domenica 18 agosto 2024

Seneca, De vita beata, 1

Sulla felicità


  Viuere, Gallio frater, omnes beate uolunt, sed ad peruidendum quid sit quod beatam uitam efficiat caligant; adeoque non est facile consequi beatam uitam ut eo quisque ab ea longius recedat quo ad illam concitatius fertur, si uia lapsus est; quae ubi in contrarium ducit, ipsa uelocitas maioris interualli causa fit.

  «Tutti, oh fratello Gallione, vogliono vivere felicemente, ma quanto a vedere chiaramente cosa sia ciò che rende felice la vita felice, hanno come la vista ottenebrata; e a tal punto non è facile raggiungere la vita felice che tanto più ciascuno si allontana da essa quanto più freneticamente si dirige verso quella, se ha sbagliato strada».

 Proponendum est itaque primum quid sit quod adpetamus; tunc circumspiciendum qua contendere illo celerrime possimus, intellecturi in ipso itinere, si modo rectum erit, quantum cotidie profligetur quantoque propius ab eo simus ad quod nos cupiditas naturalis inpellit.

  E così bisogna porsi davanti agli occhi innanzitutto cosa sia ciò che desideriamo; a quel punto bisogna esaminare con cura per quale via possiamo giungere là con la massima velocità, essendo destinati a capire proprio lungo il percorso, ammesso che sia giusto, quanto ogni giorno progredisca e quanto più vicino siamo a ciò verso cui ci spinge la brama naturale».

  Quam diu quidem passim uagamur non ducem secuti sed fremitum et clamorem dissonum in diuersa uocantium, conteretur uita inter errores breuis, etiam si dies noctesque bonae menti laboremus.

  Di certo finché vaghiamo qua e là seguendo non una guida ma il brusío e le grida dissonanti di quelli che ci chiamano in direzioni opposte, la vita si consumerà e tra gli errori sarà breve, anche se ci sforzassimo giorno e notte per una buona mente».

  Decernatur itaque et quo tendamus et qua, non sine perito aliquo1 cui explorata sint ea in quae procedimus, quoniam quidem non eadem hic quae in ceteris peregrinationibus condicio est: in illis comprensus aliquis limes et interrogati incolae non patiuntur errare at hic tritissima quaeque uia et celeberrima maxime decipit.

 «Si stabilisca dunque sia dove tendere sia per dove, non senza una persona esperta per cui siano stati esplorati quei campi verso cui procediamo, perché certamente qui la condizione non è la medesima che negli altri viaggi: in quelli un sentiero riconosciuto e gli abitanti interrogati non consentono di sbagliare strada, mentre qui tutte le vie più sono battute e frequentate più traggono in inganno».

 Nihil ergo magis praestandum est quam ne pecorum ritu sequamur antecedentium gregem2, pergentes non quo eundum est sed quo itur. Atqui nulla res nos maioribus malis inplicat quam quod ad rumorem componimur, optima rati ea quae magno adsensu recepta sunt3, quodque exempla nobis pro bonis multa sunt nec ad rationem sed ad similitudinem uiuimus. Inde ista tanta coaceruatio aliorum super alios ruentium.

  «Niente dunque dobbiamo assicurarci tanto quanto non seguire al modo delle pecore il gregge di chi ci precede, dirigendoci non dove bisogna andare ma dove si va4. E nessuna cosa ci avviluppa in mali maggiori del fatto di regolarci in base al “si dice”, considerando ottime quelle cose che sono accettate con grande consenso, e del fatto che disponiamo di molti esempi considerati buoni e viviamo non secondo ragione ma per imitazione».

  Quod in strage hominum magna euenit, cum ipse se populus premit - nemo ita cadit ut non et alium in se adtrahat, primique exitio sequentibus sunt - hoc in omni uita accidere uideas licet.

  «Ciò che succede in una grande strage di uomini, quando la folla si schiaccia da sola – nessuno cade così da non trascinare su di sé anche un altro, e i primi sono causa di morte per quelli che seguono – questo puoi verlo accadere in tutti i momenti della vita».

