E.R. DODDS
BACCHAE
seconda edizione – pubblicata con introduzione e commento
INTRODUZIONE
Diversamente da molte tragedie greche le Baccanti sono un dramma che riguarda un evento storico – l’introduzione in Grecia di una nuova religione1. Quando Euripide scriveva, gli eventi si svolgevano in un lontano passato, e la memoria di ciò sopravviveva solo in forma mitica; la nuova religione già da tempo si era acclimatata ed era stata accettata come parte della vita greca. Ma era ancora l’espressione di una attitudine religiosa, e il ricordo di un’esperienza religiosa, diversa da qualunque cosa comportasse il culto dei tradizionali dèi olimpici; e le forze liberate e incarnate dal movimento originale erano attive in altre forme nell’Atene dei giorni di Euripide. Se vogliamo capire questo dramma, dobbiamo prima di tutto conoscere qualcosa sulla religione dionisiaca – lo scopo di alcuni dei suoi riti, il significato di alcuni dei suoi miti, e le forme che assunse al tempo di Euripide. Le opinioni discordanti dei critici del diciannovesimo secolo dovrebbero metterci in guardia sul fatto che se tentiamo di afferrare il pensiero del poeta con un attacco frontale, senza riguardo per il retroterra contemporaneo, saremo alla mercé dei pregiudizi nostri o altrui.
I. DIONISO
i. La natura della religione dionisiaca2
Per i Greci dell’età classica Dioniso non era solamente, o per lo meno principalmente, il dio del vino. Plutarco ci dice molto, confermando con una citazione da Pindaro3, e anche i titoli del culto del dio lo confermano: egli è Δενδρίτης o Ἔνδενδρος, il Potere nell’albero; è Ἄνθιος il portatore di fiori, Κάρπιος, il portatore di frutti, Φλεύς oppure Φλέως, l’abbondanza della vita. Il suo dominio è, nelle parole di Plutarco, il complesso della ὑγρὰ φύσις (la natura fluida, N.d.T.) – non solo il fuoco liquido del chicco d’uva, ma anche la linfa impetuosa in un giovane albero, il sangue che pulsa nelle vene di un giovane animale, tutte le misteriose e incontrollabili correnti che fluiscono e rifluiscono nella vita della natura. Il nostro testimone più antico, Omero, non si riferisce mai esplicitamente a lui come al dio del vino; e può ben essere che la sua associazione con certe piante selvatiche, come l’abete e l’edera, e con certi animali selvaggi, sia in effetti più antica di quella con la vite. Furono gli Alessandrini e poi soprattutto i Romani – con il loro ordinato funzionalismo e la loro allegra ottusità in tutti i problemi dello spirito – che scomposero Dioniso riducendolo al ‘gaio Bacco’, il dio del vino con la sua sfrenata banda di ninfe e di satiri4. In questo modo fu fatto proprio prendendolo dai Romani, dai pittori e dai poeti del Rinascimento; e furono essi che di volta in volta plasmarono l’immagine con cui il mondo moderno lo raffigura. Se vogliamo capire le Baccanti, il nostro primo passo è togliersi dalla testa (unthink) tutto questo: dimenticare le raffigurazioni di Tiziano e Rubens, dimenticare Keats e il suo ‘dio delle bevute mozzafiato e della cinguettante gaiezza’, ricordare che ὄργια non sono orge, ma atti di devozione (cfr. v. 34 n.), e che βακχεύειν non significa ‘far baldoria’ ma avere un particolare tipo di esperienza religiosa - l’esperienza della comunione con dio, che ha trasformato un essere umano in un βάκχος o una βάκχη (cfr. v. 115 n.).
