martedì 15 aprile 2025

La teoria della classe media – 1

 

La teoria della classe media


Tale teoria, che attribuisce il primato morale a quello che oggi chiamiamo “ceto medio”, si trova espressa compiutamente nelle Supplici di Euripide, 238-45:


τρεῖς γὰρ πολιτῶν μερίδες: οἳ μὲν ὄλβιοι

ἀνωφελεῖς τε πλειόνων τ᾽ ἐρῶσ᾽ ἀεί:

οἳ δ᾽ οὐκ ἔχοντες καὶ σπανίζοντες βίου

δεινοί, νέμοντες τῷ φθόνῳ πλέον μέρος,

ἐς τοὺς ἔχοντας κέντρ᾽ ἀφιᾶσιν κακά,

γλώσσαις πονηρῶν προστατῶν φηλούμενοι:

τριῶν δὲ μοιρῶν ἡ 'ν μέσῳ σῴζει πόλεις,

κόσμον φυλάσσουσ᾽ ὅντιν᾽ ἂν τάξῃ πόλις.

«Tre infatti sono le classi di cittadini: i ricchi sono / inutili e bramano sempre di più; / quelli che non hanno nulla e mancano di mezzi di sussistenza / sono temibili: attribuendo troppa parte all’invidia, / lanciano strali cattivi contro i possidenti, / tratti in inganno dalle lingue di capi malvagi; / delle tre classi quella che sta in mezzo salva le città, / preservando l’ordine che la città disponga».


Tale orientamento politico trova un’eco ironica nell’aristocratico Aristofane (Rane, 947-950), che fa dire al personaggio Euripide:

ἔπειτ᾽ ἀπὸ τῶν πρώτων ἐπῶν οὐδὲνα παρῆκ᾽ ἂν ἀργόν,

ἀλλ᾽ ἔλεγεν ἡ γυνή τέ μοι χὠ δοῦλος οὐδὲν ἧττον,

χὠ δεσπότης χἠ παρθένος χἠ γραῦς ἄν.

δημοκρατικὸν γὰρ αὔτ᾽ ἔδρων.

«poi fin dalla prime parole non lasciavo nessuno inattivo, / ma parlava la donna per me non meno dello schiavo / e il padrone e la ragazza e la vecchia. / infatti facevo questo democraticamente».

Ad Aristofane si ispira Nietzsche nella sua invettiva contro “l’empio Euripide” (La nascita della tragedia, cap. 11):


Lo spettatore fu portato da Euripide sulla scena [...] Per opera sua l’uomo della vita quotidiana si spinse, dalla parte riservata agli spettatori, sulla scena; lo specchio, in cui prima venivano riflessi solo i tratti grandi e arditi, mostrò ora quella meticolosa fedeltà che riproduce coscienziosamente anche le linee non riuscite della natura. Odisseo, il tipico Greco dell’arte antica, si abbassò ora [...] nella figura del greculo, che in seguito rimase [...] come schiavo domestico bonario e scaltro [...]

Euripide si ascrive a merito nelle Rane di Aristofane di aver liberato coi suoi rimedi casalinghi l’arte tragica dalla sua pomposa corpulenza [...] lo spettatore vedeva e sentiva ora sulla scena euripidea il suo sosia, e si rallegrava che quello sapesse parlare tanto bene [...] con Euripide gli spettatori imparavano essi stessi a parlare, e di ciò Euripide stesso si vanta nella gara con Eschilo [...]

Da allora in poi non fu più un segreto in che modo e con quali sentenze la vita quotidiana si potesse rappresentare sulla scena. Prendeva ora a parlare la mediocrità cittadina, su cui Euripide fondava tutte le sue speranze politiche.


A tale interpretazione spregiativa possiamo contrapporre quella di Gilbert Murray (Euripides and His Age, pp. 194-195):


Like other ideal democrats he turned away from the actual Demos, which surrounded him and howled him down, to a Demos of his imagination, pure and uncorrupted, in which the heart of the natural man should speak. His later plays break out more than once into praises of the unspoiled countryman, neither rich nor poor, who works with his own arm and whose home is “the solemn mountain” not the city streets (cf. especially Orestes, 917-922, as contrasted with 903 ff.; also the Peasant in the Electra; also Bac., 717).

Come altri democratici idealisti, Euripide si scostò dal Demos reale, che lo copriva di contumelie, per rifugiarsi nel puro e incorruttibile Demos della sua immaginazione, in cui veramente poteva parlare il cuore dell’uomo della natura. Più d’una volta, nelle sue ultime opere, prorompe l’elogio del contadino non guasto, né povero né ricco, che lavora colle sue braccia e ha casa «sulla montagna solenne» invece che nella strada della città (cfr. specialmente Oreste, 917-922, in contrasto con 903 e segg.; e anche il contadino dell’Elettra e le Baccanti, 717) [Trad. it. di Nina Ruffini, Bari, Laterza, 1932, p. 130].