  Nemo sibi tantummodo errat, sed alieni erroris et causa et auctor est; nocet enim adplicari antecedentibus et, dum unusquisque mauult credere quam iudicare, numquam de uita iudicatur, semper creditur, uersatque nos et praecipitat traditus per manus error. Alienis perimus exemplis: sanabimur, [si] separemur modo a coetu.

  «Nessuno erra soltanto per sé, ma è causa e fonte dell’errore altrui; nuoce infatti appoggiarsi a coloro che ci precedono e, finché ciascuno preferisce credere piuttosto che giudicare, mai si esprime un giudizio sulla vita, sempre si crede, e ci tormenta e fa precipitare l’errore tramandato di mano in mano. Periamo a causa degli esempi altrui: guariremo, basta che ci separiamo dalla folla»5.

  Nunc uero stat contra rationem defensor mali sui populus. Itaque id euenit quod in comitiis, in quibus eos factos esse praetores idem qui fecere mirantur, cum se mobilis fauor circumegit: eadem probamus, eadem reprehendimus; hic exitus est omnis iudicii in quo secundum plures datur.

  «Ora però la gente si erge contro la ragione, difendendo il proprio male. E così succede lo stesso che nei comizi, in cui i medesimi che li hanno eletti si tupiscono che quelli siano diventati pretori, quando il volubile favore popolare si è capovolto: approviamo e biasimiamo le medesime cose; questo è il risultato di ogni giudizio in cui si dà un’opinione in base ai più».


  Si può commentare questo brano citando un’epistola (80, 5-7) in cui descrive la condizione di chi ha fallito nella ricerca della felicità, ma si sente costretto a simularla:

 5. Libera te primum metu mortis (illa nobis iugum inponit), deinde metu paupertatis. 6. Si vis scire quam nihil in illa mali sit, compara inter se pauperum et divitum vultus: saepius pauper et fidelius ridet; nulla sollicitudo in alto est; etiam si qua incidit cura, velut nubes levis transit: horum qui felices vocantur hilaritas ficta est aut gravis et suppurata tristitia, eo quidem gravior quia interdum non licet palam esse miseros, sed inter aerumnas cor ipsum exedentes necesse est agere felicem. 7. Saepius hoc exemplo mihi utendum est, nec enim ullo efficacius exprimitur hic humanae vitae mimus, qui nobis partes quas male agamus adsignat.

  «5. Liberati innanzitutto dalla paura della morte (essa ci impone un giogo), poi dalla paura della povertà. 6. Se vuoi sapere quanto non ci sia nulla di male in essa, confronta tra loro i volti dei poveri e dei ricchi: il povero ride più spesso e più schiettamente; nessuna preoccupazione si trova nel profondo; anche se incappa in qualche affanno, passa come una nuvola leggera: l’allegria di questi che sono chiamati felici è recitata oppure è una tristezza opprimente e che rode, e di certo tanto più opprimente poiché non è possibile ogni tanto essere infelici apertamente, ma divorando il cuore stesso tra le pene si è obbligati a fare la parte del felice. 7. Devo usare più spesso questo esempio, e infatti da nessun altro con più efficacia è rappresentato questo mimo della vita umana, che ci assegna i ruoli che interpretiamo male».

  8. omnium istorum personata felicitas est. Contemnes illos si despoliaveris.

  «8. La felicità di tutti costoro è una mascchera6. Li disprezzerai se avrai tolto loro i costumi».

