Secondo discorso - II 35-46
λόγος ἐπιτάφιος
Questo secondo discorso è il più famoso: fu pronunciato alla fine del primo anno di guerra per commemorare i caduti. Si può considerare il manifesto dell’Atene periclea all’apice del suo splendore.
II, 35, 21
χαλεπὸν γὰρ τὸ μετρίως εἰπεῖν ἐν ᾧ μόλις καὶ ἡ δόκησις τῆς ἀληθείας βεβαιοῦται. ὅ τε γὰρ ξυνειδὼς καὶ εὔνους ἀκροατὴς τάχ' ἄν τι ἐνδεεστέρως πρὸς ἃ βούλεταί τε καὶ ἐπίσταται νομίσειε δηλοῦσθαι, ὅ τε ἄπειρος ἔστιν ἃ καὶ πλεονάζεσθαι, διὰ φθόνον, εἴ τι ὑπὲρ τὴν αὑτοῦ φύσιν ἀκούοι. μέχρι γὰρ τοῦδε ἀνεκτοὶ οἱ ἔπαινοί εἰσι περὶ ἑτέρων λεγόμενοι, ἐς ὅσον ἂν καὶ αὐτὸς ἕκαστος οἴηται ἱκανὸς εἶναι δρᾶσαί τι ὧν ἤκουσεν· τῷ δὲ ὑπερβάλλοντι αὐτῶν φθονοῦντες ἤδη καὶ ἀπιστοῦσιν.
«È difficile infatti parlare con la giusta misura in una situazione in cui a stento viene confermata la presunzione della verità. Infatti l’ascoltatore consapevole e benevolo potrebbe forse pensare che qualche aspetto sia illustrato in modo piuttosto carente rispetto a ciò che vuole e sa, e quello inesperto, per invidia, che ce ne siano alcuni anche esagerati, se sente qualcosa di al di sopra della propria natura. Fino a questo punto infatti sono tollerabili le lodi pronunciate su altri, nella misura in cui ciascuno pensa di essere capace egli stesso di fare qualcuna delle cose che ha sentito dire; quanto invece a ciò che eccede le proprie capacità provando subito invidia neanche vi credono».
II, 36, 1
τὴν γὰρ χώραν οἱ αὐτοὶ αἰεὶ οἰκοῦντες διαδοχῇ τῶν ἐπιγιγνομένων μέχρι τοῦδε ἐλευθέραν δι' ἀρετὴν παρέδοσαν.
«Infatti abitando sempre gli stessi la regione l’hanno consegnata alla successione dei posteri libera fino a questo momento grazie alla virtù»
II, 36, 4
ἀπὸ δὲ οἵας τε ἐπιτηδεύσεως ἤλθομεν ἐπ' αὐτὰ καὶ μεθ' οἵας πολιτείας καὶ τρόπων ἐξ οἵων μεγάλα ἐγένετο, ταῦτα δηλώσας πρῶτον εἶμι καὶ ἐπὶ τὸν τῶνδε ἔπαινον.
«Ma a partire da quale stile di vita siamo giunti a questa potenza e con quale costituzione grazie a quali inclinazioni divenne grande, dopo aver dimostrato questo per prima cosa andrò anche all’elogio di questi».
II, 37, 1
'Χρώμεθα γὰρ πολιτείᾳ οὐ ζηλούσῃ τοὺς τῶν πέλας νόμους, παράδειγμα δὲ μᾶλλον αὐτοὶ ὄντες τισὶν ἢ μιμούμενοι ἑτέρους. καὶ ὄνομα μὲν διὰ τὸ μὴ ἐς ὀλίγους ἀλλ' ἐς πλείονας οἰκεῖν δημοκρατία κέκληται· μέτεστι δὲ κατὰ μὲν τοὺς νόμους πρὸς τὰ ἴδια διάφορα πᾶσι τὸ ἴσον, κατὰ δὲ τὴν ἀξίωσιν, ὡς ἕκαστος ἔν τῳ εὐδοκιμεῖ, οὐκ ἀπὸ μέρους τὸ πλέον ἐς τὰ κοινὰ ἢ ἀπ' ἀρετῆς προτιμᾶται, οὐδ' αὖ κατὰ πενίαν, ἔχων γέ τι ἀγαθὸν δρᾶσαι τὴν πόλιν, ἀξιώματος ἀφανείᾳ κεκώλυται.
«Ci avvaliamo di una costituzione che non emula le leggi dei vicini, ma siamo noi un un esempio per alcuni piuttosto che imitare gli altri. E di nome, per il fatto gestisce il governo non per pochi ma per la maggioranza, è chiamata democrazia2; secondo le leggi poi verso le discordie private c’è l’uguaglianza per tutti, mentre secondo la reputazione, in base a come ciascuno è considerato bravo in qualche campo, e non per il partito più che per il valore, viene preferito negli incarichi pubblici, né d’altra parte secondo la povertà, se almeno può fare qualcosa di buono per la città, è ostacolato dall’oscurità della sua posizione sociale3»
II, 37, 3
ἀνεπαχθῶς δὲ τὰ ἴδια προσομιλοῦντες τὰ δημόσια διὰ δέος μάλιστα οὐ παρανομοῦμεν, τῶν τε αἰεὶ ἐν ἀρχῇ ὄντων ἀκροάσει καὶ τῶν νόμων, καὶ μάλιστα αὐτῶν ὅσοι τε ἐπ' ὠφελίᾳ τῶν ἀδικουμένων κεῖνται καὶ ὅσοι ἄγραφοι ὄντες αἰσχύνην ὁμολογουμένην φέρουσιν.
