν εὖ

καὶ δώμαθ’· αἱ δὲ σάρκες αἱ κεναὶ φρενῶν

ἀγάλματ’ ἀγορᾶς εἰσιν. οὐδὲ γὰρ δόρυ

μᾶλλον βραχίων σθεναρὸς ἀσθενοῦς μένει·

ἐν τῇ φύσει δὲ τοῦτο κἀν εὐψυχίᾳ.

«Tali persone infatti amministrano bene sia le città / sia le case: ma le carni vuote di intelligenza / sono statue da piazza. Né infatti sostiene il colpo di una lancia / un braccio forte più di uno debole: / questa virtù si trova nell’indole e in un animo di valore».

In chi Euripide identificasse il rappresentante di questa classe media emerge infine nell’Oreste, vv. 918-920:

μορφῇ μὲν οὐκ εὐωπός, ἀνδρεῖος δ' ἀνήρ,

ὀλιγάκις ἄστυ κἀγορᾶς χραίνων κύκλον,

αὐτουργός, οἵπερ καὶ μόνοι σῴζουσι γῆν,

«uno non dal bel volto nell’aspetto, ma un uomo valoroso, / che di rado entra in contatto con la città e il cerchio della piazza, / un contadino che vive del suo lavoro, e di quelli che soli salvano il paese».

Tale esempio positivo viene contrapposto a quello dei versi precedenti (903-908):

ἀνήρ τις ἀθυρόγλωσσος, ἰσχύων θράσει·

[Ἀργεῖος οὐκ Ἀργεῖος, ἠναγκασμένος,

θορύβῳ τε πίσυνος κἀμαθεῖ παρρησίᾳ,

πιθανὸς ἔτ' αὐτοὺς περιβαλεῖν κακῷ τινι.

ὅταν γὰρ ἡδύς τις λόγοις φρονῶν κακῶς

πείθῃ τὸ πλῆθος, τῇ πόλει κακὸν μέγα·

«un uomo dalla lingua senza freni, forte della sua arroganza; / un Argivo non Argivo, costretto, / uno che confida nella confusione e nella sua ignorante libertà di parola, / persuasivo inoltre nell’avvolgerli in un qualche male. / Qualora uno piacevole nelle parole ma male intenzionato / persuada la massa, per la città è un grande male».

Possiamo vedere qui contrapposte due concezioni di democrazia, una che potremmo definire demagogica (vedi vv. 266-271), avversata da Euripide, e una più idealizzata, delineata nei versi citati sopra.

Nella concezione idealizzata la democrazia si contrappone alla tirannide in quanto rispettosa dell’uguaglianza11, come nelle Fenicie (rappresentata subito dopo il colpo di stato oligarchico del 411); Eteocle, che in questa tragedia rappresenta il tiranno, così si rivolge alla madre (vv. 503-506, 509-510, 523-525):

ἐγὼ γὰρ οὐδέν, μῆτερ, ἀποκρύψας ἐρῶ·

ἄστρων ἂν ἔλθοιμ' ἡλίου†πρὸς ἀντολὰς

καὶ γῆς ἔνερθε, δυνατὸς ὢν δρᾶσαι τάδε,

τὴν θεῶν μεγίστην ὥστ' ἔχειν Τυραννίδα.

«Io infatti, madre, parlerò senza dissimulare alcunché: / io andrei alle sorgenti degli astri e del sole / e dentro la terra, se avessi il potere di farlo, / pur di possedere la più grande delle divinità, la Tirannide».

ἀνανδρία γάρ, τὸ πλέον ὅστις ἀπολέσας

τοὔλασσον ἔλαβε.

«sarebbe viltà infatti per uno perdere il più / e prendere il meno».

ὡς οὐ παρήσω τῶιδ' ἐμὴν τυραννίδα.

εἴπερ γὰρ ἀδικεῖν χρή, τυραννίδος πέρι

κάλλιστον ἀδικεῖν, τἄλλα δ' εὐσεβεῖν χρεών.

«Sicché non consegnerò a costui la mia tirannide. / infatti se proprio è necessario commettere ingiustizia, per la tirannide / è bellissimo commetterla, per il resto si deve essere pii12».

Questa la risposta di Giocasta , che è un inno all’uguaglianza:

τί τῆς κακίστης δαιμόνων ἐφίεσαι

Φιλοτιμίας, παῖ; μὴ σύ γ'· ἄδικος ἡ θεός·

«Perché sei trascinato dalla peggiore delle divinità13, / l’Ambizione, o figlio? Non farlo: è una dea ingiusta» (531-532)

κεῖνο κάλλιον, τέκνον,

Ἰσότητα τιμᾶν,

«Quello è più bello, figlio, / onorare, l’Uguaglianza» (535-536)

τὸ γὰρ ἴσον μόνιμον ἀνθρώποις ἔφυ,

τῷ πλέονι δ' αἰεὶ πολέμιον καθίσταται

τοὔλασσον ἐχθρᾶς θ' ἡμέρας κατάρχεται. 540

καὶ γὰρ μέτρ' ἀνθρώποισι καὶ μέρη σταθμῶν

Ἰσότης ἔταξε κἀριθμὸν διώρισεν,

νυκτός τ' ἀφεγγὲς βλέφαρον ἡλίου τε φῶς

ἴσον βαδίζει τὸν ἐνιαύσιον κύκλον,

κοὐδέτερον αὐτῶν φθόνον ἔχει νικώμενον. 545

εἶθ' ἥλιος μὲν νύξ τε δουλεύει μέτροις,

σὺ δ' οὐκ ἀνέξηι δωμάτων ἔχων ἴσον;

[καὶ τῷδ' ἀπονεῖμαι; κἆιτα ποῦ 'στιν ἡ δίκη;]

τί τὴν τυραννίδ', ἀδικίαν εὐδαίμονα,

τιμᾶις ὑπέρφευ καὶ μέγ' ἥγησαι τόδε; 550

«L’uguale infatti è per natura stabile per gli uomini, / mentre del più è sempre nemico / il meno e dà inizio al giorno dell’odio. / E infatti per gli uomini le misure e le parti di pesi / l’Uguaglianza le stabilì e definì il numero, / l’oscura palpebra della notte e la luce del sole / percorrono uguale il ciclo annuale, / e nessuno dei due prova invidia quando è vinto. / Se allora anche il sole e la notte si sottomettono alla misura, / non accetterai anche tu di avere una parte uguale della casa?14 / e di dare a questo la sua parte? E poi dove è la giustizia? / Perché la tirannide, un’ingiustizia felice15, / onori straordinariamente e pensi che ciò sia grande? (538-550)

τί δ' ἔστι τὸ πλέον; ὄνομ' ἔχει μόνον·

ἐπεὶ τά γ' ἀρκοῦνθ' ἱκανὰ τοῖς γε σώφροσιν.