Per questa esperienza i Greci, come molti altri popoli, credevano che il vino fosse in certe circostanze un aiuto. L’ebbrezza, come William James ha osservato, ‘espande, unisce, e dice Sì: porta il suo devoto dalla superficie fredda delle cose al loro nucleo radioso; lo rende momentaneamente tutt’uno con la verità’.5 Così il vino acquista valore religioso: colui che lo beve diventa ἔνθεος6 – ha bevuto la divinità. Ma il vino non era l’unico o il più importante dei mezzi di comunione. Le menadi, nel nostro dramma, non sono ebbre: Penteo pensava che lo fossero (vv. 260 ss.), ma ci viene espressamente detto che si sbagliava (vv. 686s.); alcune di loro preferivano bere acqua, o anche latte (vv. 704ss.). Qui Euripide è probabilmente corretto da un punto di vista del rito: per quanto riguarda le altre azioni delle sue menadi appartengono ad un rituale invernale che non sembra essere stato una festa del vino, e per sua natura non poteva esserlo. Il periodo giusto per l’ebbrezza sacra è la primavera, quando il vino nuovo è pronto per essere aperto; ed è allora che lo troviamo, per esempio ad Atene durante la ‘Festa delle Coppe’ che costituiva una parte delle Anthesterie.
Ma c’erano altri modi di diventare ἔνθεος. La curiosa ὀρειβασία7 o danza sulla montagna, descritta nella πάροδος8 delle Baccanti e poi nel primo discorso del messaggero, non è fantasia del poeta, ma il riflesso di un rituale praticato da comunità femminili a Delfi fino al tempo di Plutarco, e ne abbiamo la testimonianza in iscrizioni provenienti da molti altri luoghi del mondo greco9. Il rito aveva luogo a metà dell’inverno ad anni alterni (donde il nome di τριετηρίς, Baccanti, v. 133). Il fatto doveva comportare notevoli disagi ed persino un certo rischio: Pausania dice che a Delfi le donne andavano fin sulla vetta del Parnaso (alto circa 2500 m.) e Plutarco descrive un caso, apparentemente accaduto ai suoi tempi, quando le donne furono sorprese da una tempesta di neve e si dovette inviare una squadra di soccorso10.
Qual era lo scopo di questa pratica? Molte persone ballano fuori dalla porta per far crescere le messi, servendosi della magia simpatetica. Ma danze di questo tipo altrove sono annuali come le mietiture, non biennali come l’ὀρειβασία; la loro stagione è la primavera, non il pieno inverno e il loro scenario sono i campi di grano, non l’arida cima di una montagna. Gli scrittori greci tardi ritenevano che le danze di Delfi commemorative: ‘danzano’, dice Diodoro (4.3), ‘imitando le menadi che, si dice, nei tempi antichi fossero associate al dio’. Probabilmente è nel giusto, per quanto riguarda il suo tempo (o quello della sua fonte); ma il rituale è di solito più antico del mito attraverso il quale il popolo lo spiega e ha radici psicologiche più profonde. Ci deve essere stato un tempo in cui le menadi, o tiadi, o βάκχαι diventavano veramente per poche ore o giorni ciò che il loro nome implica – donne selvagge la cui umana personalità era stata temporaneamente sostituita da un’altra. Se le cose stessero ancora così al tempo di Euripide non abbiamo mezzi sicuri per saperlo: una tradizione Delfica ricordata da Plutarco11 suggerisce che ancora nel quarto secolo a.C. il rito a volte provocasse un vero disturbo della personalità, ma la testimonianza è debole.
Ci sono, comunque, fenomeni paralleli in altre culture che possono aiutarci a capire la πάροδος delle Baccanti e la punizione di Agave. In molte società, forse in tutte le società, ci sono persone alle quali “le danze rituali procurano un’esperienza religiosa che sembra più soddisfacente e convincente di qualsiasi altra […] È con i loro muscoli che ottengono nel modo più facile la cognizione del divino.”12 Gli esempi meglio conosciuti sono i dervisci maomettani, gli Shakers americani, l’Hasidim ebraico e gli sciamani siberiani. Spesso la danza induce la sensazione di essere posseduti da una personalità estranea. La danza di questo genere è altamente contagiosa; “si diffonde come un incendio” (Baccanti, v. 778), e facilmente diventa un’ossessione compulsiva, che si impossessa persino degli scettici (come Agave), senza il consenso di una mente consapevole. Questo accadeva nella straordinaria follia danzante che periodicamente invase l’Europa dal quattordicesimo al diciassettesimo secolo, quando la gente danzava finché non si accasciava e giaceva a terra priva di coscienza (cfr. Baccanti, 136 e n.): per esempio, a Liegi nel 1374 “molte persone, apparentemente sane di mente e di corpo, furono improvvisamente possedute dal demonio” e lasciarono casa e famiglia per vagare lontano con i danzatori; Cadmo e Tiresia trovarono i propri corrispondenti nell’Italia del diciassettesimo secolo, dove “persino uomini vecchi di novant’anni mettevano da parte i loro bastoni al suono della tarantella e, come se qualche pozione magica, capace di ristabilire la loro giovinezza e il loro vigore, scorresse nelle loro vene, si univano a quei danzatori assai stravaganti”. Molti sostenevano che questa follia danzante potesse essere imposta alla gente, maledicendola con ciò, proprio come Dioniso aveva maledetto le figlie di Cadmo. In qualche caso l’ossessione riappariva a intervalli regolari, crescendo d’intensità fino al giorno di San Giovanni o di San Vito, quando si verificava uno scoppio che era seguito da un ritorno alla normalità; da qui si svilupparono periodiche “cure” per pazienti colpiti, mediante musica e danze estatiche, che in alcuni luoghi si sono cristallizzate in feste annuali.
