33
(Grandezza e mediocrità)
L’autore in questo capitolo si chiede se sia [1] κρεῖττον ἐν ποιήμασι καὶ λόγοις μέγεθος ἐν ἐνίοις διημαρτημένον ἢ τὸ σύμμετρον μὲν ἐν τοῖς κατορθώμασιν ὑγιὲς δὲ πάντη καὶ ἀδιάπτωτον, «meglio negli scritti in versi e in prosa una grandezza che ha fallito in alcuni punti o la mediocrità nelle correttezze, sana ovunque e priva di cadute».
La risposta parte da questa considerazione: [2] αἱ ὑπερμεγέθεις φύσεις ἥκιστα καθαραί· ‹τὸ› γὰρ ἐν παντὶ ἀκριβὲς κίνδυνος μικρότητος, «le nature particolarmente grandi sono le meno pure: infatti la precisione in ogni aspetto diventa un rischio di meschinità», perché εἶναί τι χρὴ καὶ παρολιγωρούμενον, «bisogna che ci sia anche una certa trascuratezza»; così come è forse necessario anche τὸ τὰς μὲν ταπεινὰς καὶ μέσας φύσεις διὰ τὸ μηδαμῆ παρακινδυνεύειν μηδὲ ἐφίεσθαι τῶν ἄκρων ἀναμαρτήτους, τὰ δὲ μεγάλα ἐπισφαλῆ δι' αὐτὸ γίνεσθαι τὸ μέγεθος, «il fatto che le nature meschine e mediocri, non correndo mai rischi, senza mai sbagliare, non raggiungano le vette più alte, mentre i grandi talenti siano inclini a scivolare a causa della loro stessa grandezza1».
Segue una riflessione un po’ sconsolata: [3] φύσει πάντα τὰ ἀνθρώπεια ἀπὸ τοῦ χείρονος ἀεὶ μᾶλλον ἐπιγινώσκεται καὶ τῶν μὲν ἁμαρτημάτων ἀνεξάλειπτος ἡ μνήμη παραμένει, τῶν καλῶν δὲ ταχέως ἀπορρεῖ, «per natura tutte le cose umane vengono sempre riconosciute piuttosto nel senso peggiore e il ricordo degli errori permane indelebile, mentre quello delle cose belle scorre via velocemente».
Quindi prosegue con le sue considerazioni su Omero.
[4] παρατεθειμένος δ' οὐκ ὀλίγα καὶ αὐτὸς ἁμαρτήματα καὶ Ὁμήρου καὶ τῶν ἄλλων ὅσοι μέγιστοι, καὶ ἥκιστα τοῖς πταίσμασιν ἀρεσκόμενος, ὅμως δὲ οὐχ ἁμαρτήματα μᾶλλον αὐτὰ ἑκούσια καλῶν ἢ παροράματα δι' ἀμέλειαν εἰκῆ που καὶ ὡς ἔτυχεν ὑπὸ μεγαλοφυΐας ἀνεπιστάτως παρενηνεγμένα, οὐδὲν ἧττον οἶμαι τὰς μείζονας ἀρετάς, εἰ καὶ μὴ ἐν πᾶσι διομαλίζοιεν, τὴν τοῦ πρωτείου ψῆφον μᾶλλον ἀεὶ φέρεσθαι, κἂν εἰ μηδενὸς ἑτέρου, τῆς μεγαλοφροσύνης αὐτῆς ἕνεκα· … ἄπτωτος ὁ Ἀπολλών‹ιος ἐν τοῖς› Ἀργοναύταις ποιητής...
«anche io stesso dopo aver raccolto non pochi errori sia di Omero sia degli altri quanti sono sommi, e non compiacendomi affatto delle loro cadute, tuttavia senza chiamarli errori volontari piuttosto che sviste dovute a noncuranza involontaria e casuale e distrattamente prodotte dalla grandezza del genio, ciò non di meno penso che le qualità maggiori, se anche non si mantengono uguali in tutte le parti, riportino sempre di più il voto più alto, se non altro, per la stessa grandezza di pensiero»… «Apollonio è poeta esente da cadute nelle Argonautiche»...
[5] ἆρ' οὖν Ὅμηρος ἂν μᾶλλον ἢ Ἀπολλώνιος ἐθέλοις γενέσθαι; … καὶ ἐν τραγῳδίᾳ Ἴων ὁ Χῖος ἢ νὴ Δία Σοφοκλῆς; … ὁ δὲ Πίνδαρος καὶ ὁ Σοφοκλῆς ὁτὲ μὲν οἷον πάντα ἐπιφλέγουσι τῇ φορᾷ, σβέννυνται δ' ἀλόγως πολλάκις καὶ πίπτουσιν ἀτυχέστατα.
«Ma vorresti essere Omero piuttosto o Apollonio? … e nella tragedia Ione di Chio o Sofocle, per Zeus? … Pindaro e Sofocle a volte per così dire infiammano tutto con il loro trasporto, ma spesso si spengono senza ragione e cadono nel modo più infelice».
