Virgilio, Eneide, IV, 294-392 - Traduzione e commento

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At regina dolos (quis fallere possit amantem?)

praesensit, motusque excepit prima futuros

omnia tuta timens. eadem impia Fama furenti

detulit armari classem cursumque parari.

saevit inops animi totamque incensa per urbem 300

bacchatur, qualis commotis excita sacris

Thyias, ubi audito stimulant trieterica Baccho

orgia nocturnusque vocat clamore Cithaeron.

tandem his Aenean compellat vocibus ultro:

'dissimulare etiam sperasti, perfide, tantum 305

posse nefas tacitusque mea decedere terra?

nec te noster amor nec te data dextera quondam

nec moritura tenet crudeli funere Dido?

«Ma la regina (chi potrebbe ingannare un'innamorata?) sentì in anticipo e capì per prima i piani imminenti, ella che temeva tutto anche se era tranquillo. La medesima empia Fama ha riferito alla furente che armavano la flotta e preparavano il viaggio. Infuria priva di senno e infiammata baccheggia per tutta la città, come una Tiade eccitata dai riti risvegliati, quando udito Bacco la stimolano le orge triennali e la chiama con grida il notturno Citerone. Infine di sua iniziativa con queste parole apostrofa Enea: “Hai addirittura sperato, perfido di poter dissimulare un crimine così grande e di andartene in silenzio dalla mia terra? Non ti trattiene il nostro amore, non la mano destra data un tempo, non Didone pronta a morire di morte crudele?»

Catullo. Carmina, 64, 132-3

Sicine me patriis avectam, perfide, ab oris

perfide, deserto liquisti in litore, Theseu?

«Così perfido, strappata dai lidi paterni, / perfido, mi abbandonasti in una spiaggia deserta?»

Assimilazione della donna alla terra

Pound: “La sua sposa Gea-Tellus, simbolo della terra, è il suolo dal quale l'intelletto tenta di saltar via, e nel quale ricade in saecula saeculorum”.

Euripide Medea, 20-23

Μήδεια δ᾽ ἡ δύστηνος ἠτιμασμένη

βοᾷ μὲν ὅρκους, ἀνακαλεῖ δὲ δεξιᾶς

πίστιν μεγίστην, καὶ θεοὺς μαρτύρεται

οἵας ἀμοιβῆς ἐξ Ἰάσονος κυρεῖ

«E Medea, l'infelice disonorata / grida i giuramenti, invoca della mano destra / il massimo impegno, e chiama a testimoni gli dèi / di quale ricompensa ottenga da Giasone».

quin etiam hiberno moliri sidere classem

et mediis properas Aquilonibus ire per altum, 310

crudelis? quid, si non arva aliena domosque

ignotas peteres, et Troia antiqua maneret,

Troia per undosum peteretur classibus aequor?

mene fugis? per ego has lacrimas dextramque tuam te

(quando aliud mihi iam miserae nihil ipsa reliqui), 315

per conubia nostra, per inceptos hymenaeos,

si bene quid de te merui, fuit aut tibi quicquam

dulce meum, miserere domus labentis et istam,

oro, si quis adhuc precibus locus, exue mentem.

«Anzi addirittura sotto il cielo invernale prepari la flotta e ti affretti ad andare per l'alto mare in mezzo agli aquiloni, o crudele? E che? Se non cercassi campi altrui e case ignote, e Troia antica fosse ancora salda, Troia sarebbe meta del tuo viaggio con la flotta per il mare ondoso? E' me che fuggi? Io per queste lacrime e la tua destra (dato che ormai a me misera null'altro io stessa ho lasciato), per il nostro connubio, gli imenei iniziati, se se ho conseguito qualche merito nei tuoi confronti, o qualcosa di me ti è stato dolce, ti prego, abbi pietà della casa che crolla e svestiti di questa intenzione, se c'è ancora un posto per le preghiere».

Cat. 64, 141

sed conubia laeta, sed optatos imenaeos

«ma la gioiosa unione, ma le nozze desiderate»


Cat. 64, 143-44

nunc iam nulla viro iuranti femina credat,

nulla viri speret sermones esse fidelis

«ora nessuna donna creda più a un uomo che giura, / nessuna speri che i discorsi di un uomo siano leali».