[οὔτοι τὰ χρήματ' ἴδια κέκτηνται βροτοί, 555

τὰ τῶν θεῶν δ' ἔχοντες ἐπιμελούμεθα·

ὅταν δὲ χρῃζωσ' αὔτ' ἀφαιροῦνται πάλιν·

ὁ δ' ὄλβος οὐ βέβαιος ἀλλ' ἐφήμερος.]

«Ma cosa è il più? Ha solo un nome; / giacché ciò che basta è sufficiente per gli assennati. / Di certo i mortali non hanno beni propri in loro possesso, / ma ci prendiamo cura di cose che appartengono agli dèi: / quando vogliono se le riprendono indietro16; la prosperità non è salda, ma dura un giorno»(553-558).

1 370-385: «Santità signora degli dèi, / Santità, che per la terra / porti l’ala d’oro, / senti queste parole di Penteo? / Senti il non santo / oltraggio a Bromio, il figlio / di Semele, che alle allegre / feste coronate di fiori / è la prima divinità tra i beati? E questo è ciò che gli appartiene: / partecipare alle danze del tiaso / e ridere insieme al flauto / e far cessare gli affanni, / quando giunga la gioia / del grappolo nel banchetto degli dèi, / e nelle feste coronate di edera / il cratere avvolga gli uomini nel sonno».

Ὁσία o ὁσιότης si può definire come lo scrupolo, specialmente nelle questioni religiose, che mantiene un uomo dentro i limiti di ciò che è permesso (ὅσιον), come emerge in Platone, Gorgia, 507b περὶ μὲν ἀνθρώπους τὰ προσήκοντα πράττων δίκαι' ἂν πράττοι, περὶ δὲ θεοὺς ὅσια, «chi compisse i propri doveri nei confronti degli uomini agirebbe giustamente, nei confronti degli dèi santamente». In questo senso è in contrapposizione a οὐχ ὅσια ὕβρις del v. 375. Abbiamo detto che Penteo è descritto come il tipico tiranno della tragedia, il cui tratto principale è appunto la ὕβρις, in primis contro gli dèi, come dice il coro dell’Edipo re di Sofocle (vv. 873-882): ὕβρις φυτεύει τύραννον: ὕβρις, εἰ / πολλῶν ὑπερπλησθῇ μάταν, / ἃ μὴ 'πίκαιρα μηδὲ συμφέροντα, / ἀκρότατον εἰσαναβᾶσ᾽ / ἀπότομον ὤρουσεν εἰς ἀνάγκαν, / ἔνθ᾽ οὐ ποδὶ χρησίμῳ / χρῆται. τὸ καλῶς δ᾽ ἔχον / πόλει πάλαισμα μήποτε λῦ- / σαι θεὸν αἰτοῦμαι. / θεὸν οὐ λήξω ποτὲ προστάταν ἴσχων, «la prepotenza genera il tiranno, la prepotenza, se / si è riempita invano di molti orpelli, / che non sono opportuni e non convengono / salita su altissimi fastigi / precipita nella necessità scoscesa / dove non si avvale di valido piede. / la gara benefica / per la città / prego il dio di non dissolverla mai. / Non cesserò mai di avere il dio come patrono». ἀνδράσι: principalmente in contrapposizione a θεῶν: ma in aggiunta qui il coro dà una risposta alle accuse di Penteo per cui i riti delle donne erano accompagnai da ebbrezza. ἔλθῃ: congiuntivo aoristo di ἔρχομαι.

2 386-401: «Di bocche senza freno / e stoltezza senza legge / la fine è sventura; / Invece la vita / della tranquillità e l’essere assennati / rimangono al riparo dai marosi e / e tengono insieme le case; lontano / infatti pur abitando l’etere / comunque vedono le vicende dei mortali i celesti. / Il sapere non è sapienza, / e anche il concepire pensieri non mortali. / Breve la vita; per questo / uno che inseguisse grandi cose / non otterrebbe quelle presenti. Queste / sono le inclinazioni di persone folli / e sconsiderate per quanto mi riguarda».

389-390 – ὁ δὲ τᾶς ἡσυχίας βίοτος: Dioniso è ripetutamente rappresentato come ἥσυχος (435 sqq., 622, 636) in contrapposizione a Penteo, l’eccitabile uomo d’azione (214, 647, 670 sq., 789 sq.). Ma sebbene ἡσυχία sia appropriata per un dio in quanto tale (cfr. Introduzione, cap. III), la religione orgiastica non è, per il nostro modo di pensare, particolarmente ἥσυχον, e si potrebbe essere tentati di individuare un riferimento secondario alla disputa propria di quei tempi di guerra tra pacifismo e inerzia, ἡσυχία e ἀπραγμοσύνη. Euripide sembra fare velate allusioni a questa disputa già nella Medea, messa in scena nel 431, anno dello scoppio della guerra: οἱ δ' ἀφ' ἡσύχου ποδὸς / δύσκλειαν ἐκτήσαντο καὶ ῥαιθυμίαν, «altri ancora per un piede tranquillo / hanno acquisito la cattiva fama di indifferenza» (217-218); χωρὶς γὰρ ἄλλης ἧς ἔχουσιν ἀργίας / φθόνον πρὸς ἀστῶν ἀλφάνουσι δυσμενῆ, «a parte infatti laltro marchio di indolenza che hanno, / si guadagnano linvidia malevola da parte dei concittadini» (si sta parlando dei sapienti, 296-297); μηδείς με φαύλην κἀσθενῆ νομιζέτω / μηδ᾽ ἡσυχαίαν, ἀλλὰ θατέρου τρόπου, / βαρεῖαν ἐχθροῖς καὶ φίλοισιν εὐμενῆ· / τῶν γὰρ τοιούτων εὐκλεέστατος βίος, «nessuno mi consideri vile e debole / e neppure tranquilla, ma di carattere opposto, / dura con i nemici e benvola con gli amici: / di tali persone infatti è gloriosissima la vita» (vv. 807-810). Che egli si stia muovendo in questo passo (che, ricordiamo, è stato scritto tra il 408 e il 407, essendo morto Euripide nell’inverno 407/406 ed essendo giunto in Macedonia nel 408: sono gli ultimi anni della guerra del Peloponneso, quando per Atene si sta mettendo male ma la situazione non è ancora definitivamente compromessa), consapevolmente o no, nel medesimo campo di discussione è suggerito non solo dal riferimento a Εἰρήνη (419-420) ma 186 anche da una comparazione coi versi 1320-1322 degli Uccelli di Aristofane, i quali enumerano le potenze che presiedono Νεφελοκοκκυγία «la terra terra delle nuvole e dei cuculi»: Σοφία, Πόθος, ἀμβρόσιαι Χάριτες /τό τε τῆς ἀγανόφρονος Ἡσυχίας /εὐήμερον πρόσωπον, «Sapienza, Desiderio, Grazie fragranti di divinità / e il volto sereno / dell’amabile Tranquillità». Questi sono gli dèi di chi sfinito dalla guerra sogna la pace, ed è difficilmente attribuibile al caso che ricorrano tutti e quattro nel nostro passo (395 σοφία, 415 Χάριτες e Πόθος, 389 ἡσυχία).