«Mentre trattiamo i rapporti privati senza offendere nelle questioni pubbliche non violiamo le leggi soprattutto per paura, dando ascolto a coloro che di volta in volta ricoprono una carica e alle leggi, e soprattuto a quelle che sono in vigore per la tutela delle vittime di ingiustizia e a quelle che, pur essendo non scritte, procurano unanime disonore».
Leggi scritte e leggi non scritte
Sul tema leggi scritte/leggi non scritte si esprime Sofocle nell’Antigone: Antigone, sorella di Polinice, contesta la legittimità di tale provvedimento, contrapponendo alle leggi scritte (νόμους … τοὺς προκειμένους, v. 481) rappresentate dall’editto, le leggi scritte e incrollabili degli dei (ἄγραπτα κἀσφαλῆ θεῶν / νόμιμα, vv. 454-5) che tutelano il legame di sangue e alle quali attribuisce il primato. Il contesto è la spedizione dei sette conto Tebe (raccontata nell’omonima tragedia da Eschilo) guidata da Polinice, che vi trova la morte assieme al fratello Eteocle; per Creonte solo quest’ultimo, che era re di Tebe in quel momento, ha diritto agli onori funebri. Siccome Antigone esegue i riti in onore di Polinice, viene condannata a morte, come previsto dall’editto; da questo atto derivano il suicidio di Emone, figlio di Creonte e fidanzato di Antigone, e quello di Euridice, moglie del re. Solo alla fine, ma comunque troppo tardi, Creonte riconosce che è meglio compiere la vita rispettando le leggi stabilite. Sofocle dà la preminenza alle leggi non scritte come testimonia anor più chiaramente nell’Edipo re, vv. 863-871: Εἴ μοι ξυνείη φέροντι μοῖρα τὰν / εὔσεπτον ἁγνείαν λόγων / ἔργων τε πάντων, ὧν νόμοι πρόκεινται / ὑψίποδες, οὐρανίαν / δι’ αἰθέρα τεκνωθέντες, ὧν Ὄλυμπος / πατὴρ μόνος, οὐδέ νιν / θνατὰ φύσις ἀνέρων / ἔτικτεν, οὐδὲ μήποτε λά- / θα κατακοιμάσῃ· / μέγας ἐν τούτοις θεός, οὐδὲ γηράσκει, «Che sia con me la sorte di portare / la sacra purezza di parole / e di opere tutte, davanti alle quali sono stabilite leggi / sublimi, generate / attraverso l'etere celeste, delle quali Olimpo è l'unico padre, né le / partorì natura mortale di uomini, / né mai oblio / le addormenterà: / grande in queste il dio, e non invecchia».
Il tema era di particolare rilevanza nella seconda metà del V secolo a.C., l’età dei sofisti, il cosiddetto «illuminismo greco»; lo vediamo riflesso nei dialoghi di Platone, in particolare Gorgia e Repubblica.
Platone stesso ne dà una sua definizione nelle Leggi, 793a-b: τὰ καλούμενα ὑπὸ τῶν πολλῶν ἄγραφα νόμιμα· καὶ οὓς πατρίους [b] νόμους ἐπονομάζουσιν, οὐκ ἄλλα ἐστὶν ἢ τὰ τοιαῦτα σύμπαντα… δεσμοὶ γὰρ οὗτοι πάσης εἰσὶν πολιτείας, «le cosiddette dai più leggi non scritte; e quelle che denominiamo leggi patrie, non sono altro che tutte le norme siffatte… infatti queste sono i legami di ogni costituzione».
Tra gli scrittori latini si esprime a favore delle leggi non scritte Sallustio, Cat. 9, 1: Igitur domi militiaeque boni mores colebantur; concordia maxuma, minuma avaritia erat; ius bonumque apud eos non legibus magis quam natura valebat, «Dunque sia in pace sia in guerra venivano praticati i buoni costumi; massima era la concordia, minima l’avidità; il diritto e l’onestà erano in auge non più per le leggi che per disposizione naturale». Un rimpianto simile si trova anche in Tacito nella Germania (19), quando conclude la descrizione della moralità delle donne germaniche: plusque ibi boni mores valent quam alibi bonae leges, «valgono di più là i buoni costumi che altrove le buone leggi»; il riferimento polemico è naturalmente a Roma dove corrumpere et corrumpi saeculum vocatur (Germania, 19), «corromper ed essere corrotti è chiamata moda», perché corruptima re publica, plurimae leges (Annales, III, 27), «più lo stato è corrotto più sono le leggi».