Quest’ultimo fatto suggerisce il modo in cui, in Grecia, la ὀρειβασία rituale a data fissa può in origine essersi sviluppata da accessi spontanei di isterismo collettivo. Canalizzando tale isterismo in un rito organizzato una volta ogni due anni, il culto dionisiaco lo mantenne dentro i limiti e gli consentì uno sfogo relativamente innocuo. Quello che la πάροδος delle Baccanti rappresenta è l’isterismo tenuto a freno e al servizio della religione; le gesta compiute sul Citerone sono manifestazioni di isterismo allo stato grezzo, la mania compulsiva che contagia la persona miscredente. Dioniso è all’opera su entrambi: come San Giovanni o San Vito, egli è al tempo stesso la causa della pazzia e il liberatore dalla pazzia, Βάκχος e Λύσιος13, θεὸς δεινότατος, ἀνθρώποισι δ᾽ ἠπιώτατος14(Baccanti, v. 860). Dobbiamo tener a mente questa ambivalenza se vogliamo intendere correttamente il dramma. Resistere a Dioniso significa reprimere l’elemento primordiale insito nella natura di ciascuno; la punizione è l’improvviso e completo collasso degli argini interiori quando l’elemento primordiale giocoforza li sfonda e la civiltà svanisce.
L’atto culminante della danza dionisiaca invernale era fare a pezzi e mangiare la carne cruda di un animale, σπαραγμός15 e ὠμοφαγία16. Ciò è menzionato nelle norme del culto dionisiaco a Mileto (276 a.C.), ed è attestato da Plutarco e da altri. Nelle Baccanti lo σπαραγμός, prima del bestiame Tebano (vv. 734 sqq.) e poi di Penteo (vv. 1125 sqq.), è descritto con un compiacimento che il lettore moderno ha difficoltà a condividere. Una dettagliata descrizione della ὠμοφαγία sarebbe forse stata eccessiva per lo stomaco persino del pubblico ateniese; Euripide ne parla due volte, in Baccanti, v. 138 e Cretesi, fr. 472, ma in entrambi i passi sorvola di sfuggita e con discrezione. È difficile immaginare lo stato psicologico da lui descritto con le due parole ὠμοφάγον χάριν17, ma è notevole che i giorni stabiliti per la ὠμοφαγία fossero “giorni neri e nefasti”;18 e pare che coloro che praticano un simile rito ai nostri giorni, sperimentino in esso un misto di esaltazione suprema e di repulsione suprema: è al tempo stesso cosa sacra e orribile, appagamento e impurità, sacramento e contaminazione – lo stesso violento conflitto di disposizioni emotive che corre per tutte le Baccanti e che si trova alle radici di tutte le religioni di tipo dionisiaco.
