giovedì 20 novembre 2025

Il sapere non è sapienza – Un percorso tra tragedia e filosofia – 2

 

L’erudito dunque si contrappone al sapiente nell’«impiegare una sterilissima sottigliezza in vane questioncine»1, comportamento tipico, secondo Seneca, dei Greci:

Graecorum iste morbus fuit quaerere quem numerum Ulixes remigum habuisset, prior scripta esset Ilias an Odyssia, praeterea an eiusdem esset auctoris, alia deinceps huius notae, quae siue contineas nihil tacitam conscientiam iuuant, siue proferas non doctior uidearis sed molestior.

Fu una malattia tipica dei Greci questa di ricercare quale numero di rematori avesse avuto Ulisse, se fosse stata scritta prima lIliade o lOdissea2, inoltre se fossero del medesimo autore, e altre cose di questo genere, che se tieni per te non giovano in nulla al semplice fatto di conoscerle, se le presenti ad altri non sembrerai più dotto ma più noioso3.

Contro la sterile erudizione si scaglia anche Encolpio, all’inizio del Satyricon, quando accusa la scuola di rimbecillire, in quanto l’insegnamento è astratto e privo di legami con la realtà (1): ego adulescentulos existimo in scholis stultissimos fieri, quia nihil ex his, quae in usu habemus, aut audiunt aut vident [...] sed mellitos verborum globulos, et omnia dicta factaque quasi papavere et sesamo sparsa, «io ritengo che i ragazzini nelle scuole diventino stupidissimi, poiché nulla di ciò con cui abbiamo a che fare o ascoltano o vedono, [...] ma palline mielose di parole, e tutte cose dette e fatte quasi cosparse di papavero e sesamo4». Poi individua nella figura dell’umbraticus doctor il responsabile della corruzione dell’eloquenza5, che ormai ha perduto il vigore di un tempo (2):

Levibus enim atque inanibus sonis ludibria quaedam excitando, effecistis ut corpus orationis enervaretur et caderet. Nondum iuvenes declamationibus continebantur, cum Sophocles aut Euripides invenerunt verba quibus deberent loqui. Nondum umbraticus doctor ingenia deleverat, cum Pindarus novemque lyrici Homericis versibus canere timuerunt.

«Suscitando certi giochetti con suoni dolci e vuoti, avete fatto in modo che il corpo dellorazione si rammollisse e cadesse6. I ragazzi non erano ancora imbrigliati dalle declamazioni quando Sofocle o Euripide trovarono le parole con cui dovevano parlare. Un maestro cresciuto nellombra non aveva ancora distrutto gli ingegni, quando Pindaro e i nove lirici esitarono a cantare in versi omerici».

La figura dell’umbraticus doctor può fornire la chiave per penetrare più a fondo il concetto di sapienza; essa infatti evoca, per contrasto, l’idea che la cultura trae le sue energie creatrici dalla luce del sole7 e si esprime all’aperto, a contatto con gli altri uomini e non nell’oscurità della solitudine. Una conferma di questa interpretazione ce la fornisce Quintiliano che raccomanda al futuro oratore di non temere il contatto con la gente e di abituarsi a vivere nella luce (I, 2, 18):

Ante omnia futurus orator, cui in maxima celebritate et in media rei publicae luce vivendum est, adsuescat iam a tenero non reformidare homines neque illa solitaria et velut umbratica vita pallescere. Excitanda mens et attollenda semper est, quae in eius modi secretis aut languescit et quendam velut in opaco situm ducit, aut contra tumescit inani persuasione: necesse est enim nimium tribuat sibi qui se nemini comparat.

«Prima di tutto il futuro oratore, che deve vivere nel massimo affollamento e in mezzo alla luce della vita pubblica, si abitui a non temere gli uomini e a non impallidire in quella vita solitaria e per così dire ombrosa. Deve essere stimolata e elevata sempre la mente, che in ritiri di tal genere o si infiacchisce e come nelloscurità fa la ruggine, o al contrario si gonfia di vana persuasione: necessariamente infatti attribuisce troppo a se stesso chi non si confronta con nessuno».

L’ombra può anche essere quella del maestro, da cui bisogna emanciparsi per non rimanere dei semplici interpreti di idee altrui, anziché autori accrescitori. A tal proposito si esprime Seneca (Epistulae, 33, 7) criticando il sapere libresco, ex commentario, e suggerisce: impera et dic quod memoriae tradatur, aliquid et de tuo profer, «prendi il comando8 e diuna cosa che sia tramandata alla memoria, aggiungi anche qualcosa di tuo». Poi prosegue (8):

Omnes itaque istos, numquam auctores, semper interpretes, sub aliena umbra latentes, nihil existimo habere generosi, numquam ausos aliquando facere quod diu didicerant. Memoriam in alienis exercuerunt; aliud autem est meminisse, aliud scire. Meminisse est rem commissam memoriae custodire; at contra scire est et sua facere quaeque nec ad exemplar pendere et totiens respicere ad magistrum.

«E così tutti costoro mai autori, sempre interpreti, che si nascondono sotto lombra altrui, penso che non abbiano nulla di nobile, che non abbiano mai osato fare ciò che a lungo avevano imparato. Esercitarono la memoria nelle idee degli altri; ma un conto è ricordare, un altro conto è sapere. Ricordare è conservare una cosa affidata alla memoria; al contrario sapere è rendere anche propria ciascuna cosa e non dipendere da un modello e rivolgere lo sguardo tanto spesso a un maestro9».