392 – ξυνέχει δώματα: il coro sta presumibilmente pensando alla spaccatura tra Penteo e la sua famiglia dovuta al suo difetto di φρόνησις.

3 395 τὸ σοφὸν δ' οὐ σοφία: è il nucleo centrale della tragedia e il verso più denso; Dodds traduce «cleverness is not wisdom», Murray «the world’s Wise are not wise». Qui ancora una volta il coro fa proprio un pensiero espresso nella scena precedente: τὸ σοφὸν ha le medesime implicazioni del v. 203 (οὐδὲν σοφιζόμεσθα τοῖσι δαίμοσιν. / πατρίους παραδοχάς, ἅς θ' ὁμήλικας χρόνῳ / κεκτήμεθ, οὐδεὶς αὐτὰ καταβαλεῖ λόγος, / οὐδ εἰ δι' ἄκρων τὸ σοφὸν ηὕρηται φρενῶν, «noi non abbiamo nessuna capacità intellettuale in confronto agli dèi. / Le tradizioni patrie, quelle che possediamo della stessa età del tempo, / nessun ragionamento le abbatterà, / neanche se il sapere viene trovato attraverso menti acute»); è la falsa sapienza di uomini come Penteo che φρονῶν οὐδὲν φρονεῖ («pur essendo dotato di ragione non ragiona», 332; cfr. 266 sqq., 311 sq.) in contrapposizione alla vera sapienza di una devota accettazione (179 σοφὴν σοφοῦ παρ' ἀνδρός, 186 σὺ γὰρ σοφός).

Questo genere di paradossi sono il prodotto tipico di un’epoca in cui i valori tradizionali stanno rapidamente cambiando nel modo descritto nel famoso passaggio di Tucidide sulla trasvalutazione dei valori (III, 82): siamo nel 427 e lo storiografo descrive il clima favorito dalla guerra civile a Corcira dove ἐπέπεσε πολλὰ καὶ χαλεπὰ κατὰ στάσιν ταῖς πόλεσι, γιγνόμενα μὲν καὶ αἰεὶ ἐσόμενα, ἕως ἂν ἡ αὐτὴ φύσις ἀνθρώπων ᾖ, «piombarono molte e dure sofferenze sulle città a causa della guerra civile, cose che capitano e sempre capiteranno, finché la natura umana è la medesima» in quanto ὁ δὲ πόλεμος βίαιος διδάσκαλος, «la guerra è maestra di violenza» per gli uomini (2); e uno degli effetti paradossali fu che καὶ τὴν εἰωθυῖαν ἀξίωσιν τῶν ὀνομάτων ἐς τὰ ἔργα ἀντήλλαξαν τῇ δικαιώσει. τόλμα μὲν γὰρ ἀλόγιστος ἀνδρεία φιλέταιρος ἐνομίσθη, μέλλησις δὲ προμηθὴς δειλία εὐπρεπής, τὸ δὲ σῶφρον τοῦ ἀνάνδρου πρόσχημα, καὶ τὸ πρὸς ἅπαν ξυνετὸν ἐπὶ πᾶν ἀργόν, «essi anche il valore abituale delle parole in relazione ai fatti cambiarono, in base al loro arbitrio. L’audacia irrazionale infatti fu considerata coraggio fazioso, il temporeggiare previdente viltà ammantata di decoro, la moderazione un pretesto per coprire la codardia, e l’intelligenza in tutto indolenza in tutto» (3; per quest’ultimo stravolgimento cfr. i versi citati supra della Medea). L’esito di tutto ciò fu che Οὕτω πᾶσα ἰδέα κατέστη κακοτροπίας διὰ τὰς στάσεις τῷ Ἑλληνικῷ, καὶ τὸ εὔηθες, οὗ τὸ γενναῖον πλεῖστον μετέχει, καταγελασθὲν ἠφανίσθη, «Così per il mondo greco a causa delle guerre civili si produsse ogni forma di malizia, e anche la semplicità, di cui la nobiltà per lo più partecipa, derisa svanì» (83, 1).

Per ulteriori approfondimenti vedi il mio articolo τὸ σοφὸν δοὐ σοφία, «il sapere non è sapienza» - un percorso tra tragedia e filosofia.

4 402-416: «Potessi giungere a Cipro, / isola di Afrodite, / dove abitano gli Amori / che incantano le menti ai mortali, / a Pafo, che correnti / dalle cento bocche di barbaro fiume / fecondano senza piogge, / e dove c’è la bellissima / Pieria, sede delle Muse, / veneranda pendice dell?olimpo; / portami là, Bromio Bromio, / dio dell’evoè che guidi le baccanti. / Là le Grazie, là il Desiderio, là / è lecito celebrare l’orgia per le baccanti».