Gli scrittori tardi spiegarono la ὠμοφαγία come fecero per la danza: immaginarono che essa commemorasse il giorno in cui il Dioniso infante fu sbranato e divorato. Ma (a) possiamo difficilmente dissociare il rito dalla diffusa credenza in ciò che Frazer chiamò “gli effetti omeopatici di una dieta a base di carne”: se tu fai a brandelli qualcosa e la mangi calda e sanguinante, aggiungi i suoi poteri vitali ai tuoi propri, perché “il sangue è vita”; (b) pare probabile che si ritenesse che la vittima incarnasse i poteri vitali del dio stesso, i quali, con l’atto della ὠμοφαγία, si trasferivano ai suoi devoti. La vittima più comune era un toro – ecco perché Aristofane parla di “riti bacchici di Cratino mangia-tori”.19 Sappiamo anche di ὠμοφαγίαι di capre selvatiche o di cerbiatti, e dilaniamenti di vipere; le donne invece che sbranarono Penteo lo credevano un leone. In parecchie di queste creature possiamo riconoscere le incarnazioni bestiali del dio: cfr. Baccanti, vv. 1017-1920, dove il fedele gli gridava di apparire come toro, serpente, o leone. Per gente dedita alla pastorizia come quella della Beozia o dell’Elide non c’è nessun altro simbolo più luminoso della potenza della natura che il toro. E’ in forma di toro, “infuriando con lo zoccolo bestiale”, che Dioniso viene invocato nell’antico inno delle donne dell’Elide21, così come è in forma di toro che egli si prende gioco del suo persecutore nelle Baccanti (v. 618); e gli scultori qualche volta lo mostrano, come Penteo lo vide in una visione (Baccanti, v. 922)22, come un uomo con le corna. Nell’inno omerico (7, 44) si manifesta come leone, e questa può ben essere la più antica delle sue forme animali23.
Possiamo considerare la ὠμοφαγία, dunque, come un rito in cui il dio era in un certo senso presente nella sua trasposizione bestiale e in questa forma veniva fatto a pezzi e mangiato dalla sua gente. Ammetteva il culto una volta – come la storia di Penteo suggerisce – una ancor più potente, perché più terribile, forma di comunione – lo sbranamento, o persino lo sbranamento e il pasto del dio nelle sembianze di uomo? Non possiamo esserne sicuri, ed alcuni studiosi lo negano. Ci sono, tuttavia, sporadiche indicazioni che indicano questa direzione. Teofrasto, apud Porph. abst. 2, 8, parla di ἡ τῶν ἀνθρωποθυσιῶν βακχεία24, ed aggiunge che i Bassari pure praticano il cannibalismo. Pausania (9, 8, 2) ha sentito dire che a Potnie, presso Tebe, una volta veniva sacrificato un ragazzo a Dioniso, finché Delfi autorizzò una capra in sostituzione. Egli spiega il rito come espiatorio; ma ci sono altre testimonianze che possono indurci a dubitarne. Evelpide di Caristo, ap. Porph. abst. 2, 55, sa che su due isole dell’Egeo, Chio e Tenedo, lo σπαραγμός di una vittima umana era un tempo praticato in onore di Dioniso Omadio, il dio della ὠμοφαγία; e Clemente (Protr. 3, 42) ha raccolto da una storia ellenistica di Creta una simile tradizione riguardo a Lesbo. Sembra che a Tenedo, come a Potnie, una vittima animale fu più tardi sostituita, ma il rituale mantenne aspetti curiosi e significativi: Eliano (N.A. 12, 34) ci dice che scelgono una mucca gravida e la trattano come se fosse una madre umana; dopo che il vitello è nato, gli mettono degli stivaletti e poi lo sacrificano a Dioniso Ἀνθρωπορραίστης, “il massacratore di uomini”; “ma colui che colpiva il vitello con la sua ascia era lapidato dalla gente finché non trovava scampo sulla spiaggia” (cioè: lui era contaminato e doveva fare finta di lasciare il paese, come Agave fa alla fine delle Baccanti). A questa testimonianza possiamo aggiungere il ricorrente episodio dell’uccisione di un bambino e dello σπαραγμός umano nei miti dionisiaci (vedi sotto); il fatto che il sacrificio umano, che si sosteneva fosse stato compiuto prima della battaglia di Salamina, si dice fosse stato offerto a Dioniso Omeste25; e l’attestazione di un omicidio rituale in connessione con i movimenti dionisiaci italici repressi nel 186 a.C.26
Comunque sia, la ὠμοφαγία e l’incarnazione bestiale rivelano Dioniso come qualcosa di molto più significativo e molto più pericoloso di un dio del vino. Egli è il principio della vita animale, ταῦρος e ταυροφάγος,27 il cacciato e il cacciatore – la sfrenata potenza che l’uomo invidia nelle bestie e cerca di assimilare. Il suo culto fu in origine un tentativo, da parte degli esseri umani, di raggiungere una comunione con questa potenza. L’effetto psicologico era di liberare l’istintiva vita dell’uomo dalla schiavitù impostale dalla ragione e dalle consuetudini sociali: il fedele diventava cosciente di una nuova, estranea vitalità, che egli attribuiva alla presenza del dio in sé (cfr. Baccanti, vv. 187 sqq., 194, 945-6)28. Euripide sembra allo stesso modo alludere ad un ulteriore effetto, al fondersi della coscienza individuale in una coscienza di gruppo: il fedele θιασεύεται ψυχὰν (Baccanti, v. 75)29, è tutt’uno non solo con il Signore della Vita, ma anche con i suoi seguaci di fede; ed è tutt’uno anche con la vita della terra (Baccanti, vv. 726-7 e nota)30.