Del resto, conclude Seneca (10): numquam autem invenietur, si contenti fuerimus inventis. Praeterea qui alium sequitur nihil invenit, immo nec quaerit, «poi non ci saranno mai nuove scoperte, se ci saremo accontentati delle cose già scoperte. Inoltre chi segue un altro non scopre niente, anzi nemmeno cerca10».


1 Hoc est sapientia, hoc est sapere, non disputatiunculis inanibus subtilitatem vanissimam agitare, «questo è la sapienza, questo è essere sapienti [occuparsi cioè di rafforzare lo spirito], non impiegare una sterilissima sottigliezza in vane questioncine», (Seneca, Epistulae, 117, 25).

2 Non è il caso però dell’Anonimo Sul sublime, il quale sostiene la maggiore antichità dell’Iliade, ma con intelligenza e bellezza (9, 13): τῆς μὲν Ἰλιάδος γραφομένης ἐν ἀκμῇ πνεύματος ὅλον τὸ σωμάτιον δραματικὸν ὑπεστήσατο καὶ ἐναγώνιον, τῆς δὲ Ὀδυσσείας τὸ πλέον διηγηματικόν, ὅπερ ἴδιον γήρως. ὅθεν ἐν τῇ Ὀδυσσείᾳ παρεικάσαι τις ἂν καταδυομένῳ τὸν Ὅμηρον ἡλίῳ, οὗ δίχα τῆς σφοδρότητος παραμένει τὸ μέγεθος, «essendo stata l’Iliade scritta all’apice dell’ispirazione, il corpo del testo risulta pieno di azione e di combattimenti, quanto all’Odissea invece è per lo più narrativa, cosa che appunto è propria della vecchiaia. Quindi nell’Odissea uno potrebbe paragonare Omero al sole che tramonta, del quale pur senza l’intensità permane la grandezza». Poco prima aveva detto: δείκνυσι δ' ὅμως διὰ τῆς Ὀδυσσείας […] ὅτι μεγάλης φύσεως ὑποφερομένης ἤδη ἴδιόν ἐστιν ἐν γήρᾳ τὸ φιλόμυθον, «dimostra comunque nel corso dell’Odissea […] che proprio di una grande natura che ormai declina è nella vecchiaia l’amore per il racconto» (11).

3 De brevitate vitae, 13, 2.

4 In sintonia con Petronio si trova a questo proposito Seneca, per il quale l’obiettivo è che i giovani ad rem commoveantur, non ad verba composita; alioquin nocet illis eloquentia, si non rerum cupiditatem facit sed sui, «si emozionino per la sostanza, non per le belle parole; altrimenti leloquenza nuoce loro, se produce passione non per i contenuti ma per se stessa» (Epistulae, 52, 14).

5 Tacito individua la causa della sua corruzione nella fine della libertà, di cui l’eloquenza si nutre come il fuoco fa della legna (Dialogus, 36): Magna eloquentia, sicut flamma, materia alitur et motibus excitatur et urendo clarescit, «la grande eloquenza, come una fiamma, si nutre di materia ed è ravvivata dai movimenti e brilla ardendo».

6 Al contrario grandis et, ut ita dicam, pudica oratio non est maculosa nec turgida, sed naturali pulchritudine exsurgit, «la grande e, per così dire, pudica orazione non è screziata né gonfia, ma si erge per naturale bellezza» (Satyricon, 2). La cultura cioè deve essere amata con vigore, come afferma il Pericle di Tucidide nel λόγος ἐπιτάφιος (II, 40, 1): Φιλοκαλοῦμέν τε γὰρ μετ' εὐτελείας καὶ φιλοσοφοῦμεν ἄνευ μαλακίας, «amiamo il bello con semplicità e amiamo la cultura senza mollezza».

7 Questa alta considerazione del sole è espressa molto bene da Platone che lo considera τὸν τοῦ ἀγαθοῦ ἔκγονον, ὃν τἀγαθὸν ἐγέννησεν ἀνάλογον ἑαυτῷ, «il figlio del bene, che il bene generò analogo a se stesso»; bisogna dunque affermare che ciò che il bene è ἐν τῷ νοητῷ τόπῳ, «nella sfera intellegibile» è il sole ἐν τῷ ὁρατῷ, «nella sfera visibile (Repubblica, 508b-c).

8 Nel senso che imperare sibi maximum imperium est, «dominare su sé stessi è il massimo dominio» (Seneca, Epistulae, 113, 30). Cfr anche Nietzsche, Lettera a Overbeck, 14 aprile 1887: «Non vi è nulla che irriti tanto la gente come il far sentire che si tratta se stessi con un rigore superiore alle loro forze».

9 «Si ripaga male un maestro, se si rimane sempre scolari» (Nietzsche, Così parlò Zarathustra, I discorsi di Zarathustra, Della virtù che dona, 3).

10 Mentre ὁ δὲ ἀνεξέταστος βίος οὐ βιωτὸς ἀνθρώπῳ, «la vita senza ricerca non è degna di essere vissuta per un uomo» (Platone, Apologia, 38a).


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