Arguto anche l’aneddoto riportato da Plutarco nella Vita di Solone (5, 4-6) in cui lo scita Anacarsi prende in giro il legislatore ateniese alle prese con le sue riforme:
[4] τὸν οὖν Ἀνάχαρσιν πυθόμενον, καταγελᾶν τῆς πραγματείας τοῦ Σόλωνος, οἰομένου γράμμασιν ἐφέξειν τὰς ἀδικίας καὶ πλεονεξίας τῶν πολιτῶν, ἃ μηδὲν τῶν ἀραχνίων διαφέρειν, ἀλλ' ὡς ἐκεῖνα τοὺς μὲν ἀσθενεῖς καὶ λεπτοὺς τῶν ἁλισκομένων καθέξειν, ὑπὸ δὲ τῶν δυνατῶν καὶ πλουσίων [5] διαρραγήσεσθαι. τὸν δὲ Σόλωνα φασὶ πρὸς ταῦτ' εἰπεῖν, ὅτι καὶ συνθήκας ἄνθρωποι φυλάττουσιν ἃς οὐδετέρῳ λυσιτελές ἐστι παραβαίνειν τῶν θεμένων, καὶ τοὺς νόμους αὐτὸς οὕτως ἁρμόζεται τοῖς πολίταις, ὥστε πᾶσι τοῦ παρανομεῖν βέλτιον ἐπιδεῖξαι τὸ δικαιοπραγεῖν,
[6] ἀλλὰ ταῦτα μὲν ὡς Ἀνάχαρσις εἴκαζεν ἀπέβη μᾶλλον ἢ κατ' ἐλπίδα τοῦ Σόλωνος. ἔφη δὲ κἀκεῖνο θαυμάζειν ὁ Ἀνάχαρσις ἐκκλησίᾳ παραγενόμενος, ὅτι λέγουσι μὲν οἱ σοφοὶ παρ' Ἕλλησι, κρίνουσι δ' οἱ ἀμαθεῖς.
«[4] Dicono che Anacarsi, venuto a saperlo, derise l’operaro di Solone, che pensava di frenare le ingiustizie e le avidità dei cittadini con le leggi scritte, le quali non differiscono per niente dalle ragnatele, ma come quelle avrebbero trattenuto le prede deboli e minute, mentre sarebbero state squarciate dai potenti e ricchi. [5] Dicono che Solone a queste critiche rispose che gli uomini mantengono i patti che non è conveniente violare per nessuna delle due parti che li hanno stabiliti, e che egli adattava le leggi ai cittadini in modo da mostrare che per tutti è meglio agire secondo giustizia piuttosto che violare la legge. [6] Ma queste cose andarono a finire come immaginava Anacarsi piuttosto che secondo la speranza di Solone. Disse inoltre Anacarsi di stupirsi anche di quello, dopo aver assistito a un’assemblea, cioè del fatto che presso i Greci parlano i sapienti, ma giudicano gli ignoranti».
II, 38, 1
Καὶ μὴν καὶ τῶν πόνων πλείστας ἀναπαύλας τῇ γνώμῃ ἐπορισάμεθα, ἀγῶσι μέν γε καὶ θυσίαις διετησίοις νομίζοντες, ἰδίαις δὲ κατασκευαῖς εὐπρεπέσιν, ὧν καθ' ἡμέραν ἡ τέρψις [2] τὸ λυπηρὸν ἐκπλήσσει.
«Inoltre ci siamo procurati per lo spirito moltissimi sollievi dalle fatiche, facendo uso di gare4 e feste sacre, e di eleganti edifici privati, il cui godimento quotidiano scaccia la pena5».
II, 39, 1
πιστεύοντες οὐ ταῖς παρασκευαῖς τὸ πλέον καὶ ἀπάταις ἢ τῷ ἀφ' ἡμῶν αὐτῶν ἐς τὰ ἔργα εὐψύχῳ·
«siccome confidiamo nei preparativi e nei tranelli non più che nel nostro ardimento verso le azioni».
II, 39, 4
καίτοι εἰ ῥᾳθυμίᾳ μᾶλλον ἢ πόνων μελέτῃ καὶ μὴ μετὰ νόμων τὸ πλέον ἢ τρόπων ἀνδρείας ἐθέλομεν κινδυνεύειν, περιγίγνεται ἡμῖν τοῖς τε μέλλουσιν ἀλγεινοῖς μὴ προκάμνειν.
«Per altro se preferiamo rischiare con noncuranza più che con esercizio alle fatiche e non con le leggi più che con il vigore dei caratteri, ce ne deriva di non abbatterci in anticipo per i dolori futuri6».
II, 40, 1-2
[1] Φιλοκαλοῦμέν τε γὰρ μετ' εὐτελείας καὶ φιλοσοφοῦμεν ἄνευ μαλακίας· πλούτῳ τε ἔργου μᾶλλον καιρῷ ἢ λόγου κόμπῳ χρώμεθα, καὶ τὸ πένεσθαι οὐχ ὁμολογεῖν τινὶ αἰσχρόν, [2] ἀλλὰ μὴ διαφεύγειν ἔργῳ αἴσχιον. ἔνι τε τοῖς αὐτοῖς οἰκείων ἅμα καὶ πολιτικῶν ἐπιμέλεια, καὶ ἑτέροις πρὸς ἔργα τετραμμένοις τὰ πολιτικὰ μὴ ἐνδεῶς γνῶναι· μόνοι γὰρ τόν τε μηδὲν τῶνδε μετέχοντα οὐκ ἀπράγμονα, ἀλλ' ἀχρεῖον νομίζομεν, καὶ οἱ αὐτοὶ ἤτοι κρίνομέν γε ἢ ἐνθυμούμεθα ὀρθῶς τὰ πράγματα, οὐ τοὺς λόγους τοῖς ἔργοις βλάβην ἡγούμενοι, ἀλλὰ μὴ προδιδαχθῆναι μᾶλλον λόγῳ πρότερον ἢ ἐπὶ ἃ δεῖ ἔργῳ ἐλθεῖν.