La Medea di Euripide invece aveva detto (vv. 516-19):

ὦ Ζεῦ, τί δὴ χρυσοῦ μὲν ὃς κίβδηλος ᾖ

τεκμήρι᾽ ἀνθρώποισιν ὤπασας σαφῆ,

ἀνδρῶν δ᾽ ὅτῳ χρὴ τὸν κακὸν διειδέναι

οὐδεὶς χαρακτὴρ ἐμπέφυκε σώματι;

«Oh Zeus, perché dell’oro che sia falso / hai fornito agli esseri umani chiari indizi, / mentre nessun marchio è connaturato al corpo / con cui riconoscere quello malvagio?»

Dante, If. XXVI, 80-1 “s'io meritrai di voi mentre ch'io vissi/s'io meritai di voi assai o poco”

Sofocle, Aiace, 520-24

ἀνδρί τοι χρεὼν

μνήμην προσεῖναι, τερπνὸν εἴ τί που πάθοι.

χάρις χάριν γάρ ἐστιν ἡ τίκτουσ᾽ ἀεί:

ὅτου δ᾽ ἀπορρεῖ μνῆστις εὖ πεπονθότος,

οὐκ ἂν γένοιτ᾽ ἔθ᾽ οὗτος εὐγενὴς ἀνήρ

«per l'uomo certo è doveroso / che rimanga un ricordo, della gioia se in qualche modo l'ha provata: / infatti gratitudine genera gratitudine sempre. / Colui dal quale scivola via il ricordo di aver ricevuto del bene, / non può più essere chiamato nobile».

Esiodo, Opere e giorni, 190-193

οὐδέ τις εὐόρκου χάρις ἔσσεται οὐδὲ δικαίου

οὐδ' ἀγαθοῦ, μᾶλλον δὲ κακῶν ῥεκτῆρα καὶ ὕβριν

ἀνέρα τιμήσουσι· δίκη δ' ἐν χερσί· καὶ αἰδὼς

οὐκ ἔσται,

Euripide Medea 439-40

βέβακε δ᾽ ὅρκων χάρις, οὐδ᾽ ἔτ᾽ αἰδὼς

Ἑλλάδι τᾷ μεγάλᾳ μένει, αἰθερία δ᾽ ἀνέπτα

«Se n’è andato il rispetto dei giuramenti, e non più pudore / rimane nella grande Ellade, ma nell’aria è volato».

Cicerone, Off., I, 47

nullum enim officium referenda gratia magis necessarium est.

«Infatti nessun dovere è più necessario che ricambiare la gratitudine».

Nietzsche: Teognide, Silloge (105-112) «E' un favore del tutto vano fare del bene ai vili: è come seminare la superficie del mare canuto. Infatti seminando il mare non mieti folta messe, né facendo del bene ai malvagi puoi riceverne del bene in cambio: ché i malvagi hanno mente insaziabile se tu sbagli, l'affetto per tutti i favori di prima si versa per terra. I buoni invece gustano al massimo quanto ricevono (οἱ ἀγαθοὶ τὸ μέγιστον ἐπαύρισκουσι παθόντες, v. 111), e serbano memoria dei beni e gratitudine in seguito».

te propter Libycae gentes Nomadumque tyranni 320

odere, infensi Tyrii; te propter eundem

exstinctus pudor et, qua sola sidera adibam,

fama prior. cui me moribundam deseris hospes

(hoc solum nomen quoniam de coniuge restat)?

quid moror? an mea Pygmalion dum moenia frater 325

destruat aut captam ducat Gaetulus Iarbas?

saltem si qua mihi de te suscepta fuisset

ante fugam suboles, si quis mihi parvulus aula

luderet Aeneas, qui te tamen ore referret,

non equidem omnino capta ac deserta viderer.' 330

«A causa tua mi odiano le genti libiche e i tiranni dei Nomadi, ostili sono i Tirii; sempre a causa tua si estinse il pudore e la precedente fama grazie alla quale solamente andavo alle stelle. A chi mi lasceraai moribonda, ospite? Dato che (infatti) questo è il solo nome che mi resta dallo sposo. Cosa aspetto? Finché il fratello Pigmalione non distrugga le mie mura o il getulo Iarba mi porti via prigioniera? Se almeno mi fosse nata da te una qualche prole prima della fuga, se mi giocasse per il cortile un piccolo Enea, che tuttaviati rievocasse nel viso, senza dubbio non mi sentirei del tutto ingannata e abbandonata».