  1 Il riferimento, come prima ducem, è all’importanza di un maestro che ci guidi nei momenti cruciali della vita. Cfr. Epistulae, 94, 52: nonne apparet opus esse nobis aliquo advocato qui contra populi praecepta praecipiat?, «Non è forse evidente che abbiamo bisogno di un qualche difensore che che ci dia insegnamenti contrari a quelli della massa?»; e poco dopo (55): Sit ergo aliquis custos et aurem subinde pervellat abigatque rumores et reclamet populis laudantibus, «Ci sia dunque un guardiano e ci tiri di quando in quando le orecchie e tenga lontani i luoghi comuni e alzi la voce contro le lodi della folla».
  Anche Platone sente questa come un’esigenza fondamentale, in paricolare nel «mito di Er» che si trova alla fine della Repubblica (): ἔνθα δή, ὡς ἔοικεν, ὦ φίλε Γλαύκων, ὁ πᾶς κίνδυνος ἀνθρώπῳ, καὶ διὰ ταῦτα μάλιστα ἐπιμελητέον ὅπως ἕκαστος ἡμῶν τῶν ἄλλων μαθημάτων ἀμελήσας τούτου τοῦ μαθήματος καὶ ζητητὴς καὶ μαθητὴς ἔσται, ἐάν ποθεν οἷός τ᾽ ᾖ μαθεῖν καὶ ἐξευρεῖν τίς αὐτὸν ποιήσει δυνατὸν καὶ ἐπιστήμονα, βίον καὶ χρηστὸν καὶ πονηρὸν διαγιγνώσκοντα, τὸν βελτίω ἐκ τῶν δυνατῶν ἀεὶ πανταχοῦ αἱρεῖσθαι, «Qui, pertanto, oh caro Glaucone, c’è tutto il rischio per un uomo, e per questo bisogna fare la massima attenzione che ciascuno di noi, trascurando gli altri apprendimenti, sia ricercatore e studioso di questo apprendimento, cioè se mai sia in grado di capire e trovare chi lo renderà capace e sapiente, distinguendo una vita buona e cattiva, nel scegliere sempre in ogni circostanza quella migliore tra le possibili». Il contesto è quello delle anime che si accingono a sciegliere la vita futura in cui si reincarneranno; è dunque una raccomandazione alla responsabilità.

  2 La metafora del gregge è utilizzata anche da Platone nel Politico, 276b-c, in relazione al governo della comunità: ΞΕ. Ἐπιμέλεια δέ γε ἀνθρωπίνης συμπάσης κοινωνίας οὐδεμία ἂν ἐθελήσειεν ἑτέρα μᾶλλον καὶ προτέρα τῆς βασιλικῆς [c] φάναι καὶ κατὰ πάντων ἀνθρώπων ἀρχῆς εἶναι τέχνη. «Straniero di Elea. Ma nessuna altra arte può pretendere di definirsi, di più e prima di quella regia, cura di tutta quanta la comunità umana e arte di governo su tutti gli uomini». ΝΕ. ΣΩ. Λέγεις ὀρθῶς. «Socrate il giovane. Dici bene». ΞΕ. Μετὰ ταῦτα δέ γε, ὦ Σώκρατες, ἆρ' ἐννοοῦμεν ὅτι πρὸς αὐτῷ δὴ τῷ τέλει συχνὸν αὖ διημαρτάνετο; «Str. Dopo di che, oh Socrate, non notiamo che proprio alla fine è stato commesso un grosso errore?». ΝΕ. ΣΩ. Τὸ ποῖον; «Socr. g. Quale?» ΞΕ. Τόδε, ὡς ἄρ' εἰ καὶ διενοήθημεν ὅτι μάλιστα τῆς δίποδος ἀγέλης εἶναί τινα θρεπτικὴν τέχνην, οὐδέν τι μᾶλλον ἡμᾶς ἔδει βασιλικὴν αὐτὴν εὐθὺς καὶ πολιτικὴν ὡς ἀποτετελεσμένην προσαγορεύειν. «Str. Questo, che dunque se anche avessimo creduto in massimo grado che esiste una certa arte di allevare il gregge bipede, per nessuna ragione avremmo dovuto chiamarla subito regia e politica, come se fosse perfetta».