«Amiamo il bello con semplicità e amiamo la cultura senza mollezza; usiamo la ricchezza7 più come occasione di agire che come vanteria8 di parole, e essere povero non è una vergogna ammetterlo, ma piuttosto è una vergogna non evitarlo con l’operosità. Nelle medesime persone c’è la cura degli affari privati e insieme di quelli pubblici, e per gli altri che sono rivolti a delle attività è possibile conocere le questioni politiche adeguatamente; noi soli consideriamo chi non partecipa in nulla a questi problemi non pacifico, ma inutile9, e proprio noi giudichiamo o esaminiamo correttamente i fatti, considerando un danno per le azioni non i discorsi, ma se mai non essere istruiti in anticipo con la parola prima cioè di giungere a ciò che si deve compiere con l’azione».
La bellezza coniugata alla semplicità
Tale visione della bellezza si può associare a Caio Petronio, l’elegantiae arbiter identificato come l’autore del Satyricon, di cui ci parla Tacito negli Annales (XVI, 18): Illi dies per somnum, nox officiis et oblectamentis uitae transigebatur; utque alios industria, ita hunc ignauia ad famam protulerat, habebaturque non ganeo et profligator, ut plerique sua haurientium, sed erudito luxu. Ac dicta factaque eius quanto solutiora et quandam sui neglegentiam praeferentia, tanto gratius in speciem simplicitatis accipiebantur. Pro consule tamen Bithyniae et mox consul uigentem se ac parem negotiis ostendit. Dein reuolutus ad uitia seu uitiorum imitatione inter paucos familiarium Neroni adsumptus est, elegantiae arbiter, dum nihil amoenum et molle adfluentia putat, nisi quod ei Petronius adprobauisset.
«Egli trascorreva il giorno nel sonno, la notte negli affari e nei piaceri della vita; e come l’operosità aveva portato alla fama gli altri, questo ve lo aveva portato l’indolenza, ed era considerato non un debosciato e uno scialacquatore, come i più che danno fondo alle loro sostanze, ma uno dalla raffinatezza ricercata. E le sue parole e azioni quanto più erano disinvolte e presentavano una certa trascuratezza di sé, con tanto maggior favore erano accolte come manifestazione di semplicità. Tuttavia come proconsole in Bitinia e subito dopo come console si dimostrò energico e all’altezza dei compiti. Poi ritornato ai vizi o anche per imitazione dei vizi, fu ammesso tra i pochi intimi di Nerone, come arbitro di eleganza, tanto che il principe niente riteneva bello e delicato se non ciò che Petronio gli avesse approvato».
La neglegentia di Petronio trova corrispondenza nella «magnifica negligenza che Ulrich, nel romanzo di Musil L’uomo senza qualità, riscontra nelle case dell’aristocrazia rispetto a quelle della borghesia (Parte seconda, Le stesse cose ritornano, 67. Diotima e Ulrich): «Gli ambienti aristocratici erano i resti di un modo di vivere grandioso ma senza acqua corrente, e nelle case e nelle sale di riunione della ricca borghesia se ne vedeva ripetuta la copia, migliorata nel gusto e nei servizi igienici, ma alquanto sbiadita. Una casta dominante rimane sempre un poco barbarica; scorie e residui, che il fuoco del tempo non aveva bruciati, eran rimasti sparsi al loro posto nei castelli patrizi; vicino agli scaloni d’onore il piede calcava tavolati di legno dolce, e orrendi mobili nuovi se ne stavano placidi fra stupendi pezzi antichi. La classe degli arricchiti, invece, innamorata dei grandi, eccelsi momenti dei suoi predecessori, aveva fatto involontariamente una scelta più raffinata, Se un castello apparteneva a una famiglia borghese, non lo si vedeva soltanto provvisto di comodità moderne come un lampadario avito rivestito di fili elettrici, ma anche nell’arredamento ben poco di bello era stato eliminato, e molte cose di valore erano state aggiunte, o per propria scelta o per consiglio indiscutibile di esperti. Quell’affinamento, ancor più che nei castelli, era evidente nelle abitazioni cittadine, che secondo il gusto del tempo erano arredate nello stile impersonale e fastoso dei transatlantici, ma in quel paese di raffinate ambizioni sociali conservavano - grazie a una patina inimitabile, all’opportuno isolamento dei mobili o alla posizione dominante di un quadro su una parete - l’eco delicata ma chiara di una grande musica svanita […]
Erano invitati insieme in residenze campestri, e Ulrich notò che vi si vedeva sovente mangiare la frutta con le mani, senza sbucciarla, mentre nelle case dell'alta borghesia il cerimoniale con coltello e forchetta era rigidamente osservato; la stessa osservazione si poteva fare a proposito della conversazione che quasi soltanto nelle case borghesi era signorile e distinta, mentre negli ambienti aristocratici prevalevano i discorsi disinvolti, senza pretese, alla maniera dei cocchieri. Le dimore borghesi erano più igieniche e razionali. Nei castelli patrizi d'inverno si gelava; le scale logore e strette non erano una rarità, e accanto a sontuose sale di ricevimento si trovavano camere da letto basse e ammuffite. Non esistevano montavivande né bagni per la servitù. Ma, a guardar bene, c'era proprio in questo un senso più eroico, il senso della tradizione e di una magnifica negligenza!».