Nel riferimento alla mancata maternità, Didone raggiunge il massimo del pathos, accentuato oltretutto dall'uso del diminutivo, normalmente rifiutato dallo stile epico. Forse si può considerare come modello l’episodio del sacrificio di Ifigenia nel De rerum natura di Lucrezio (vv. I, vv. 93-94) quando, ormai conscia la fanciulla di quello che l’aspetta, non le può giovare neanche di essere la primogenita: nec miserae prodesse in tali tempore quibat, / quod patrio princeps donarat nomine regem, «Né all’infelice poteva giovare in tale circostanza, / il fatto di aver donate per prima al re il nome di padre».

Deserta è ancora una voce che richiama il sermo amatorius, per esempio il v. 57 del carme 64 di Catullo deserta in sola miseram … harena.

Dixerat. ille Iovis monitis immota tenebat

lumina et obnixus curam sub corde premebat.

tandem pauca refert: 'ego te, quae plurima fando

enumerare vales, numquam, regina, negabo

promeritam, nec me meminisse pigebit Elissae 335

dum memor ipse mei, dum spiritus hos regit artus.

«Aveva detto. Quello teneva gli occhi fissi agli ordini di Giove e sforzandosi reprimeva l'angoscia nel cuore. Infine dà una breve risposta: “Io, i moltissimi meriti che tu, regina, puoi enumerare parlando, giammai negherò che tu li abbia conseguiti né mi dorrà ricordare Elissa, finché sono memore di me, finché lo spirito regge queste membra».

Come minimo Enea dimostra gratitudine e anche affetto.

Giasone nella Medea in effetti si comporta molto peggio; infatti a Medea che gli ricorda tutto quello che ha fatto per lui risponde (vv. 526-28, 530-31): «Io, siccome esageri anche troppo il merito, penso che Cipride sola tra dèi e uomini sia la salvatrice della spedizione … Eros ti ha costretto a salvare il mio corpo con frecce invincibili.

ἐγὼ δ᾽, ἐπειδὴ καὶ λίαν πυργοῖς χάριν,

Κύπριν νομίζω τῆς ἐμῆς ναυκληρίας

σώτειραν εἶναι θεῶν τε κἀνθρώπων μόνην.

...

ὡς Ἔρως σ᾽ ἠνάγκασεν

τόξοις ἀφύκτοις τοὐμὸν ἐκσῶσαι δέμας

Però poi precisa che non ha mai preso nessun formale impegno.

pro re pauca loquar. neque ego hanc abscondere furto

speravi (ne finge) fugam, nec coniugis umquam

praetendi taedas aut haec in foedera veni.

Sulla questione dirò poche cose. Né io ho sperato di nascondere questa fuga (non crederlo) né mai ho proteso le fiaccole dello sposo o sono giunto a questi patti.

Sulla questione delle nozze Giasone (vv. 548-50) ha un atteggiamento più sofistico, come nello stile di Euripide:

ἐν τῷδε δείξω πρῶτα μὲν σοφὸς γεγώς,

ἔπειτα σώφρων, εἶτα σοὶ μέγας φίλος

καὶ παισὶ τοῖς ἐμοῖσιν

«Ti mostrerò che in questo innanzitutto sono stato abile, poi saggio, infine grande amico a te e ai miei figli», riferendosi al fatto che sposando la figlia di un re e formando tutti insieme una unica famiglia, potranno avere una vita migliore di quella che avrebbe ro avuto senza questo matrimonio regale».

me si fata meis paterentur ducere vitam 340

auspiciis et sponte mea componere curas,

urbem Troianam primum dulcisque meorum

reliquias colerem, Priami tecta alta manerent,

et recidiva manu posuissem Pergama victis.

«Se i fati mi lasciassero condurre la vita secondo i miei desideri e ricomporre gli affanni secondo la mia volontà, innanzitutto abiterei la città di Troia e venererei le dolci reliquie dei miei, alto rimarrebbe il palazzo di Priamo e avrei ricostruito per i vinti Pergamo caduta due volte».

Dunque sono i Fata che obbligano Enea. Fatum è connesso etimologicamente col verbo for, faris, fatus sum , fari = dire, è ciò che dicono gli dèi; dalla stessa radice deriva anche fas, ciò che è sacro agli dèi. Interessante è la differenza tra fas e mos; il mos è una legge che nasce dal consenso, di cui non ha bisogno il fas, che è una legge che si impone da sola.