ii. La religione dionisiaca ad Atene
I Greci sostenevano, senza dubbio correttamente, che questi singolari riti non erano originari dell’Ellade: Erodoto li chiama νεωστὶ ἐσηγμένα31 (II, 49, dove νεωστὶ sembra riferirsi ai tempi di Melampo, prima della guerra di Troia); ed Euripide rappresenta il culto dionisiaco come una sorta di “religione universale”, diffusa da missionari (come nessun culto originario greco lo era mai stato) da un paese ad un altro. In accordo con Erodoto, suo luogo d’origine sono le montagne di Lidia e di Frigia (Baccanti, vv. 13, 55, 86, ecc.), un’ipotesi supportata dalla moderna scoperta che Βάκχος è l’equivalente lidio di Dioniso. Altrove Dioniso è spessissimo rappresentato come un tracio: Omero lo collega con il tracio Licurgo (Iliade, VI, 130 sqq., cfr. Sofocle, Antigone, v. 955), e nel V secolo viaggiatori greci vennero a conoscenza del culto dionisiaco sui monti Pangeo e Rodope. Possiamo accettare anche questo: le alture della Tracia e quelle dell’Asia Minore ospitarono popolazioni di sangue e cultura affini (Erodoto, VIII, 73). I miti suggeriscono che la nuova divinità può di fatto aver raggiunto la Grecia continentale per due percorsi indipendenti – via mare, dalla costa asiatica attraverso Cos, Nasso, Delo e l’Eubea fino all’Attica, e attraverso la terraferma, dalla Tracia alla Macedonia, Beozia e Delfi. Il suo arrivo non può essere datato con esattezza, ma io penso che debba essere parecchio prima di quanto supposto, ad esempio, da Wilamowitz (il quale era propenso a porlo in epoca tarda, cioè intorno al 700 a. C.): non solo Semele è già una principessa tebana per l’autore della Διὸς ἀπάτη32 (Illiade, XIV, 323sqq.), ma i miti sull’introduzione sono associati a condizioni molto arcaiche – la monarchia ad Atene, il governo dei Minii ad Orcomeno e dei Pretidi e Perseidi ad Argo, il periodo cadmeo a Tebe.
Nel corso dei secoli che separano la prima comparsa del culto di Dioniso in Grecia dall’età di Euripide, esso fu posto sotto il controllo dello stato e, in ogni caso, perse molto del suo carattere originario in Attica. Gli Ateniesi del tempo di Euripide non avevano un rito invernale biennale, né danze sulle montagne, né ὠμοφαγία33; si accontentavano di inviare una delegazione di donne a rappresentarli alla τριετηρίς di Delfi. Per quanto ne sappiamo, i loro festival dionisiaci erano molto diversi: erano occasioni di allegria campagnola vecchio stile e un po’ anche di magia campagnola vecchio stile, come nelle “Dionisie rurali”; oppure per un’ebbrezza religiosa e allegra, come nella Festa delle Coppe; o per sfoggiare la grandezza civile e culturale di Atene, come nelle “Dionisie cittadine”. Soltanto le Lenee possono forse aver mantenuto qualcosa del fervore originario, che il loro stesso nome lascia intendere e che possiamo riconoscere su qualcuno dei cosiddetti “Vasi Lenei”.
