Nel capitolo VI Seneca affronta un tema a lui caro: la felicità di coloro che sono reputati felici è per lo più simulata. Il tema sarà poi ulteriormente sviluppato nelle Epistulae.
4. Isti quos pro felicibus aspicis, si non qua occurrunt sed qua latent uideris, miseri sunt, sordidi turpes, ad similitudinem parietum suorum extrinsecus culti; non est ista solida et sincera felicitas: crusta est et quidem tenuis. Itaque dum illis licet stare et ad arbitrium suum ostendi, nitent et inponunt; cum aliquid incidit quod disturbet ac detegat, tunc apparet quantum altae ac uerae foeditatis alienus splendor absconderit.
«4. Questi che tu guardi come fortunati, se li vedi non dal lato con cui si presentano ma da quello che nascondono, sono meschini, squallidi, vergognosi, a somiglianza delle loro pareti belli di fuori; non è questa una felicità solida e autentica: è una patina e pure sottile. E così finché è loro consentito stare dritti e mostrarsi a loro arbitrio, brillano e traggono in inganno; quando capita qualcosa che li sconvolge e scopre, allora appare quanta profonda e reale ripugnanza nascondesse quello splendore posticcio».
Questa idea piace a Seneca, che la declina con la metafora teatrale in Epistulae, 80:
5. Libera te primum metu mortis (illa nobis iugum inponit), deinde metu paupertatis. 6. Si vis scire quam nihil in illa mali sit, compara inter se pauperum et divitum vultus: saepius pauper et fidelius ridet; nulla sollicitudo in alto est; etiam si qua incidit cura, velut nubes levis transit: horum qui felices vocantur hilaritas ficta est aut gravis et suppurata tristitia, eo quidem gravior quia interdum non licet palam esse miseros, sed inter aerumnas cor ipsum exedentes necesse est agere felicem. 7. Saepius hoc exemplo mihi utendum est, nec enim ullo efficacius exprimitur hic humanae vitae mimus, qui nobis partes quas male agamus adsignat.
«5. Liberati innanzitutto dalla paura della morte (essa ci impone un giogo), poi dalla paura della povertà. 6. Se vuoi sapere quanto non ci sia nulla di male in essa, confronta tra loro i volti dei poveri e dei ricchi: il povero ride più spesso e più schiettamente; nessuna preoccupazione si trova nel profondo; anche se incappa in qualche affanno, passa come una nuvola leggera: l’allegria di questi che sono chiamati felici è recitata oppure è una tristezza opprimente e che rode, e di certo tanto più opprimente poiché non è possibile ogni tanto essere infelici apertamente, ma divorando il cuore stesso tra le pene si è obbligati a fare la parte del felice. 7. Devo usare più spesso questo esempio, e infatti da nessun altro con più efficacia è rappresentato questo mimo della vita umana, che ci assegna i ruoli che interpretiamo male».
8. omnium istorum personata felicitas est. Contemnes illos si despoliaveris.
«8. La felicità di tutti costoro è una maschera8. Li disprezzerai se avrai tolto loro i vestiti».
Il concetto è che non hominibus tantum sed rebus persona demenda est et reddenda facies sua9, «Non solo agli uomini ma anche alle cose bisogna levare la maschera e restituire il loro aspetto autentico» (Epistulae, 24, 13).
8 Cfr. Schopenhauer, Parerga e paralipomena I, Aforismi sulla saggezza della vita. Capitolo quinto: «La maggior parte degli splendori e delle magnificenze è una pura apparenza… tutto ciò è l’insegna, l’atteggiamento, il geroglifico della gioia… lo scopo consiste semplicemente nel far credere ad altri che là per l’appunto ha preso alloggio la gioia: la vera intenzione è di suscitare tale illusione nel cervello altrui…».
9 Cfr. Lucrezio, De rerum natura, III, vv. 55-58: quo magis in dubiis hominem spectare periclis / convenit / adversisque in rebus noscere qui sit; / nam verae voces tum demum pectore ab imo / eliciuntur [et] eripitur persona manet res., «A maggior ragione è necessario osservare l’uomo nei dubbiosi / pericoli e conoscere chi sia nelle avversità; infatti allora infine le vere voci dal profondo del cuore / erompono e viene strappata la maschera, rimane l’essenza».
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