402-416 – La preghiera di evasione è frequente nei cori di Euripide (per esempio Ippolito, 732-751; Elena, 1478-1486), in parte forse perché era un periodo di guerra. A volte tali preghiere hanno anche un po’ di rilevanza drammatica e magari esprimono pure un’aspirazione del poeta; in questo caso si è pensato che fosse espressa la speranza di trovare la pace di Dioniso alla fresca ombra di una corte regale (di Evagora a Cipro o Archelao in Macedonia). Per Dodds è plausibile ma non è necessario: è del tutto naturale che il coro bramasse fuggire dal persecutore in un luogo dove βάκχαις θέμις ὀργιάζειν, «è lecito celebrare lorgia per le baccanti». E la scelta della Pieria è ugualmente naturale (vedi i versi 409-411); ma Cipro cosa c’entra? (a) Cipro rappresenta il limite orientale del mondo greco, così come l’Olimpo (alle pendici del quale si colloca la Pieria) quello settentrionale: siccome Dioniso è un dio che viene dall’est e dal nord, è una cosa naturale che i suoi seguaci guardassero alla regione orientale e a quella settentrionale come luoghi in cui rifugiarsi. (b) In una poesia d’evasione non c’è nessuna controindicazione nel dare ad Afrodite un posto al fianco di Πόθος e delle Χάριτες, Ἡσυχία e Εἰρήνη: cfr. Aristofane, Acarnesi, 989 Ὦ Κύπριδι τῇ καλῇ καὶ Χάρισι ταῖς φίλαις ξύντροφε Διαλλαγή, «o Riconciliazione cresciuta insieme alla bella Cipride e alle amate Grazie» (dove Διαλλαγή = Εἰρήνη). In questo contesto ella è un simbolo non si sensualità ma di felicità e liberazione che deriva da un’allegra e rispettosa accettazione di un impulso naturale. La sua associazione con Dioniso, l’altra grande potenza della natura, è radicata sia nella mentalità popolare sia nell’immaginazione di poeti e artisti ed è espressa in modo efficace nella sua semplicità da Ovidio (Ars, 244): Et Venus in vinis ignis in igne fuit, «E Venere nel vino è fuoco nel fuoco».

402 – ἱκοίμαν: ottativo aoristo di ἱκνέομαι, qui nel suo originario valore desiderativo.

406-408 – Il passo è tuttora un po’ enigmatico. Il fiume barbaro sembra essere indiscutibilmente il Nilo: la combinazione delle molte bocche (ἑκατόν è un’espressione poetica, non aritmetica), dell’acqua fecondatrice, dell’aggettivo βαρβάρου (appropriato per l’Egitto, ma difficilmente per Cipro governata all’epoca dall’amico di Atene Evagora), e dell’aggettivo ἄνομβροι è sicuramente decisiva: per quest’ultimo cfr. Erodoto, II, 22, 3 ἄνομβρος ἡ χώρη, «senza piogge è la regione» (riferendosi alla zona intorno alle sorgenti del Nilo), 25, 5 Ὁ δὲ Νεῖλος, ἐὼν ἄνομβρος, «il Nilo, che è senza piogge», Euripide, Elena, 1-3 Νείλου μὲν αἵδε καλλιπάρθενοι ῥοαί, / ὃς ἀντὶ δίας ψακάδος Αἰγύπτου πέδον / λευκῆς τακείσης χιόνος ὑγραίνει γύας, «Queste correnti dalle belle fanciulle del Nilo, / che al posto della divina pioggia il suolo d’Egitto, / allo sciogliersi della bianca neve bagna e la la terra» e il fr. 228 (dall’Archelao, contemporaneo delle Baccanti) Νείλου , / ὃς ἐκ μελαμβρότοιο πληροῦται ῥοὰς / Αἰθιοπίδος γῆς, ἡνίκ' ἂν τακῇ χιὼν, «del Nilo … , / che riempie le correnti dalla terra /d’Etiopia abitata dai neri, quando si sia sciolta la neve». Più problematico è il fatto che Pafo si trova sulla costa sud-occidentale di Cipro: come fa il Nilo a renderla fertile? Sono state fatte varie ipotesi, ma la questione non è stata risolta.

5 409-411 – La Pieria, l’incantevole regione collinare sul versante settentrionale del massiccio dell’Olimpo, è il tradizionale luogo di nascita delle Muse (Esiodo, Teogonia, 52-54 Μοῦσαι Ὀλυμπιάδες, κοῦραι Διὸς αἰγιόχοιο. / - τὰς ἐν Πιερίῃ Κρονίδῃ τέκε πατρὶ μιγεῖσα / Μνημοσύνη, «Le Muse olimpie, figlie di Zeus egioco. Le partorì nella Pieria essendosi unita al padre Cronide / Mnemosine»; Opere e giorni, 1 Μοῦσαι Πιερίηθεν, «o Muse della Pieria»). Era a Dione in questa che secondo Diodoro (XVII, 16, 3) Archelao, il re Macedone che offrì la sua ospitalità a Euripide, istituì agoni drammatici dedicati a Zeus e alle Muse. È da qui che, basandosi sull’ipotesi che le Baccanti furono scritte per essere presentate a questa festa, questi amabili versi sono stati per lo più intesi come un complimento pieno grazia del grande poeta ateniese al suo ultimo pubblico. Tuttavia, in ogni caso, la Pieria era di fatto una regione dionisiaca: il peana delfico a Dioniso (vv. 54-55) registra la sua visita là; inoltre parecchi autori concordano nel segnalare questo come il luogo in cui Orfeo fu fatto a pezzi dalle menadi per non aver riconosciuto Dioniso. L’associazione tra Dioniso e le Muse si trova anche in Sofocle, Antigone, 965 φιλαύλους τ’ ἠρέθιζε Μούσας, «e irritò le Muse amanti del flauto» (si tratta di Licurgo, il re degli Edoni punito da Dioniso).

414 – Χάριτες: prima di diventare le “Grazie” a noi familiari grazie ai poeti latini e a Botticelli, erano antiche dèe Minie e in origine il loro culto era associato a quello di Dioniso (cfr. Plutarco, Q. Graec., 36, 299b).