Per evidenziare tale differenza è utile una domanda di un legato, Bleso, a dei soldati che minacciavano una rivolta (Tacito, Annales, I, 19, 3) Cur contra more obsequii, contra fas disciplinae vim meditentur? «Perché volgere l'animo alla violenza contro l'usanza dell'ossequio e la sacra legge della disciplina?».

sed nunc Italiam magnam Gryneus Apollo, 345

Italiam Lyciae iussere capessere sortes;

hic amor, haec patria est.

«Ma ora Apollo Grineo mi ha ordinato, le sorti della Licia mi hanno ordinato di raggiungere l'Italia, la grande Italia; qui è l'amore, qui la patria».

A proposito di questa sottomissione di Enea al volere del fato e degli dèì, Des Esseintes, il protagonista di Controcorrente di Huysmans, fa queste osservazioni: «Il latino, come lo si scrisse nel secolo che i professori si ostinano tuttora a chiamare il secolo d'oro, non lo attirava granché. Quella lingua ristretta, dai giri di frase contati, pressoché invariabili; irrigidita nella sua sintassi, senza colore né sfumature … Fra tutti, l'ineffabile Virgilio … gli appariva non solo uno dei più esosi pedanti, ma anche uno dei più sinistri rompiscatole che l'antichità abbia mai prodotto. I suoi pastori, usciti pur mo' dal bagno ed azzimati di tutto punto, che si scaricano a vicenda sul capo filastrocche di versi sentenziosi e gelati … il suo Enea, questo personaggio indeciso e ondeggiante che si muove come un'ombra cinese, con mosse di marionetta, dietro il trasparente malfermo e male oliato del poema, lo mettevano fuori dai gangheri … quella miseria dell'epiteto omerico che torna ogni momento e non dice nulla, non evoca nulla» (pag. 43-44).

Anche Leopardi prova antipatia per Enea; nello Zibaldone (2) dice: «Omero ha fatto Achille infinitamente men bello di quello che poteva farlo … e noi proviamo che ci piace più Achille che Enea ec. onde è falso anche che quello di Virgilio sia maggior poema ec.». Più avanti (3608-3611): «Troppa virtù morale, poca forza di passione, troppa ragionevolezza, troppa rettitudine, troppo equilibrio e tranquillità d'animo, troppa placidezza, troppa benignità, troppa bontà. Virgilio descrive divinamente l'amor di Didone per lui: da questo, e quasi da questo solo, ci accorgiamo che egli è ancor giovane e bello; e sebben questo in lui non ripugna alla natura e al verisimile naturale, come in Ulisse, pur tanta è la serietà dell'idea che Virgilio ci fa concepire del suo eroe, che la gioventù e la bellezza ci paiono in lui fuor di luogo … E così mentre Virgilio si ferma e si compiace in descrivere la passione di Didone e i suoi vari accidenti, progressi, andamenti, ed effetti … a riguardo d'Enea e della sua passione parla così coperto, anzi dissimulato … anzi serba quasi un così alto silenzio, che e' non mostra essa passione se non indirettamente e p. accidente, e in quanto ella si congettura e si lascia supporre per necessità da quel ch'ei narra di Didone, e sempre volgendosi alla sola Didone. E par che volentieri, se si fosse potuto, egli avrebbe fatto che il lettore non estimasse Enea per niun modo tocco dalla passione dell'amore (di donna pur sì alta e sì degna e sì magnanima e sì bella e sì amante e tenera), e giudicasse che Didone avesse ottenuto il piacer sua, senza che quegli avesse conceduto. E chi potesse così stimare seconderebbe il desiderio di Virgilio. Tanto egli ebbe a schivo di far comparire nel suo eroe un errore, una debolezza, laddove non v'è cosa più amabile che la debolezza nella forza, né cosa meno amabile che un carattere e una persona senza debolezza veruna. E tanto egli giudicò che dovesse nuocere appo i lettori alla stima non solo, ma all'interesse pel suo eroe (che mal ei confuse con la stima) il concepirlo e il vederlo capace di passione, capace di amore, tenero, sensibile, dicuore».

si te Karthaginis arces

Phoenissam Libycaeque aspectus detinet urbis,

quae tandem Ausonia Teucros considere terra

invidia est? et nos fas extera quaerere regna. 350

me patris Anchisae, quotiens umentibus umbris

nox operit terras, quotiens astra ignea surgunt,

admonet in somnis et turbida terret imago;

me puer Ascanius capitisque iniuria cari,

quem regno Hesperiae fraudo et fatalibus arvis. 355

nunc etiam interpres divum Iove missus ab ipso

(testor utrumque caput) celeris mandata per auras

detulit: ipse deum manifesto in lumine vidi

intrantem muros vocemque his auribus hausi.

desine meque tuis incendere teque querelis; 360

Italiam non sponte sequor.'