In effetti nel Satyricon emerge un’idea di bellezza coniugata a semplicità e naturalezza che trova i suoi modelli in quelli che già nel I secolo d.C. erano considerati dei classici, contrapponendosi all’ostentazione dell’artificio (cap. 2):
Leuibus enim atque inanibus sonis ludibria quaedam excitando, effecistis ut corpus orationis eneruaretur et caderet. Nondum iuuenes declamationibus continebantur, cum Sophocles aut Euripides inuenerunt uerba quibus deberent loqui. Nondum umbraticus doctor ingenia deleuerat, cum Pindarus nouemque lyrici Homericis uersibus canere timuerunt. Et ne poetas quidem ad testimonium citem, certe neque Platona neque Demosthenen ad hoc genus exercitationis accessisse uideo. Grandis et, ut ita dicam, pudica oratio non est maculosa nec turgida, sed naturali pulchritudine exsurgit.
«Infatti suscitando certi giochetti con suoni leggeri e vuoti, avete fatto in modo che il corpo dell’orazione si rammollisse e cadesse. Non ancora i giovani erano imbrigliati dalle declamazioni, quando Sofocle o Euripide trovarono le parole con cui dovevano parlare. Non ancora un maestro cresciuto nell’ombra aveva distrutto le intelligenze, quando Pindaro e i nove lirici esitarono a cantare con versi omerici. E per non citare solo i poeti a testimonianza, vedo che di certo né Platone né Demostene si sono mai accostati a questo genere di esercitazione. La grande e, per così dire, pudica orazione non è né screziata né gonfia, ma si eleva per naturale bellezza».
Tucidide associa la semplicità anche alla nobiltà (III, 83, 1) quando parla della guerra civile a Corcira: Οὕτω πᾶσα ἰδέα κατέστη κακοτροπίας διὰ τὰς στάσεις τῷ Ἑλληνικῷ, καὶ τὸ εὔηθες, οὗ τὸ γενναῖον πλεῖστον μετέχει, καταγελασθὲν ἠφανίσθη, «Così ogni forma di malignità si produsse nel mondo greco a causa delle guerre civili, e la semplicità, di cui per lo più partecipa la nobiltà, derisa sparì».
II, 40, 3
διαφερόντως γὰρ δὴ καὶ τόδε ἔχομεν ὥστε τολμᾶν τε οἱ αὐτοὶ μάλιστα καὶ περὶ ὧν ἐπιχειρήσομεν ἐκλογίζεσθαι· ὃ τοῖς ἄλλοις ἀμαθία μὲν θράσος, λογισμὸς δὲ ὄκνον φέρει. κράτιστοι δ' ἂν τὴν ψυχὴν δικαίως κριθεῖεν οἱ τά τε δεινὰ καὶ ἡδέα σαφέστατα γιγνώσκοντες καὶ διὰ [4] ταῦτα μὴ ἀποτρεπόμενοι ἐκ τῶν κινδύνων.
«Infatti ci distinguiamo dagli altri anche in questo così da osare sempre noi al massimo e a calcolare sulle azioni che intendiamo intraprendere; e in ciò per gli altri l’ignoranza porta spavalderia e il calcolo titubanza10. Ma fortissimi d’animo si dovrebbero giudicare giustamente coloro che conoscono nel modo più chiaro gli aspetti terribili e quelli piacevoli e non per questi si distolgono dai pericoli».
II, 40, 4-5
καὶ τὰ ἐς ἀρετὴν ἐνηντιώμεθα τοῖς πολλοῖς· οὐ γὰρ πάσχοντες εὖ, ἀλλὰ δρῶντες κτώμεθα τοὺς φίλους. βεβαιότερος δὲ ὁ δράσας τὴν χάριν ὥστε ὀφειλομένην δι' εὐνοίας ᾧ δέδωκε σῴζειν· ὁ δὲ ἀντοφείλων ἀμβλύτερος, εἰδὼς οὐκ ἐς χάριν, ἀλλ' ἐς [5] ὀφείλημα τὴν ἀρετὴν ἀποδώσων. καὶ μόνοι οὐ τοῦ ξυμφέροντος μᾶλλον λογισμῷ ἢ τῆς ἐλευθερίας τῷ πιστῷ ἀδεῶς τινὰ ὠφελοῦμεν.