Interessante la riflessione di Voltaire a proposito dello stile dell’Antico testamento, in particolare a proposito del fiat lux: «Lo stile è qui della massima semplicità, come nel resto dell'opera. Se un oratore, per far conoscere la potenza di Dio, adoperasse questa sola espressione: Egli disse: «Sia fatta la luce, e la luce fu», sarebbe veramente un tratto sublime. Tale è quel passo di un salmo: «Dixit, et facta sunt2». È un tratto che, unico in quel passo e posto per creare una grande immagine, colpisce l'animo e lo rapisce. Ma qui si tratta della narrazione piú semplice. L'autore ebreo non parla della luce diversamente da come parla degli altri oggetti della creazione; ripete egualmente a ogni capitoletto: «e Dio vide che ciò era buono». Tutto è sublime nella creazione, senza dubbio; ma quella della luce non lo è piú di quella dell'erba dei prati: sublime è ciò che si innalza al di sopra del resto, e qui lo stesso stile regna in tutto il capitolo» (Dizionario filosofico. Genesi). Notiamo la medesima concezione di sublime dell’Anonimo, che rifugge la piatta uniformità.
Su quest’ultimo punto si esprime anche Orazio nell’Ars poetica:
31
In uitium ducit culpae fuga, si caret arte.
«evitare un difetto conduce al vizio, se si è privi di arte».
267-9
Vitaui denique culpam,
non laudem merui. Vos exemplaria Graeca
nocturna uersate manu, uersate diurna.
«Alla fine ho evitato la colpa, / però non ho meritato la lode. Voi dovete sfogliare i modelli / greci con mano notturna, sfogliateli con mano diurna».
347
Sunt delicta tamen quibus ignouisse uelimus.
«Ci sono tuttavia delle sviste che vorremmo perdonare»
350-353
nec semper feriet quodcumque minabitur arcus.
Verum ubi plura nitent in carmine, non ego paucis
offendar maculis, quas aut incuria fudit,
aut humana parum cauit natura.
«Né l’arco colpirà sempre qualsiasi bersaglio prenderà di mira. / Però quando in una poesia risplendono parecchi pregi, non io /me la prenderò per poche macchie, che la noncuranza si è lasciata sfuggire, / o a cui l’umana natura ha fatto poca attenzione».
357-361
sic mihi, qui multum cessat, fit Choerilus ille,
quem bis terque bonum cum risu miror; et idem
indignor quandoque bonus dormitat Homerus;
uerum operi longo fas est obrepere somnum.
Vt pictura poesis.
«Così per me, chi è molto sciatto, diventa come il famoso Cherilo, / di cui due o tre volte (soltanto) ammiro la bravura, con una risata; e sempre io / mi dispiaccio tutte le volte che il bravo Omero sonnecchia3; del resto per un’opera lunga è consentito scivolare nel sonno. / La poesia è come la pittura».
367-369
hoc tibi dictum
tolle memor, certis medium et tolerabile rebus
recte concedi.
«Questo che ti dico / tienilo a memoria, in certi attività ciò che è mediocre e passabile / è giusto concederlo».
372-373
mediocribus esse poetis
non homines, non di, non concessere columnae.
«Ai poeti essere mediocri / non gli uomini, non gli dèi, non lo concessero le colonne».
Infine al rapporto tra ingenium e ars così Orazio risponde:
408-411
Natura fieret laudabile carmen an arte,
quaesitum est; ego nec studium sine diuite uena
nec rude quid prosit uideo ingenium; alterius sic 410
altera poscit opem res et coniurat amice.
Si è discusso se la poesia risultasse degna di lode / per natura o tecnica; io non vedo a cosa giovino uno studio / senza un ricca vena né un ingegno rozzo; così una cosa / richiede il contributo dell’altra e congiurano amichevolmente».
1 Cfr. Lucano, Bellum civile, I, 81: in se magna ruunt, «le cose grandi crollano su se stesse», dove però la visione è pessimistica.
2 Salmi, XXXIII. 9.
3 La medesima considerazione si triva nel trattato Del sublime (33, 4): παρατεθειμένος δ' οὐκ ὀλίγα καὶ αὐτὸς ἁμαρτήματα καὶ Ὁμήρου καὶ τῶν ἄλλων ὅσοι μέγιστοι, καὶ ἥκιστα τοῖς πταίσμασιν ἀρεσκόμενος, ὅμως δὲ οὐχ ἁμαρτήματα μᾶλλον αὐτὰ ἑκούσια καλῶν ἢ παροράματα δι' ἀμέλειαν εἰκῆ που καὶ ὡς ἔτυχεν ὑπὸ μεγαλοφυΐας ἀνεπιστάτως παρενηνεγμένα, οὐδὲν ἧττον οἶμαι τὰς μείζονας ἀρετάς, εἰ καὶ μὴ ἐν πᾶσι διομαλίζοιεν, τὴν τοῦ πρωτείου ψῆφον μᾶλλον ἀεὶ φέρεσθαι, κἂν εἰ μηδενὸς ἑτέρου, τῆς μεγαλοφροσύνης αὐτῆς ἕνεκα, «anche io stesso dopo aver raccolto non pochi errori sia di Omero sia degli altri quanti sono sommi, e non compiacendomi affatto delle loro cadute, tuttavia senza chiamarli errori volontari piuttosto che sviste dovute a noncuranza involontaria e casuale e distrattamente prodotte dalla grandezza del genio, ciò non di meno penso che le qualità maggiori, se anche non si mantengono uguali in tutte le parti, riportino sempre di più il voto più alto, se non altro, per la stessa grandezza di pensiero».
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