  3 Un concetto analogo si trova in Cicerone, Tusc., II, 63: Sed tamen hoc evenit, ut in vulgus insipientium opinio valeat honestatis, cum ipsam videre non possint. Itaque fama et multitudinis iudicio moventur, cum id honestum putent quod a plerisque laudetur. Te autem, si in oculis sis multitudinis, tamen eius iudicio stare nolim nec, quod illa putet, idem putare pulcherrimum. Tuo tibi iudicio est utendum; tibi si recta probanti placebis, tum non modo tete viceris, quod paulo ante praecipiebam, sed omnes et omnia. Hoc igitur tibi propone, amplitudinem animi et quasi quandam exaggerationem quam altissimam animi, quae maxime eminet contemnendis et despiciendis doloribus, unam esse omnium rem pulcherrimam, eoque pulchriorem, si vacet populo neque plausum captans se tamen ipsa delectet. Quin etiam mihi quidem laudabiliora videntur omnia, quae sine venditatione et sine populo teste fiunt, non quo fugiendus sit (omnia enim bene facta in luce se collocari volunt), sed tamen nullum theatrum virtuti conscientia maius est, « «Ma tuttavia accade questo, che nel volgo degli ignoranti ha valore lopinione dellonestà, dato che non sono in grado di vedere lonestà in sé. E così sono influenzati dalle dicerie e dal giudizio della moltitudine, poiché ritengono onesto ciò che dai più è lodato. Quanto a te poi, se fossi davanti agli occhi della moltitudine, tuttavia non vorrei che ti attenessi al suo giudizio, né che considerassi bellissimo la medesima cosa che quella considera tale. Tu devi usare il tuo giudizio; se piacerai a te stesso quando riconosci il giusto, allora non solo avrai vinto te stesso, cosa che insegnavo poco fa, ma tutti e tutto. Questo quindi proponiti, che la grandezza danimo e per così dire una certa elevazione la più alta possibile dellanimo, che soprattutto si innalza nel considerare con indifferenza e disprezzo i dolori, è l’unica cosa più bella di tutte, e tanto più bella, se è libera dalla massa e, pur non cercando lapplauso, tuttavia tra diletto essa stessa da se stessa. Anzi, a me sembrano certamente più lodevoli tutte quelle cose che avvengono senza ostentazione e senza la massa come testimone, non perché sia da fuggire (infatti tutte le cose ben fatte vogliono essere collocate nella luce), ma tuttavia nessun teatro è più grande per la virtù della coscienza».

  4 Nietzsche considera tale disposizione gregaria tipica del vanitoso, che in fondo è uno schiavo (Al di là del bene e del male, Capitolo nono, Che cos’è aristocratico, 261): La vanità fa parte di quelle cose che sono forse le più difficili a capire per un uomo nobilePer lui il problema è quello di immaginarsi degli esseri che cercano di destare una buona opinione di sé, quale essi stessi non hanno e dunque neppure «meritano» – per credere poi essi stessi a questa buona opinione Il vanitoso si rallegra di ogni buona opinione che sente sul suo contoallo stesso modo con cui si dispiace di ogni cattiva opinione: egli infatti si assoggetta a entrambe, si sente assoggettato e esse, per quellantichissimo istinto di soggezione che prorompe in lui. – C’è «lo schiavo» nel sangue del vanitoso».

  5 Cfr. Epistulae, 94, 54: Nemo errat uni sibi, sed dementiam spargit in proximos accipitque invicemDum facit quisque peiorem, factus est; didicit deteriora, dein docuit, «Nessuno erra solo per se stesso, ma semina follia sul prossimo e la riceve a sua voltaMentre ciascuno rende un altro peggiore, è diventato tale; impara cose più brutte, poi le insegna».

  6 Cfr. Schopenhauer, Parerga e paralipomena I, Aforismi sulla saggezza della vita. Capitolo quinto: «La maggior parte degli splendori e delle magnificenze è una pura apparenzatutto ciò è l’insegna, latteggiamento, il geroglifico della gioialo scopo consiste semplicemente nel far credere ad altri che là per lappunto ha preso alloggio la gioia: la vera intenzione è di suscitare tale illusione nel cervello altrui».

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