«Anche in fatto di benemerenza ci contrapponiamo ai più: infatti non ricevendo un beneficio, ma facendolo acquistiamo gli amici. È più saldo chi ha fatto un favore, così da conservare, per mezzo della benvolenza verso colui a cui l’ha concesso, la gratitudine dovutagli da costui; chi invece è in debito è più lento, sapendo che ricambierà la benemerenza non per fare un favore, ma per dovere11. E siamo i soli ad aiutare senza paura qualcuno non per calcolo di convenienza più che per fede nella libertà».
II, 41, 1
'Ξυνελών τε λέγω τήν τε πᾶσαν πόλιν τῆς Ἑλλάδος παίδευσιν εἶναι.
«Riassumendo dico che tutta la città è la scuola dell’Ellade».
1 Cfr. Sallustio, Cat., 3: Sed in magna copia rerum aliud alii natura iter ostendit. Pulchrum est bene facere rei publicae, etiam bene dicere haud absurdum est; vel pace vel bello clarum fieri licet; et qui fecere et qui facta aliorum scripsere, multi laudantur. Ac mihi quidem, tametsi haudquaquam par gloria sequitur scriptorem et auctorem rerum, tamen in primis arduum videtur res gestas scribere: primum quod facta dictis exaequanda sunt; dehinc quia plerique, quae delicta reprehenderis, malevolentia et invidia dicta putant, ubi de magna virtute atque gloria bonorum memores, quae sibi quisque facilia factu putat, aequo animo accipit, supra ea veluti ficta pro falsis ducit, «… poi perché i più, i misfatti che hai puoi biasimare, li considerano dettati da malevolenza e invidia, quando fai menzione della grande virtù e gloria dei valolorosi, le azioni che ciascuno ritiene facili a compiersi da parte sua, le accetta tranquillamente, quelle che eccedono le proprie capacità le considera inventate come false»; e Tacito, Annales, IV, 18: beneficia eo usque laeta sunt dum videntur exolvi posse: ubi multum antevenere pro gratia odium redditur, «I benefici sono piacevoli fintanto che sembrano di poter essere ricambiati: quando oltrepassano di molto al posto della gratitudine viene restituito odio».
2 Erodoto (III, 80), nel discorso di Otane, usa il nome di ἰσονομίη: Πλῆθος δὲ ἄρχον πρῶτα μὲν οὔνομα πάντων κάλλιστον ἔχει, ἰσονομίην, «Ma un popolo che comanda ha il nome di gran lunga più bello di tutti, isonomia».
3 Cfr. art. 3 della nostra costituzione: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
4 Sullo spirito agonistico dei Greci riflette così Nietzsche (Umano, troppo umano, II, Parte seconda, Il viandante e la sua ombra): «226. Saggezza dei Greci. Poiché il voler vincere e primeggiare è un tratto di natura invincibile, più antico e originario di ogni stima e gioia di uguaglianza, lo Stato greco aveva sanzionato fra gli uguali la gara ginnastica e musica, aveva cioè delimitato un'arena dove quell'impulso doveva scaricarsi senza mettere in pericolo l'ordinamento politico. Con il decadere finale della gara ginnastica e musica, lo Stato greco cadde nell'inquietudine e dissoluzione interna.
5 A questo passo fa riferimento Nietzsche (La nascita della tragedia, Tentativo di autocritica, 4: «Una questione fondamentale è il rapporto del Greco col dolore, il suo grado di sensibilità,… la questione se in realtà il suo desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppato dalla mancanza, dalla privazione, dalla melanconia e dal dolore. Posto cioè che proprio questo fosse vero – e Pericle (o Tucidide) ce lo lascia intendere nel grande discorso funebre – da che cosa discenderebbe allora il desiderio opposto, che si manifestò cronologicamente prima, il desiderio del brutto, la buona e dura volontà di pessimismo nel Greco antico, di mito tragico, dell’immagine di tutto il terribile, il malvagio, l’enigmatico, il distruttivo e il fatale che si cela in fondo all’esistenza, – da che cosa discenderebbe allora la tragedia?».
Sulla festa come tratto distintivo del mondo pagano: Nietzsche, Scelta di frammenti postumi 1887-1888, trad. it. Mondadori, Milano, 1975, pag. 347: «Bisogna essere molto grossolani per non sentire la presenza di cristiani e di valori cristiani come un’oppressione, sotto la quale ogni vera atmosfera di festa se ne va al diavolo. Nella festa è compreso: orgoglio, tracotanza, sfrenatezza; la stravaganza; lo scherno per ogni forma di serietà e di perbenismo; una divina affermazione di sé per pienezza e perfezione animale – tutti stati d’animo a cui il cristiano non può onestamente dire di sì. La festa è paganesimo per eccellenza».
Ancora Nietzsche in Umano, troppo umano, II, Opinioni e sentenze diverse: «187. Il mondo antico e la gioia. Gli uomini del mondo antico sapevano gioire meglio; noi sappiamo rattristarci meno; quelli riuscivano a trovare sempre nuovi motivi di sentirsi bene e di celebrare feste, impegnando tutta la loro ricchezza di acume e di riflessione, mentre noi rivolgiamo il nostro spirito all’adempimento di compiti che mirano piuttosto alla liberazione dal dolore, all’eliminazione delle cause di dispiacere. Quanto alle sofferenze dell’esistenza, gli antichi cercavano di dimenticare, o di piegare in qualche modo il sentimento verso il piacevole; sicché a ciò essi cercavano di ovviare con palliativi, mentre noi affrontiamo le cause del soffrire e nel complesso preferiamo agire in senso profilattico. Forse noi stiamo costruendo solo le fondamenta, su cui uomini futuri costruiranno di nuovo anche il tempio della gioia».
