Euripide, Baccanti – Introduzione di Dodds – cap. II: ELEMENTI TRADIZIONALI NELLE BACCANTI – Maturità 2025

 

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II. ELEMENTI TRADIZIONALI NELLE BACCANTI


i. Storia e rituale

La storia di Penteo e Agave è una di una serie di leggende di culto che descrivono la punizione di quegli sconsiderati mortali che rifiutano di accettare la religione di Dioniso. La prima di esse ad apparire in letteratura è la storia del Tracio Licurgo, del quale Omero riferisce (Iliade, VI, 130 sqq.) che sulla montagna sacra Nisa diede la caccia a Dioniso e alle sue “nutrici”, li spinse fino al mare, e fu accecato come punizione. Scrittori più tardi (e pitture vascolari) dicono che egli fu punito con la pazzia, e nella sua pazzia uccise il proprio figlio. La sua fine è variamente descritta: fu sepolto in una caverna (Sofocle, Antigone, 955 sqq.), patì lo σπαραγμός da parte di cavalli o pantere, o si mozzò le gambe. Una figura che si avvicina molto è il Tracio Bute, il quale inseguì le menadi di Ftiotide fino al mare, diventò pazzo, e annegò in un pozzo. Un altro gruppo di storie parla di donne che furono fatte impazzire dal dio – le tre figlie di Minia a Orcomeno, che uccisero e divorarono il bambino Ippaso; le tre figlie di Preto, che indussero le donne di Argo ad uccidere i propri figli e a darsi alle montagne; le figlie di Eleutere a Eleutere, la cui pazzia fu punita per aver disprezzato la vista del dio.

Queste leggente sono evidentemente collegate al mito tebano della pazzia delle tre figlie di Cadmo e della morte di Penteo tra le loro mani. Molti scrittori trovano in esse semplicemente un riflesso di eventi storici – una tradizione di conflitti locali successivi tra i fanatici seguaci della nuova religione e i rappresentanti di legge e ordine, i capi delle grandi famiglie. Che conflitti di questo genere si siano verificati è di per sé probabile; che il contagio delle danze della montagna dovesse improvvisamente impossessarsi di un miscredente è psicologicamente comprensibile e ha, come abbiamo visto, i suoi paralleli in altre culture; che il dio dovesse fare le sue prime conversioni fra le donne è naturale alla luce delle vite anguste e represse che le donne greche comunemente conducevano. Ma mentre abbiamo bisogno di non rifiutare questo punto di vista, esso non fornisce, io penso, di per sé una spiegazione esaustiva dei miti. (a) Non si adatta alla storia di Licurgo, che è ambientata nella patria tracia del dio. (b) Non rende conto della singolare fissità dello schema mostrato dall’altro gruppo: sempre ci sono tre donne (corrispondenti ai tre θίασοι di menadi che esistevano a Tebe e altrove in epoca storica, cfr. Baccanti, 680 n.); regolarmente esse uccidono i loro figli, o il figlio di una di loro, come Licurgo ha ucciso suo figlio, e come Procne ha ucciso Iti alla τριετηρίς sul monte Rodope (Ovidio, Metamorfosi, VI, vv. 658 sqq.). La storia indubbiamente ripete se stessa: ma è solo il rituale che ripete se stesso esattamente. (c) La storia delle Miniadi è collegata da Plutarco a un rituale inseguimento delle menadi da parte del sacerdote di Dioniso, rituale che era ancora eseguito a Orcomeno ai suoi giorni – un inseguimento che poteva finire (e finì occasionalmente) in una uccisione rituale. Se noi accettiamo la testimonianza di Plutarco, è difficile evitare la conclusione che l’inseguimento delle menadi argive da parte del sacerdote Melampo e quello delle “nutrici” del dio da parte di Licurgo e Bute, riflettano un rituale simile.