«Se le rocche di Cartagine e la vista di una città libica trattengono te Fenicia, che invidia hai che dei Troiani si stabiliscano infine in terra ausonia? È destino che anche noi cerchiamo regni in terra straniera. L'immagine del padre Anchise mi ammonisce nei sogni e con aria fosca mi atterrisce, tutte le volte che la notte con umide ombre copre le terre, tutte le volte che sorgono gli astri infuocati; mi ammonisce il fanciullo Ascanio e l'offesa del suo caro capo, che defraudo del regno d'Esperia e dei campi fatali. Adesso anche il messaggero degli dèi, mandato dallo stesso Giove (lo giuro su entrambe le teste) mi ha riferito gli ordini per l'aria veloce; io stesso ho visto il dio penetrare nella chiara luce i muri e ne ho raccolto la voce con queste orecchie.
Smettila di infiammare me e te con le tue lamentele: non di mia volontà seguo l'Italia”».

Enea insomma intima a Didone di evitargli sensi di colpa e seccature.

Dante nel Convivio interpreta così l'atteggiamento di Enea: “chiamasi quello freno Temperanza … E così infrenato mostra Virgilio, lo maggior nostro poeta, che fosse Enea, ne la parte de lo Eneida ove questa etade si figura; la quale parte comprende lo quarto, lo quinto e lo sesto libro de lo Eneida. E quanto raffrenare fu quello, quando, avendo ricevuto da Dido tanto di piacere … e usando con essa tanto di dilettazione, elli si partio, per seguire onesta e laudabile via e fruttuosa, come nel quarto de la Eneida scritto è”. Secondo Auerbach qui Dante è addirittura grottesco.

Il concetto che le decisioni prese da Enea sono indipendenti dalla sua volontà ritorna nel VI libro (460) invitus, regina, tuo de litore cessi, «senza volerlo regina mi sono allontanato dalla tua spiaggia1». Quindi Enea cerca di interloquire in qualche modo ma Didone illa solo fixos ocuols aversa tenebat, «ella teneva gli occhi fissi al suolo, girata dall'altra parte».

Eliot considera il silenzio di Didone “il più espressivo rimprovero di tutta la storia della poesia” e “non soltanto uno dei brani più commoventi, ma anche uno dei più civili che si possono incontrare in poesia”2.

In realtà c'è un precedente nell'Odissea, XI, 542-564.

Ulisse si trova nell'Ade per consultare Tiresia e incontra una serie di anime tra cui quella di sua madre e quella di Achille. Però ce n'è una che sta in disparte (543-544):

οἴη δ᾽ Αἴαντος ψυχὴ Τελαμωνιάδαο

νόσφιν ἀφεστήκει, κεχολωμένη εἵνεκα νίκης

«solo l'anima di Aiace Telamonio, restava in disparte, in collera per la vittoria», per il fatto che Ulisse era riuscito a sottrargli con l'inganno le armi di Achille, che dovevano andare in premio al più valoroso dopo Achille. In effetti poi Aiace si suicida perché, come dice nell'omonima tragedia di Sofocle ai vv. 479-80

ἀλλ' ἢ καλῶς ζῆν ἢ καλῶς τεθνηκέναι

τὸν εὐγενῆ χρή. Πάντ' ἀκήκοας λόγον.

«Ma è necessario che il nobile o viva nella bellezza / o nella bellezza muoia. Hai ascoltato tutto il discorso».

Allora il figlio di Laerte racconta ad Alcinoo che (552):

τὸν μὲν ἐγὼν ἐπέεσσι προσηύδων μειλιχίοισιν

«con parole di miele io mi rivolsi a lui»

Ma (563-564):

ὣς ἐφάμην, ὁ δέ μ᾽ οὐδὲν ἀμείβετο, βῆ δὲ μετ᾽ ἄλλας

ψυχὰς εἰς Ἔρεβος νεκύων κατατεθνηώτων

«Come dissi, quello niente rispose, ma se ne andò nell'Erebo con le altre anime dei cadaveri dei morti».