6 417-431: «Il dio che è figlio di Zeus / gode delle feste, / ama Eirene che dona prosperità, / la dea nutrice di giovani. / Uguale al ricco / e al più umile concede di avere / la gioia del vino che libera dalle pene; / odia chi non ha a cuore queste cose: / durante la luce e le amate notti / trascorrere la vita felici, / e tenere saggio il cuore e la mente lontani / dagli uomini straordinari. / Ciò che il volgo più umile pensa e / pratica, questo vorrei accogliere».

420 – κουροτρόφον θεάν: Cfr. Esiodo, Opere, 228: εἰρήνη δ' ἀνὰ γῆν κουροτρόφος, «pace nutrice di giovani sulla terra». Il desiderio di pace spesso trova espressione nei drammi di Euripide, per esempio Oreste, 1682-1683 τὴν καλλίστην / θεῶν Εἰρήνην, «la più bella / tra le dèe, Pace». però qui il riferimento a Εἰρήνη ha una funzione ulteriore perché anche Dioniso è un dio che accresce e arricchisce la vita e la guerra è a lui estranea: ὦ πολύμοχθος Ἄρης, τί ποθ' αἵματι / καὶ θανάτῳ κατέχῃ Βρομίου παράμουσος ἑορταῖς;, «o Ares che molto affliggi, perché mai da sangue / e morte sei posseduto, estraneo all’armonia delle feste di Bromio?» (Fenicie, 784-785).

421-423 – ὄλβιος e χείρων sono usati con significato sociale. Dioniso è un dio democratico: è accessibile a tutti, non come Apollo Pitico che lo è attraverso l’intermediazione del clero, ma direttamente nel suo dono del vino e mediante l’appartenenza al suo θίασος. È probabile che il suo culto in origine attecchisse principalmente presso la popolazione che non aveva diritti di cittadinanza nelle πόλεις aristocratiche ed era esclusa dai culti più antichi associati alle grande famiglie. In età classica pare che mantenesse una buona parte del suo carattere popolare: cfr. Aristofane, Rane, 404-406, dove il coro così si rivolge a Dioniso: Σὺ γὰρ κατεσχίσω μὲν ἐπὶ γέλωτι / κἀπ εὐτελείᾳ τόδε τὸ σανδαλίσκον / καὶ τὸ ῥάκος, «Tu infatti ci hai messo addosso per far ridere / e per spendere poco questo sandaletto e questo straccio tutti lacerati»; Plutarco, Cup. div., 8, 527d Ἡ πάτριος τῶν Διονυσίων ἑορτὴ τὸ παλαιὸν ἐπέμπετο δημοτικῶς καὶ ἱλαρῶς, «La tradizionale festa delle Dionisie anticamente era celebrata con una processione popolare e allegra».

424-426 – νύκτας τε φίλας: perché i sacri rituali, τὰ ἱερὰ, avevano luogo di notte per lo più, νύκτωρ τὰ πολλά (485-486). εὐαίωνα: il termine è forte in quanto implica una felicità permanente, come quella che un uomo attribuisce al dio (cfr. Strabone, X, III, 10: εὖ μὲν γὰρ εἴρηται καὶ τοῦτο, τοὺς ἀνθρώπους τότε μάλιστα μιμεῖσθαι τοὺς θεοὺς ὅταν εὐεργετῶσιν: ἄμεινον δ᾽ ἂν λέγοι τις, ὅταν εὐδαιμονῶσι, «infatti è stato detto bene anche questo, che gli uomini allora soprattutto imitano gli dèi, quando fanno del bene; qualcuno però potrebbe dire meglio, quando sono felici», e Nietzsche, La nascita della tragedia, cap. 3: «Fu per poter vivere che i Greci dovettero, per profondissima necessità, creare questi dèi. [] quel popolo [] che aveva un talento così unico per il soffrire, come avrebbe potuto sopportare lesistenza? [] Così gli dèi giustificano la vita umana vivendola essi stessi la sola teodicea soddisfacente!»).

L’ “edonismo” – ma sarebbe più corretto chiamarlo eudemonismo religioso – di questo e di altri passi (cfr. vv. 910-911 e 1004) ha sorpreso alcuni critici, ma secondo Dodds, (a) è drammaticamente appropriato, in quanto Dioniso è dispensatore di gioia naturale mentre Penteo di odio puritano per la gioia. (b) Il desiderio di sicurezza e di sollievo dagli affanni, naturale per un mondo stremato dalla guerra, è espresso spesso in Euripide; cfr. in particolare Eracle, 503-507: ἀλλ', ὦ γέροντες, σμικρὰ μὲν τὰ τοῦ βίου, / τοῦτον δ' ὅπως ἥδιστα διαπεράσατε / ἐξ ἡμέρας ἐς νύκτα μὴ λυπούμενοι. / ὡς ἐλπίδας μὲν ὁ χρόνος οὐκ ἐπίσταται / σῴζειν, «ma, vecchi, piccolo è il corso della vita, / attraversatela nel modo più piacevole / senza affliggervi dal giorno alla notte. / Il tempo infatti non sa preservare / le speranze». Quando il contemporaneo di Euripide Antifonte inventò e promosse una τέχνη ἀλυπίας, «arte della non sofferenza» (87 A6 D-K) stava provvedendo a un’esigenza sentita.