La funzione di questi geniali festival attici era, nelle parole di Pericle, procurare ἀνάπαυλαι τῶν πόνων34: il loro valore era più sociale che religioso. Questo aspetto del culto dionisiaco non è ignorato nelle Baccanti: Euripide lo ha espresso nel modo più bello nel primo stasimo, vv. 370 sqq. (vedi il commento). Ma c’era poco o niente nel culto ufficiale ateniese che potesse ispirare le descrizioni della πάροδος e dei discorsi del messaggero, o che avesse qualche reale attinenza con la selvaggia e primitiva storia della punizione di Penteo.
Molto del colore religioso primitivo del dramma è senza dubbio tradizionale, come il tema stesso (vedi sotto). La sua straordinaria vitalità è forse dovuta in qualche misura a cose che il poeta ha visto o sentito dire in Macedonia – dove l’opera fu scritta – perchè in Macedonia, se dobbiamo credere a Plutarco, il culto dionisiaco era ancora nel IV secolo abbastanza primitivo da includere alcuni riti come il maneggio dei serpenti35. Ma ho suggerito altrove36 che l’interesse di Euripide per il soggetto può essere stato suscitato da fatti che accadevano più vicino a casa. Ad Atene Dioniso era stato addomesticato, ma non ne consegue che il carattere dionisiaco fosse svanito, e ci sono di fatto molte prove che durante la guerra peloponnesiaca – probabilmente come risultato delle tensioni sociali che essa generò – la religione di tipo orgiastico cominciò a riemergere sotto altri nomi. Atene fu invasa da una moltitudine di θεοὶ ξενικοί37: è in questo momento che la letteratura attica comincia ad essere piena di riferimenti a divinità misteriche orientali e settentrionali, Cibele, Bendis, Attis, Adone e Sabazio. In relazione alle Baccanti l’ultimo nominato è di speciale interesse. Egli è un corrispondente orientale di Dioniso – un Dioniso non ellenizzato, il cui culto manteneva il fascino primitivo e molto del rituale originario che il Dioniso attico aveva da molto tempo perduto. Sabazio prometteva ancora ai suoi iniziati quanto Dioniso aveva una volta promesso – l’identificazione con la divinità. E a tal fine egli offriva loro i vecchi mezzi: un rito estatico notturno eseguito al suono del flauto e del timpano. Parecchi degli antichi elementi rituali menzionati nella πάροδος delle Baccanti – i καθαρμοί, i τύμπανα, il maneggio dei serpenti, le pelli di cerbiatto, l’appellativo cultuale ἔξαρχος – sono attestati da Demostene per il culto di Sabazio in quanto praticati ad Atene nel IV secolo38.
Il passato era di fatto ritornato, o stava tentando di ritornare. E trascinava nella sua scia una controversia di contenuti simili alla disputa tra Penteo e Tiresia nelle Baccanti. Echi di questa controversia sopravvivono nei frammenti della Commedia Antica, negli oratori, e in Platone; o piuttosto, echi da una delle due parti; infatti capita che tutte le testimonianze in nostro possesso sono ostili al nuovo movimento religioso. Aristofane scrisse una commedia, le Horae, in cui “Sabazio e certe altre divinità straniere” furono processate e condannate all’esilio da Atene; la protesta sembra sia stata principalmente indirizzata, come la protesta di Penteo contro Dioniso, alla celebrazione di riti femminili coperti dalle tenebre, nocturnae pervigilationes39. Né fu questo un attacco isolato ai nuovi culti: i θεοὶ ξενικοί furono oggetto di satira da parte di Apollofane nei suoi Cretesi, di Eupoli nei suoi Baptae, di Platone comico nel suo Adone. Nel IV secolo, Demostene cerca di oscurare il buon nome del suo rivale Eschine con ripetute allusioni alla sua frequentazione con i mal reputati riti di Sabazio. Frine è accusata di introdurre una “nuova divinità” di tipo dionisiaco, Isodaites, e di costituire θίασοι illegali; mentre Platone prende così seriamente i pericoli morali del movimento che vorrebbe imporre severe pene su chiunque fosse stato colto a “praticare riti orgiastici in privato”40.