6 Anche Seneca concorda sul fatto di non darsi troppo pensiero dei possibili mali futuri (Epistulae, 13): 5. Quaedam ergo nos magis torquent quam debent, quaedam ante torquent quam debent, quaedam torquent cum omnino non debeant; aut augemus dolorem aut praecipimus aut fingimus… 7. 'Quomodo' inquis 'intellegam, vana sint an vera quibus angor?' Accipe huius rei regulam: aut praesentibus torquemur aut futuris aut utrisque… 8. plerumque enim suspicionibus laboramus, et illudit nobis illa quae conficere bellum solet fama, multo autem magis singulos conficit, «5. Certe cose dunque ci tormentano più di quanto devono, certe ci tormentano prima di quanto devono, certe altre ci tormentano non dovendo affatto; o accresciamo il dolore o lo anticipiamo o lo inventiamo»… 7. “Come” tu dici “posso capire, se sono vani o veri i motivi per cui sono in ansia?” Ascolta una norma di questa cosa: o siamo tormentati da sofferenze presenti o da quelle future o da entrambe»… 8. Per lo più infatti soffriamo a causa di sospetti, e si prendono gioco di noi quelle fole che sono solite definire una guerra, ma molto di più definiscono gli individui». Infine conclude: 16. 'Inter cetera mala hoc quoque habet stultitia: semper incipit vivere.’, «16. Tra gli altri mali anche questo ha la stupidità: sempre incomincia a vivere».
7 Cfr. Senofonte, Economico, 1, 10-11; il problema posto è se le ricchezze siano un bene e Socrate risponde a Critobulo facendo la distinzione tra κεκτῆσθαι (possedere) e χρῆσθαι (usare): non basta possedere le ricchezze, bisogna saperle usare, cosa per cui ci vuole ἐπιστήμη (scienza, appunto): Ταὐτὰ ἄρα ὄντα τῷ μὲν ἐπισταμένῳ χρῆσθαι αὐτῶν ἑκάστοις χρήματά ἐστι, τῷ δὲ μὴ ἐπισταμένῳ οὐ χρήματα· ὥσπερ γε αὐλοὶ τῷ μὲν ἐπισταμένῳ ἀξίως λόγου αὐλεῖν χρήματά εἰσι, τῷ δὲ μὴ ἐπισταμένῳ οὐδὲν μᾶλλον ἢ ἄχρηστοι λίθοι, εἰ μὴ ἀποδιδοῖτό γε αὐτούς. τοῦτ' ἄρα φαίνεται ἡμῖν, ἀποδιδομένοις μὲν οἱ αὐλοὶ χρήματα, μὴ ἀποδιδομένοις δὲ ἀλλὰ κεκτημένοις οὔ, τοῖς μὴ ἐπισταμένοις αὐτοῖς χρῆσθαι. «le medesime cose che sono beni utili per chi sa fare uso di ciascuno di essi, per chi non ne sa fare uso sono beni inutili; come i flauti per chi sa suonarli in modo degno di considerazione sono beni utili, per chi non lo saa fare invece sono niente più che sassi inutili, a meno che non li venda. Questo dunque ci è chiaro: per coloro che non sanno usarli, i flauti sono beni utili se li vendono, ma se li possiedono senza venderli no».
Le ricchezze dunque sono utili solo in relazione all’uso che si è in grado di farne.
Anche Seneca rifletta su tale distinzione (Epistulae, 9, 14): Volo tibi Chrysippi quoque distinctionem indicare. Ait sapientem nulla re egere, et tamen multis illi rebus opus esse: 'contra stulto nulla re opus est - nulla enim re uti scit - sed omnibus eget'. Sapienti et manibus et oculis et multis ad cotidianum usum necessariis opus est, eget nulla re; egere enim necessitatis est, nihil necesse sapienti est. «Voglio indicarti anche la distinzione di Crisippo. Dice che il sapiente non manca di nessuna cosa, e tuttavia ha bisogno di molte cose: “al contrario lo stolto non ha bisogno di nessuna cosa – infatti non sa usare nessuna cosa – però manca di tutte”. Il sapiente ha bisogno sia di mani sia di occhi sia di molte cose necessarie all’uso quotidiano, non manca di nessuna cosa; mancare di qualcosa infatti è proprio della necessità, niente è necessario per il sapiente».”
8 Cfr. Sofocle, Antigone, 127-128: Ζεὺς γὰρ μεγάλης γλώσσης κόμπους / ὑπερεχθαίρει, «Zeus detesta i vanti di una lingua superba». È la parodo in cui il coro mette in guardia dagli eccessi, aanche verbali.