7 427-429 – I περισσοί φῶτες sono quelle persone “superiori” che, come Penteo, rifiutano di riconoscere i limiti imposti da θνατὰ φρονεῖν (396); cfr. l’ammonimento della nutrice a Fedra che Cipride punisce ὃν δ' ἂν περισσὸν καὶ φρονοῦνθ' εὕρῃ μέγα, «chi trovi eccessivo e presuntuoso» (Ippolito, 445). Gli uomini straordinari possono essere anche quelli che non vogliono seguire le regole che si danno i più, come Raskol’nikov, inizialmente, in Dostoevskij (Delitto e castigo, Parte terza - capitolo V): «È che nel suo articolo gli uomini da un certo punto di vista si dividono in uomini ‘ordinari’ e ‘straordinari’. Gli uomini ordinari devono vivere nell'obbedienza e non hanno diritto di violare la legge perché, capite, sono ordinari. Mentre gli uomini straordinari hanno il diritto di compiere qualsiasi delitto e violare come vogliono la legge proprio per il fatto che sono straordinari. È così, no, o mi sbaglio?». A questa osservazione di Porfirij così risponde Raskolnikov: «Io alludevo semplicemente al fatto che l'uomo ‘straordinario’ ha diritto… non un diritto ufficiale, si capisce, ma un suo diritto personale di permettere alla propria coscienza di superare certi… ostacoli, e questo solo nel caso in cui ciò fosse necessario per realizzare la sua idea (che a volte può essere la salvezza forse anche per tutta l’umanità)… tutti... be', intendo ad esempio almeno i legislatori e i grandi fondatori dell'umanità, a partire dai più antichi, sino ai vari Licurgo, Solone, Maometto, Napoleone e così via, tutti, sino all'ultimo, sono stati dei criminali per il solo fatto che facendo una nuova legge, con ciò stesso infrangevano la vecchia legge che prima era stata religiosamente rispettata e trasmessa dai padri; e certo non si arrestarono di fronte al sangue (a volte versato in modo anche innocente e valoroso in difesa della vecchia legge), se solo questo poteva esser loro di aiuto. Ed è notevole il fatto che la maggior parte di questi benefattori e fondatori dell’umanità fossero in realtà dei terribili sanguinari. Insomma, ne concludo che tutti, e non solo i grandi uomini, ma anche quelli che escono solo un po' dalla normalità, cioè che sono un minimo capaci di dire qualcosa di nuovo, devono per loro stessa natura essere dei criminali, più o meno, ovviamente. Altrimenti sarebbe loro difficile uscire dalla carreggiata e, del resto, sempre per la loro natura non potrebbero proprio acconsentire a rimanervi e, a mio avviso, hanno il dovere di non farlo… gli uomini, per una legge della natura, si dividono sempre in due categorie: in quella inferiore (gli uomini ordinari), ovvero per così dire il materiale, che serve solo per riprodurre suoi simili, e gli uomini veri e propri, ovvero quelli che hanno il dono o il talento di dire al proprio mondo una parola nuova. È chiaro che vi possono essere infinite suddivisioni, ma ognuna di queste categorie ha dei tratti suoi piuttosto definiti: la prima categoria, ovvero per dirla in modo generico il materiale, è fatta di persone per loro natura conservatrici, rispettose, che vivono in obbedienza e amano essere obbedienti. E, secondo me, costoro hanno anche il dovere di essere obbedienti, perché questa è la loro funzione e in questo non vi è assolutamente nulla di umiliante. Nella seconda categoria tutti violano la legge, sono dei distruttori, o comunque sono portati ad esserlo, a giudicare dalle loro capacità. I delitti di queste persone, naturalmente, sono relativi e svariati: la maggior parte richiede, con varie formulazioni, la distruzione del presente in nome di un futuro migliore. Ma se qualcuno di loro, per realizzare la sua idea, ha bisogno di passare sul corpo di qualcuno, di versare del sangue, be’, secondo me egli dentro di sé in coscienza ha diritto a decidere di versare quel sangue, ma questo, notate bene, a seconda anche dell'idea e della sua importanza. E solo in questo senso nel mio articolo io parlo del loro diritto al crimine… E comunque, non c'è da allarmarsi: la massa di gente non gli riconosce quasi mai questo diritto, li giustizia e li impicca (più o meno) e lo fa con buone ragioni, compiendo in questo modo la propria funzione conservatrice, anche se poi nella generazione successiva questa stessa massa s'inchinerà a coloro che erano stati giustiziati e innalza loro monumenti (più o meno). Alla prima categoria appartiene il signore del presente, alla seconda il signore del futuro. I primi conservano il mondo e lo accrescono numericamente, i secondi muovono il mondo e lo guidano alla meta. Sia gli uni che gli altri hanno esattamente lo stesso diritto a esistere. Insomma, hanno tutti pari diritto e… vive la guerre éternelle, sino alla Nuova Gerusalemme, ben inteso!».