Vediamo l’Elettra, vv. 367-376:


οὐκ ἔστ’ ἀκριβὲς οὐδὲν εἰς εὐανδρίαν·

ἔχουσι γὰρ ταραγμὸν αἱ φύσεις βροτῶν.

«Non c’è nulla di preciso in rapporto al valore di un uomo: / sono confuse infatti le nature dei mortali».


ἤδη γὰρ εἶδον ἄνδρα γενναίου πατρὸς

τὸ μηδὲν ὄντα, χρηστά τ’ ἐκ κακῶν τέκνα,

λιμόν τ’ ἐν ἀνδρὸς πλουσίου φρονήματι,

γνώμην τε μεγάλην ἐν πένητι σώματι.

«Ho già visto infatti un uomo di padre nobile / che non vale nulla, e buoni figli nati da infami, / miseria nella boria di un uomo ricco, / grande spirito in un corpo povero».


πῶς οὖν τις αὐτὰ διαλαβὼν ὀρθῶς κρινεῖ;

πλούτῳ; πονηρῷ τἄρα χρήσεται κριτῇ.

ἢ τοῖς ἔχουσι μηδέν; ἀλλ’ ἔχει νόσον

πενία, διδάσκει δ’ ἄνδρα τῇ χρείᾳ κακόν.

«Come dunque uno giudicherà distinguendo correttamente? / In base alla ricchezza? Si avvarrà di un giudice davvero cattivo. / O in base a chi non possiede nulla? Ma ha una malattia / la povertà, insegna all’uomo, col bisogno, il male».


Quindi riferendosi al contadino, dato in marito a Elettra, «uomo povero ma nobile» πένης ἀνὴρ γενναῖος (v. 253), conclude (vv. 386-391):


οἱ γὰρ τοιοῦτοι καὶ πόλεις οἰκοῦσιν εὖ

καὶ δώμαθ’· αἱ δὲ σάρκες αἱ κεναὶ φρενῶν

ἀγάλματ’ ἀγορᾶς εἰσιν. οὐδὲ γὰρ δόρυ

μᾶλλον βραχίων σθεναρὸς ἀσθενοῦς μένει·

ἐν τῇ φύσει δὲ τοῦτο κἀν εὐψυχίᾳ.

«Tali persone infatti amministrano bene sia le città / sia le case: ma le carni vuote di intelligenza / sono statue da piazza. Né infatti sostiene il colpo di una lancia / un braccio forte più di uno debole: / questa virtù si trova nell’indole e in un animo di valore».


In chi Euripide identificasse il rappresentante di questa classe media emerge infine nell’Oreste, vv. 918-920:


μορφῇ μὲν οὐκ εὐωπός, ἀνδρεῖος δ' ἀνήρ,

ὀλιγάκις ἄστυ κἀγορᾶς χραίνων κύκλον,

αὐτουργός, οἵπερ καὶ μόνοι σῴζουσι γῆν,

«uno non dal bel volto nell’aspetto, ma un uomo valoroso, / che di rado entra in contatto con la città e il cerchio della piazza, / un contadino che vive del suo lavoro, e di quelli che soli salvano il paese».


Tale esempio positivo viene contrapposto a quello dei versi precedenti (903-908):


ἀνήρ τις ἀθυρόγλωσσος, ἰσχύων θράσει·

[Ἀργεῖος οὐκ Ἀργεῖος, ἠναγκασμένος,

θορύβῳ τε πίσυνος κἀμαθεῖ παρρησίᾳ,

πιθανὸς ἔτ' αὐτοὺς περιβαλεῖν κακῷ τινι.

ὅταν γὰρ ἡδύς τις λόγοις φρονῶν κακῶς

πείθῃ τὸ πλῆθος, τῇ πόλει κακὸν μέγα·

«un uomo dalla lingua senza freni, forte della sua arroganza; / un Argivo non Argivo, costretto, / uno che confida nella confusione e nella sua ignorante libertà di parola, / persuasivo inoltre nell’avvolgerli in un qualche male. / Qualora uno piacevole nelle parole ma male intenzionato / persuada la massa, per la città è un grande male».


Possiamo vedere qui contrapposte due concezioni di democrazia, una che potremmo definire demagogica (vedi scheda che segue), avversata da Euripide, e una più idealizzata, delineata nei versi citati sopra.


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