L’opinione pubblica ateniese è dunque, per quanto ci troviamo a conoscere, dalla parte della legge e dell’ordine. Quale sorta di forze emotive fossero impegnate sull’altra sponda lo possiamo in parte congetturare dai cori delle Baccanti, e il discorso di Tiresia può forse aiutarci a ricostruire le argomentazioni intellettuali per la difesa fatta in certi ambienti. Al contrario, possiamo comprendere meglio alcune parti del dramma se le rapportiamo a questo retroterra contemporaneo. Non suggerisco che il poeta trattò la venuta di Dioniso a Tebe come un’allegoria dell’arrivo ad Atene di Sabazio e cose simili: persino se avesse voluto fare così, i contorni della storia erano troppo solidamente fissati dalla tradizione per prestarsi ad un trattamento del genere. Sembra però probabile che la situazione contemporanea aiutasse a stimolare l’interesse di Euripide per quel mito in particolare; e che, nello scrivere certi passi delle Baccanti – soprattutto la scena di Penteo e Tiresia – egli avesse in mente, e si aspettasse che il suo pubblico avesse in mente, il parallelismo fra le due storie.
1 Le caratteristiche del culto dionisiaco sono così differenti da quelle della maggior parte degli altri culti greci che possiamo a buon diritto parlarne in questi termini. Però nella sua forma greca non fu mai una ‘religione’ separata nel senso che escludeva altri culti.
2 Il primo scrittore moderno che ha compreso la psicologia dionisiaca è stato Erwin Rhode; il suo Psyche è ancora il libro fondamentale.
3 De Idide et Osiride, 35, 365a, che cita Pindaro, fr. 140 Bowra
4 Orazio è un’eccezione: Carmina, II, 19 e III, 25 mostrano una più profonda comprensione della vera natura del dio.
5 The Varieties of Religious Experience, 387.
6 [N.d.T.] «con il dio dentro».
7 [N.d.T.] «andare per i monti».
8 [N.d.T.] «parodo», l’ingresso del coro dopo quello degli attori (il prologo).
9 Vedi il mio articolo ‘Il Menadismo nelle Baccanti’, Harvard Theological Rev. xxxiii (1940), 155 sqq. (ristampato in parte, con qualche aggiunta e correzione, come appendice a I Greci e l’irrazionale).
10 Pausania, 10, 32, 5; Plutarco, De primo frigido, 18, 953d.
11 Mulierum virtutes, 13.
12 Aldous Huxley, Ends and Means, 232, 235.
13 Rhode, Psyche, cap. 9, n. 21. [N.d.T.] Credo corrisponda nell’edizione Laterza (BUL del 2018) alla n. 99 pag. 314, ‘Religione dionisiaca in Grecia’.
14 [N.d.T.] «un dio / il più terribile per gli uomini e il più mite».
15 [N.d.T.] «dilaniamento, sbranamento, il fare a pezzi».
16 [N.d.T.] «il mangiare la carne cruda».
17 [N.d.T.] Baccanti, v. 139: «gioia crudivora».
18 Plutarco, De defectu oraculorum, 14, 417c: ἡμέρας ἀποφράδας καὶ σκυθρωπάς, ἐν αἷς ὠμοφαγίαι καὶ διασπασμοὶ, «nei giorni nefasti e luttuosi, nei quali (si verificano) smembramenti e divoramenti di carne cruda».
19 Rane, v. 357: Κρατίνου τοῦ ταυροφάγου […] Βακχεῖα.
20 [N.d.T.] φάνηθι ταῦρος ἢ πολύκρανος ἰδεῖν / δράκων ἢ πυριφλέγων ὁρᾶσθαι λέων, « Mostrati come toro o drago dalle molte teste / a vedersi o leone fiammeggiante alla vista».
21 Plutarco, Quaestiones Graecae, 36, 299b: βοέῳ ποδὶ θύων […] ἄξιε ταῦρε, «con piede bovino infuriando […] o sacro toro».
