domenica 11 agosto 2024

Seneca, Epistulae, 15

Bisogna concedere distensione agli animi


  6. Neque ego te iubeo semper imminere libro aut pugillaribus: dandum est aliquod intervallum animo, ita tamen ut non resolvatur, sed remittatur.

  «6. Né io ti ordino di stare sempre sopra a un libro o a delle tavolette1: si deve concedere un qualche intervallo all’animo2, tuttavia non così che si snervi, ma che si rimetta in forze».

  1 Erano l’equivalente dei nostri quaderni, dunque significa che non bisogna sempre leggere o scrivere.

  2 Un concetto identico si trova in Seneca, De tranquillitate animi, XVII, 5: Danda est animis remissio: meliores acrioresque requieti surgent. Vt fertilibus agris non est imperandum (cito enim illos exhauriet numquam intermissa fecunditas), ita animorum impetus assiduus labor franget; uires recipient paulum resoluti et remissi. Nascitur ex assiduitate laborum animorum hebetatio quaedam et languor, «Si deve concedere agli animi distensione; rinasceranno migliori e più acuti una volta riposati. Come non bisogna dare ordini ai campi fertili (presto infatti li esaurirà una fecondità mai interrotta), così la fatica continua spezzerà gli slanci degli animi; recupereranno le forze un poco rilassati e distesi. Nasce dall’assiduità delle fatiche un certo stordimento e stanchezza degli animi».

  Similmente anche Quintiliano, Institutio, I, 8-12: Danda est tamen omnibus aliqua remissio, non solum quia nulla res est quae perferre possit continuum laborem, atque ea quoque quae sensu et animā carent ut servare vim suam possint velut quiete alternā retenduntur, sed quod studium discendi voluntate, quae cogi non potest, constat. Itaque et virium plus adferunt ad discendum renovati ac recentes et acriorem animum, qui fere necessitatibus repugnat. Nec me offenderit lusus in pueris (est et hoc signum alacritatis), neque illum tristem semperque demissum sperare possim erectae circa studia mentis fore, cum in hoc quoque maxime naturali aetatibus illis impetu iaceat. Modus tamen sit remissionibus, ne aut odium studiorum faciant negatae aut otii consuetudinem nimiae. Sunt etiam nonnulli acuendis puerorum ingeniis non inutiles lusus, cum positis invicem cuiusque generis quaestiunculis aemulantur. Mores quoque se inter ludendum simplicius detegunt, «Bisogna dare comunque a tutti un po’ di distensione, non solo perché non c’è nessuna cosa che possa sostenere una fatica continua, e anche quelle cose che sono prive di sensibilità e anima, per conservare la propria forza si rilassano con una quiete per così dire alternata, ma poiché lo studio è fatto di volontà di imparare, che non può essere costretta (N.d.R.: cfr. Seneca, Epistulae, X, 81, 13: velle non discitur, «il volere non si impara). E così apportano sia più forze all’apprendimento rinnovati e freschi sia un animo più acuto, che in genere si oppone alle costrizioni. Né mi può offendere il gioco nei bambini (anche questo è un segno di vivacità), né potrei sperare che quello triste e sempre depresso sarà di mente intenta allo studio, dato che si intorpidisce anche in questo slancio massimamente naturale in quelle età. Ci sia tuttavia un misura per le distensioni, affinché non producano o odio per gli studi se negate o abitudine all’ozio se troppe. Ci sono anche alcuni non inutili giochi per acuire le intelligenze dei bambini, quando gareggiano ponendosi a vicenda domandine di qualsiasi genere. I caratteri anche si scoprono più schiettamente in mezzo al gioco».

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