8 430-433 – I φαῦλοι sono le persone semplici in senso sia sociale sia intellettuale. Euripide li contrappone spesso ai σοφοί: Andromaca, 379 φαῦλός εἰμι κοὐ σοφός, «sono uno semplice e non sapiente» (sono parole di Menelao, qui usate in senso favorevole per i σοφοί), 480-481 σοφῶν τε πλῆθος ἀθρόον ἀσθενέστερον / φαυλοτέρας φρενὸς αὐτοκρατοῦς, «la massa dei sapienti tutta insieme / è più debole di una mente più semplice che decide da sola»; ma soprattutto è calzante Fenicie, 494-496 ταῦτ’ αὔθ’ ἕκαστα, μῆτερ, οὐχὶ περιπλοκὰς / λόγων ἀθροίσας εἶπον, ἀλλὰ καὶ σοφοῖς / καὶ τοῖσι φαύλοις ἔνδιχ’, ὡς ἐμοὶ δοκεῖ, «Madre, ho detto tutte queste cose / senza ammucchiare contorsioni di parole, ma sia per i sapienti / sia per i semplici sono giuste, mi pare»: sono le parole conclusive di Polinice che aveva iniziato il discorso così: ἁπλοῦς ὁ μῦθος τῆς ἀληθείας ἔφυ / κοὐ ποικίλων δεῖ τἄνδιχ’ ἑρμηνευμάτων· / ἔχει γὰρ αὐτὰ καιρόν· ὁ δ’ ἄδικος λόγος / νοσῶν ἐν αὑτῷ φαρμάκων δεῖται σοφῶν, «il discorso della verità è semplice per natura / e ciò che è giusto non ha bisogno di intricate interpretazioni: / ha in sé ciò che è opportuno; il discorso ingiusto invece / avendo il vizio dentro di sé ha bisogno di espedienti sofisticati»(cfr. fr. 289 τῆς δ᾽ ἀλεθείας ὁδὸς / φαύλη τίς ἐστι, « quella delle verità / è una strada semplice»). Si veda anche Ione, 834-835 φαῦλον χρηστὸν ἂν λαβεῖν φίλον / θέλοιμι μᾶλλον ἢ κακὸν σοφώτερον, «vorrei acquistare un amico buono e semplice / piuttosto che uno più sapiente e cattivo», fr. 473 φαῦλον ἄκομψον, τὰ μέγιστα ἀγαθόν, / πᾶσα ἐν ἕργῳ περιτεμνόμενον / σοφίαν, λέσχης ἀτρίβωνα, «un semplice rozzo, buono nelle cose più importanti, / che si ritagli nei fatti tutta / la sapienza, non avvezzo al dibattito». Alcuni hanno preso φαυλότερον come un epiteto spregiativo che farebbe trapelare la posizione del coro. Ma secondo Dodds, e concordo, è un errore: l’antitesi nel presente passaggio è sostanzialmente la medesima che Tiresia ha delineato tra τὸ σοφὸν e πάτριοι παραδοχαί (vv. 201-203); a tali critici che si sono sorpresi di trovare un pupillo dei sofisti scrivere in questo tono si può rispondere (a) che è drammaticamente appropriato, dato che Dioniso è specificamente un dio del φαυλότερον πλῆθος (vv. 421-423 nota); (b) che, come molti poeti, non si può escludere che anche Euripide abbia sentito di tanto in tanto una più profonda affinità con la saggezza intuitiva del popolo che con l’arida ingegnosità degli intellettuali: questo sentimento sembra essere espresso in alcuni dei passi citati sopra, ma soprattutto nell’Elettra nelle parole dell’αὐτουργός, il contadino («uomo povero ma nobile» πένης ἀνὴρ γενναῖος,v. 253), quale tipo del φαῦλος ἄκομψος: assegnato come marito a Elettra, contro la volontà di questa, non accetta di unirsi a lei per rispetto (255 οὐπώποτ' εὐνῆς τῆς ἐμῆς ἔτλη θιγεῖν, «non ha mai osato toccare il mio letto»); e quando invita Oreste e Pilade (in incognito) ad entrare nella sua povera casa per ospitarli, ma Elettra manifesta il suo imbarazzo per il poco che hanno da offrire a due ospiti evidentemente nobili, prima nota che εἴπερ εἰσὶν ὡς δοκοῦσιν εὐγενεῖς, / οὐκ ἔν τε μικροῖς ἔν τε μὴ στέρξουσ᾽ ὁμῶς; «se sono nobili come sembrano, non saranno contenti ugualmente sia nel poco che nel molto?» (vv. 406-407); poi aggiunge: ἐν τοῖς τοιούτοις δ’ ἡνίκ’ ἂν γνώμης πέσω, / σκοπῶ τὰ χρήμαθ’ ὡς ἔχει μέγα σθένος, / ξένοις τε δοῦναι σῶμά τ’ ἐς νόσους πεσὸν / δαπάναισι σῷσαι· τῆς δ’ ἐφ’ ἡμέραν βορᾶς / ἐς σμικρὸν ἥκει· πᾶς γὰρ ἐμπλησθεὶς ἀνὴρ / ὁ πλούσιός τε χὡ πένης ἴσον φέρει, «quando cado con pensiero in tali questioni, / vedo che le ricchezze hanno la grande forza / di donare agli ospiti / e salvare un corpo caduto in malattie / spendendo denaro; invece quanto al nutrimento di tutti i giorni / mirano a poco; ogni uomo sazio, / ricco o povero, porta unuguale quantità».

9 Tra i fautori degli uomini straordinari del tipo di Raskol’nikov possiamo annoverare Callicle, uno dei personaggi del Gorgia di Platone: sta discutendo con Socrate se sia meglio infliggere o subire ingiustizia; secondo lui in natura ciò che è brutto è anche malvagio, come subire ingiustizia, mentre secondo la legge è il contrario. Prosegue dicendo che è meglio morire se, maltrattati e offesi, non si è capaci di aiutare se stessi e gli altri. Quindi formula il concetto secondo cui: Φύσις αὐτὴ ἀποφαίνει αὐτό, ὅτι δίκαιόν ἐστιν τὸν ἀμείνω τοῦ χείρονος πλέον ἔχειν καὶ τὸν δυνατώτερον τοῦ ἀδυνατωτέρου. δηλοῖ δὲ ταῦτα πολλαχοῦ ὅτι οὕτως ἔχει, καὶ ἐν τοῖς ἄλλοις ζῴοις καὶ τῶν ἀνθρώπων ἐν ὅλαις ταῖς πόλεσι καὶ τοῖς γένεσιν, ὅτι οὕτω τὸ δίκαιον κέκριται, τὸν κρείττω τοῦ ἥττονος ἄρχειν καὶ πλέον ἔχειν, «La natura stessa mostra ciò, vale a dire che è giusto che il migliore abbia più del peggiore e il più capace del meno capace. Mostra che queste cose stanno così ovunque, sia tra gli altri animali sia tra gli uomini nelle città intere e nelle famiglie» (483d). Le leggi allora sono un prodotto della maggioranza fatta di deboli invidiosi che sono incapaci di realizzare le proprie ambizioni, come invece lo sono i forti (491b) ἀνδρεῖοι, ἱκανοὶ ὄντες ἃ ἂν νοήσωσιν ἐπιτελεῖν, καὶ μὴ ἀποκάμνωσι διὰ μαλακίαν τῆς ψυχῆς, «valorosi, capaci di compiere ciò che pensano, e non si scoraggiano per debolezza d’animo», (492a) ἀλλὰ τοῦτ᾽ οἶμαι τοῖς πολλοῖς οὐ δυνατόν: ὅθεν ψέγουσιν τοὺς τοιούτους δι᾽ αἰσχύνην, ἀποκρυπτόμενοι τὴν αὑτῶν ἀδυναμίαν, «ma ai più credo, questo non è possibile: perciò biasimano siffatti individui, per vergogna, nascondendo la propria incapacità». Schopenhauer, come Callicle, vede nell’uomo straordinario in quanto genio la massima espressione della natura: «In tutti i tempi sullintero globo terrestre e in tutte le circostanze, è esistita una medesima congiura, ordita dalla natura stessa, in tutti i cervelli mediocri, dappoco e ottusi contro lo spirito e lintelligenza [...] «tantum quisque laudat, quantum se posse sperat imitari» [...] in ogni tempo e dovunque, in tutte le situazioni e in tutti i rapporti la limitatezza e l’ottusità non odiano nulla al mondo così intimamente e furiosamente quanto lintelletto, lo spirito e il talento [...] Il pubblico non conoscerà e non comprenderà mai [...] laristocrazia della natura. Esso si stanca quindi presto dei rari e isolati individui [...] Ogni volta che compare un eroe, tosto il pubblico gli pone accanto un ladrone [...] La natura è aristocratica, più aristocratica di qualsiasi società feudale basata su caste. La tirannide della natura parte quindi da una base molto ampia, per terminare in un vertice assai aguzzo, e anche se alla plebe e alla canaglia, che non può tollerare nulla al di sopra di sé, riuscisse ad abbattere tutte le altre aristocrazie, essa non potrà far nulla contro di questa, senza neppur meritare un ringraziamento, poiché tale aristocrazia è davvero concessa dalla «grazia di Dio».