22 [N.d.T.] ἀλλ' ἦ ποτ' ἦσθα θήρ; τεταύρωσαι γὰρ οὖν, «Ma eri forse una belva? perché in effetti ti sei trasformato in toro».
23 Non c’erano leoni in Grecia in epoca storica; ma il leone sopravvisse nei più antichi templi del dio, in Asia Minore, Tracia, e Macedonia (Hdt., VII, 25, Xen, Cyr., 11, Pausania, 6, 5, 4).
24 [N.d.T.] «il baccanale dei sacrifici umani».
25 Plutarco, Temistocle, 13, basandosi sull’autorità del pupillo di Aristotele Fania. Anche se la storia è falsa, essa mostra cosa i Greci del quarto secolo pensassero di Dioniso Omaste.
26 Livio, XXXIV, 13 (si tratta del senatusconsultum de bacchanalibus), cfr. Plauto, Bacchides, 371 sq.
27 Sofocle, fr. 668.[N.d.T.] Διονύσου τοῦ ταυροφάγου, «di Dioniso mangiatore di tori».
28 [N.d.T.] ὡς οὐ κάμοιμ' ἂν οὔτε νύκτ' οὔθ' ἡμέραν / θύρσῳ κροτῶν γῆν· ἐπιλελήσμεθ' ἡδέως / γέροντες ὄντες, « Giacché io non mi stancherei né di notte né di giorno / di battere la terra col tirso: ci siamo dimenticati / con piacere di essere vecchi» (Cadmo); ὁ θεὸς ἀμοχθεὶ κεῖσε νῷν ἡγήσεται, « Il dio guiderà noi due là senza sforzo» (Tiresia); ἆρ' ἂν δυναίμην τὰς Κιθαιρῶνος πτυχὰς / αὐταῖσι βάκχαις τοῖς ἐμοῖς ὤμοις φέρειν;, «Potrei portare sulle le mie spalle le balze / del Citerone con le baccanti stesse» (Penteo).
29 [N.d.T.] «rende l’anima partecipe del tiaso».
30 [N.d.T.] πᾶν δὲ συνεβάκχευ' ὄρος / καὶ θῆρες, οὐδὲν δ' ἦν ἀκίνητον δρόμῳ, «il monte baccheggiava tutto / e anche le fiere, e non c’era nulla che non fosse mosso dalla corsa» (è il discorso del messaggero giunto dalla montagna).
31 [N.d.T.] «recentemente introdotti».
32 [N.d.T.] «inganno di Zeus»; è un episodio, così chiamato già dagli antichi editori, in cui Era seduce Zeus per distrarlo dalla guerra.
33 È stato sostenuto che i riti “orgiastici” non presero mai piede in Attica: ma il nome Lenée ([N.d.T.] era il nome della festa invernale in cui si svolgevano gli agoni drammatici; quella più importante erano le Dionisie, in primavera) – apparentemente derivante da λῆναι, le donne selvagge – suggerisce il contrario.
34 Tucidide, II, 31. [N.d.T.] «sollievi dalle fatiche». Riporto il passo per intero con alcune considerazioni: Καὶ μὴν καὶ τῶν πόνων πλείστας ἀναπαύλας τῇ γνώμῃ ἐπορισάμεθα, ἀγῶσι μέν γε καὶ θυσίαις διετησίοις νομίζοντες, ἰδίαις δὲ κατασκευαῖς εὐπρεπέσιν, ὧν καθ' ἡμέραν ἡ τέρψις [2] τὸ λυπηρὸν ἐκπλήσσει, «Inoltre ci siamo procurati per lo spirito moltissimi sollievi dalle fatiche, facendo uso di gare e feste sacre, e di eleganti edifici privati, il cui godimento quotidiano scaccia la pena».
35 Plutarco, Alessandro, 2.
36 Menadism in the Bacchae, pp. 171 sqq.
37 «dèi stranieri».
38 Sulla corona, 259 sqq., 284.
39 Cicerone, De legibus, II, 37.
40 ὀργιάζων πλὴν τὰ δημόσια, Leggi, X, 910bc.
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