9 Pochi anni dopo Platone, nella Repubblica (X, 620b), attribuisce una connotazione positiva al disimpegno politico, πόρρω δ᾽ ἐν ὑστάτοις ἰδεῖν τὴν τοῦ γελωτοποιοῦ Θερσίτου πίθηκον ἐνδυομένην. κατὰ τύχην δὲ τὴν Ὀδυσσέως λαχοῦσαν πασῶν ὑστάτην αἱρησομένην ἰέναι, μνήμῃ δὲ τῶν προτέρων πόνων φιλοτιμίας λελωφηκυῖαν ζητεῖν περιιοῦσαν χρόνον πολὺν βίον ἀνδρὸς ἰδιώτου ἀπράγμονος, καὶ μόγις εὑρεῖν κείμενόν που καὶ παρημελημένον ὑπὸ τῶν ἄλλων, καὶ εἰπεῖν ἰδοῦσαν ὅτι τὰ αὐτὰ ἂν ἔπραξεν καὶ πρώτη λαχοῦσα, καὶ ἁσμένην ἑλέσθαι, «L’anima di Ulisse andava a scegliere sorteggiata per case ultima tra tutte, ma per ricordo delle precedenti sofferenze, guarita dall’ambizione, cercava andando in giro per molto tempo una vita di un uomo privato sfaccendato, e a stento latrovò che giaceva da qualche parte e trascurata dagli altri, e disse vedendola che avrebbe fatto la stessa scelta anche sorteggiata per prima, e la prese contenta». Siamo nell’oltretomba dove le anime devono scegliere la vita in cui si reincarneranno, e lo fanno per lo più influenzate dalla pita precedente.
Qui, forse, nel rovesciare il rapporto tra sfera pubblica e privata, è anticipato quel sentimento di stanchezza post-filosofica di cui parla (La cultura greca e le origini del pensiero occidentale. Il giocoso in Callimaco, pagg. 371-372): «Questi poeti ellenistici erano, per dirla in una parola, post-filosofici, mentre i poeti arcaici erano pre-filosofici. La poesia piú antica tende a scoprire sempre nuovi lati dello spirito, e trova perciò una naturale continuazione nella conquista razionale dei campi che aveva da poco scoperto, cioè nella filosofia e nella scienza. Cosí l'epica ha, coi suoi miti eroici, posto le basi della storiografia jonica e formulando il problema dell'ἀρχή (arché) nei poemi teogonici e cosmologici, ha creato le premesse della filosofia jonica della natura. La lirica porta ad Eraclito, il dramma a Socrate e a Platone. Nel momento in cui sorgeva la poesia ellenistica, declinava la grande epoca d'incessante evoluzione dei sistemi filosofici. Il secolo IV aveva visto nascere le opere di Platone, di Aristotele e di Teofrasto, e alla fine del secolo erano state fondate le due scuole filosofiche piú importanti per i tempi futuri: il Giardino di Epicuro e la Stoa di Zenone. La filosofia aveva dunque raggiunto in Grecia i suoi risultati più alti, quando in un nuovo centro spirituale, in Alessandria d'Egitto, residenza dei Tolomei, si formò una cerchia di poeti, fra cui Teocrito e il piú notevole di tutti, Callimaco, i quali portarono la poesia a una nuova fioritura. Post-filosofici sono questi poeti, nel senso che non credono piú nella possibilità di dominare teoreticamente il mondo, e nell'esercizio della poesia, a cui Aristotele aveva ancora riconosciuto un carattere filosofico, si allontanano scetticamente dall’universale (cfr. sopra, p. I41) e si rivolgono con amore al particolare».
10 Così commenta questa considerazione B. Knox (Atene, in La tragedia greca. Guida storica e critica, Bari, Laterza, 1988, pagg. 255-256): «la rapidità di azione combinata all’attenta riflessione che troviamo in Edipo trova un riflesso ad Atene nella fiducia nel dibattito che prepara all’azione, e non la impedisce, come accade a certuni»; seguono le parole di Pericle riguardo ai discorsi.
Cfr. I, 22, 2 τὰ δ' ἔργα τῶν πραχθέντων, «le azioni tra i fatti». Tucidide ha appena spiegato come si è regolato in relazione a ὅσα μὲν λόγῳ εἶπον ἕκαστοι, «quante cose disse ciascuno a parole»; le parole dunque sono una parte dei fatti e vengono prima delle azioni.
11 Come sappiamo Machiavelli (Principe, XVII) sostiene l’esatto contrario: «Nasce da questo una disputa, s'e' gli è meglio essere amato che temuto o e converso. Rispondesi che si vorrebbe essere l'uno e l'altro; ma perché e' gli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbi a mancare dell'uno de' dua. Perché degli uomini si può dire questo, generalmente, che sieno ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi del guadagno; e mentre fai loro bene e' sono tutti tua, offeronti el sangue, la roba, la vita, e' figliuoli, come di sopra dissi, quando el bisogno è discosto: ma quando ti si appressa, si rivoltono, e quello principe che si è tutto fondato in su le parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, ruina. Perché le amicizie che si acquistono col prezzo, e non con grandezza e nobilità di animo, si meritano, ma elle non si hanno, e alli tempi non si possono spendere; e li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere: perché lo amore è tenuto da uno vinculo di obligo, il quale, per essere gl'uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che non ti abbandona mai».
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