10 Trad. it. di Nina Ruffini, Bari, Laterza, 1932, p. 130.

11 Così la intendeva Erodoto nelle parole di Otane (III, 80) Πλῆθος δὲ ἄρχον πρῶτα μὲν οὔνομα πάντων κάλλιστον ἔχει, ἰσονομίην, «innanzitutto la maggioranza che comanda ha il nome più bello di tutti, “isonomia”», cioè legge uguale per tutti.

12 Cicerone, in De officiis, III, 82, ricorda che questi versi erano molto amati da Cesare: Ipse autem socer in ore semper Graecos versus de Phoenissis habebat, quos dicam ut potero; incondite fortasse sed tamen, ut res possit intellegi: “Nam si violandum est ius, regnandi gratia, / Violandum est; aliis rebus pietatem colas.” Capitalis Eteocles vel potius Euripides, qui id unum quod omnium sceleratissimum fuerit, exceperit, «Lo stesso suocero aveva sempre sulle labbra quei versi greci tratti dalle Fenicie, che dirò come potrò; poco elegantemente forse, ma tuttavia, in modo che si possa comprendere il concetto: “Infatti se bisogna violare il diritto, per regnare / bisogna violarlo; per il resto coltiva la pietà”. Avrebbe meritato la pena capitale Eteocle o piuttosto Euripide, che per quell’unica cosa, la più scellerata di tutte, ha fatto un’eccezione»

13 Secondo Sallustio, invece, è piuttosto simile alla virtù (Cat., 11, 1): Sed primo magis ambitio quam avaritia animos hominum exercebat, quod tamen vitium propius virtutem erat, «Ma in principio travagliava gli animi degli uomini più dell’avidità l’ambizione, che tuttavia è un vizio assai vicino alla virtù», si intende ovviamente una virtù alla Machiavelli, cioè svincolata dalla morale.

14 Cfr. Seneca, Epistulae, 4: 6. Cum rerum natura delibera: illa dicet tibi et diem fecisse se et noctem, «Prendi le decisioni in accordo con la natura: ella ti dirà che ha fatto sia il giorno sia la notte».

15 La stessa idea si trova in Platone, Repubblica, I, nelle parole di Trasimaco: φημὶ γὰρ ἐγὼ εἶναι τὸ δίκαιον οὐκ ἄλλο τι ἢ τὸ τοῦ κρείττονος συμφέρον, «io dico che il giusto non è altro che l'utile del più forte» (338c); poi più avanti aggiunge: πάντων δὲ ῥᾷστα μαθήσῃ, ἐὰν ἐπὶ τὴν τελεωτάτην ἀδικίαν ἔλθῃς, ἣ τὸν μὲν ἀδικήσαντα εὐδαιμονέστατον ποιεῖ, τοὺς δὲ ἀδικηθέντας καὶ ἀδικῆσαι οὐκ ἂν ἐθέλοντας ἀθλιωτάτους. ἔστιν δὲ τοῦτο τυραννίς, ἣ οὐ κατὰ σμικρὸν τἀλλότρια καὶ λάθρᾳ καὶ βίᾳ ἀφαιρεῖται, καὶ ἱερὰ καὶ ὅσια καὶ ἴδια καὶ δημόσια, ἀλλὰ συλλήβδην, «capirai nel modo più facile di tutti, se ti rivolgi alla perfetta ingiustizia, la quale rende chi commette ingiustizia felicissimo, mentre coloro che la subiscono e che non vorrebbero subirla disgraziatissimi. È questa la tirannide, la quale non in piccola misura sottrae i beni altrui di nascosto e con la violenza, e quelli sacri e quelli sante e quelli privati e quelli pubblici, ma tutto insieme» (344a-b); chi compie queste azioni privatamente e in piccolo è chiamato criminale ed è pubblicamente infamato, al contrario coloro che compiono queste nefandezze pubblicamente e per il potere εὐδαίμονες καὶ μακάριοι [c] κέκληνται, οὐ μόνον ὑπὸ τῶν πολιτῶν ἀλλὰ καὶ ὑπὸ τῶν ἄλλων ὅσοι ἂν πύθωνται αὐτὸν τὴν ὅλην ἀδικίαν ἠδικηκότα· οὐ γὰρ τὸ ποιεῖν τὰ ἄδικα ἀλλὰ τὸ πάσχειν φοβούμενοι ὀνειδίζουσιν οἱ ὀνειδίζοντες τὴν ἀδικίαν, «sono chiamati felici, non solo dai concittadini, ma anche dagli altri, quanti abbiano saputo che egli ha compiuto l’ingiustizia totale: infatti coloro che biasimano l’ingiustizia la biasimano temendo non di fare azioni ingiuste ma di subirle» (344c). Questo naturalmente è il pensiero di un sofista, per confutare il quale Socrate impiegherà tutto il dialogo.

16 Una riflessione quasi identica si trova in Seneca, Consolatio ad Marciam, 10, 2: Itaque non est quod nos suspiciamus tamquam inter nostra positi: mutua accepimus. Vsus fructusque noster est, cuius tempus ille arbiter muneris sui temperat; nos oportet in promptu habere quae in incertum diem data sunt et appellatos sine querella reddere: pessimi debitoris est creditori facere conuicium, «E così non è il caso di provare ammirazione, come se fossimo stati posti tra beni che ci appartengono: li abbiamo ricevuti in prestito. Nostro è l’usufrutto, la cui durata è regolata da quello che del proprio dono è padrone; bisogna che noi teniamo a disposizione ciò che ci è stato concesso a scadenza, per quanto indefinita, e bisogna che se richiesti lo restituiamo senza lamentarci: è proprio di un pessimo debitore prendersela con il creditore».

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