L'Anonimo Del sublime nota che ὕπψος μεγαλοφροσύνης ἀπήχημα, «il sublime è l'eco di un alto sentire» (IX), perciò «il nudo pensiero, separato dalla voce, in qualche modo è ammirato di per sé, perché è in sé alto sentire ὡς ἡ τοῦ Αἴαντος ἐν Νέκυια σιωπὴ μέγα καὶ παντός ὑψηλότερον λόγου, “come il silenzio di Aiace nella Νέκυια, grande e più sublime di qualsiasi discorso».

Del resto i silenzi di Aiace e Didone sono molto significativi e in fondo assimilabili alla parola dell'oracolo di Delfi secondo Eraclito, fr. 120 Diano, ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖον ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει, ἀλλὰ σημαίνει.

Talia dicentem iamdudum aversa tuetur

huc illuc volvens oculos totumque pererrat

luminibus tacitis et sic accensa profatur:

'nec tibi diva parens generis nec Dardanus auctor, 365

perfide, sed duris genuit te cautibus horrens

Caucasus Hyrcanaeque admorunt ubera tigres.

nam quid dissimulo aut quae me ad maiora reservo?

num fletu ingemuit nostro? num lumina flexit?

num lacrimas victus dedit aut miseratus amantem est? 370

quae quibus anteferam? iam iam nec maxima Iuno

nec Saturnius haec oculis pater aspicit aequis.

nusquam tuta fides.

(Didone) ostile in volto già da tempo lo osserva mentre dice tali cose, volgendo qua e là gli occhi e tutto lo squadra con gli occhi silenzosi e così infiammata parla: “Né ti è madre una dea, né fondatore della stirpe Dardano, perfido, ma ti ha generato Il Caucaso irto di dure rocce e le tigri ircane ti hanno porto le mammelle. Infatti perché dissimulo o a quali cose maggiori mi riservo? Forse ha emesso un solo gemito al mio pianto? Ha forse piegato gli occhi? Forse ha versato, vinto, delle lacrime o ha commiserato l'innamorata? A cosa dovrei anteporre ciò? Ormai né la grandissima Giunone né Saturno padre rivolgono lo sguardo a questi fatti con occhi equi. Da nessuna parte è protetta la lealtà.

Cat., Carmina, 64, 154-57:

quaenam te genuit sola sub rupe leaena,

quod mare conceptum spumantibus exspuit undis,

quae Syrtis, quae Scylla rapax, quae uasta Carybdis,

talia qui reddis pro dulci praemia uita?

«Quale leonessa ti ha generato sotto un'arida rupe, quale mare ti vomitò una volta concepito tra le schiumose onde, quale Sirti, quale Scilla rapace, quale vasta Cariddi, te che rendi tali compensi per una dolce vita?»

Seneca, Medea, 407-414:

quae ferarum immanitas,

quae Scylla, quae Charybdis Ausonium mare

Siculumque sorbens quaeue anhelantem premens

Titana tantis Aetna feruebit minis? 410

non rapidus amnis, non procellosum mare

pontusue coro saeuus aut uis ignium

adiuta flatu possit inhibere impetum

irasque nostras: sternam et euertam omnia.

«Quale mostruosità di belve, quale Scilla, quale Cariddi inghiottendo il mare Ausonio e Siculo, quale Etna premendoil Titano ansimante arderà con così grandi minacce? Non un fiome in piena, non il mare in tempesta i il pontosconvolto dal maestrale o la violenza del fuoco favorita dal vento potrebbe frenare l'impeto e le nostre ire: abbatterò e sconvolgerò ogni cosa».

1 L’assenza di volontà come attenuante quando si commette ingiustizia è così commentata da Guicciardini (Ricordi, 168): «Che mi rilieva me che colui che mi offende lo facci per ignoranza e non per malignità? Anzi, è spesso molto peggio, perché la malignità ha e fini suoi determinati e procede con le sue regole, e però non sempre offende quanto può. Ma la ignoranza, non avendo né fine, né regola, né misura, procede furiosamente e dà mazzate da ciechi».

2 Che cosa è un classico?, in Opere, Bompiani, pag. 966.

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