Queste considerazioni suggeriscono che Penteo possa essere una figura composta (come Guy Fawkes) di elementi storici e rituali – allo stesso tempo lo storico avversario del dio e la sua vittima rituale. Euripide gli ha conferito una fisionomia che si addice alla sua veste originaria: è l’aristocratico conservatore greco, che disprezza la nuova religione in quanto βάρβαρον, la odia per la sua cancellazione delle distinzioni di sesso e classe sociale, e la teme come una minaccia all’ordine sociale e alla pubblica morale. Ci sono però delle caratteristiche nella sua storia come il dramma la presenta che assomigliano a elementi tradizionali derivati dal rituale, e non si spiegano facilmente sulla base di qualsiasi altra ipotesi. Tali sono l’appostamento di Penteo sull’abete sacro (vv. 1058-1075 n.), il suo bersagliamento con rami d’abete e quercia (vv. 1096-1098 n.), e l’errata convinzione di Agave di trasportare la testa recisa di una delle incarnazioni ferine del dio, un vitello o un leone, su cui invita il coro a festeggiare (vv. 1184-1187 nn.). E se accettiamo questi come riflessi di un rituale sacrificale originario, possiamo ragionevolmente collegare al medesimo rituale – e di conseguenza riconoscere come sostanzialmente tradizionali – due fondamentali episodi della storia, quando Penteo viene incantato o stregato e quando viene vestito in paramenti rituali. Se Penteo deve essere la vittima del dio, bisogna che egli diventi il tramite del dio (questa è la teoria dionisiaca del sacrificio): Dioniso deve entrare in lui e farlo impazzire, non con pozioni o droghe o ipnosi, come il moderno razionalismo troppo disinvoltamente suppone, ma con una soprannaturale intromissione nella personalità dell’uomo (cfr. la nota introduttiva al terzo episodio c). Inoltre, prima che la vittima sia sbranata, deve essere consacrata da un rito di investitura: come il vitello a Tenedo indossava il coturno del dio, così Penteo deve indossare la μίτρα del dio (vv. 831-833 n., 854-855 n.). Possiamo dire con una certa sicurezza che né la scena in cui viene stregato né la scena della “toilette” sono, nei loro punti principali, l’invenzione del poeta (o di qualsiasi poeta) così come sono state esposte, sebbene a partire da questi elementi tradizionali egli abbia creato qualcosa che è unico nella sua stranezza e capacità di coinvolgimento. Lo stesso sembra essere vero di molti dei punti del discorso del primo messaggero (vedi commento).


ii. Testimonianze dai drammi dionisiaci precedenti

I πάθη1 di Dioniso, il dio patrono del dramma, possono a ragione essere il più antico di tutti i soggetti drammatici2. Per noi le Baccanti sono un esemplare unico di dramma sulla passione dionisiaca; per il suo primo pubblico invece era un rimaneggiamento di un tema ormai familiare alle generazioni che frequentavano il teatro ateniese. L’attribuzione di un Πενθεύς a Tespi3 è probabilmente un’invenzione; ma in aggiunta alle due tetralogie dionisiache di Eschilo, sappiamo di una tetralogia su Licurgo di Polifrasmone4, rappresentata nel 467; delle Βάκχαι di Senocle, che faceva parte del gruppo che vinse il primo premio nel 415; delle Βάκχαι ἢ Πενθεύς del figlio di Sofocle Iofonte; una Σεμέλη κεραυνομένη5 di Spintaro (tardo quinto secolo); delle Βάκχαι di Cleofonte (periodo incerto). Nessuna tragedia dionisiaca è attribuita a Sofocle, a meno che le sue Ὑδροφόροι non trattasse, come la Σεμέλη ἢ Ὑδροφόροι di Eschilo, della nascita di Dioniso (la quale noi sappiamo essere menzionata nella tragedia, fr. 674). Il Διόνυσος di Cheremone (dove pare che figurasse Penteo), la Σεμέλη di Carcino, e la Σεμέλη di Diogene probabilmente appartengono al quarto secolo; un passo piuttosto lungo rimasto da quest’ultima testimonia del persistente interesse del pubblico ateniese per gli esotici culti orgiastici.


Nel paragrafo che segue ho tagliato alcuni passaggi molto specifici senza tuttavia pregiudicare il succo del ragionamento.


Di nessuna di queste conosciamo molto oltre il titolo – la grande popolarità delle Baccanti nell’antichità più tarda le ha senza dubbio uccise. E persino dei drammi dionisiaci di Eschilo la nostra conoscenza è dolorosamente esigua. La sua Lycurgeia era composta da Ἠδωνοί, Βασσάραι (o Βασσαρίδες), Νεανίσκοι, e il dramma satiresco Λυκοῦργος (schol. Aristofane, Tesmoforiazuse, 134). Così come sui drammi che componevano la sua (presunta) tetralogia tebana c’è molta discussione. Il catalogo mediceo ci presenta Βάκχαι, Ξάντριαι, Πενθεύς, Σεμέλη ἢ Ὑδροφόροι, Τροφοί. Ce n’è una di troppo: l’ipotesi più verosimile è forse che Βάκχαι sia un titolo alternativo per Βασσάραι6. […] I frammenti della Lycurgeia di Eschilo presentano alcuni interessanti paralleli con le Baccanti. (a) Negli Ἠδωνοί, come nel nostro dramma, Dioniso veniva fatto prigioniero, interrogato sul luogo della sua nascita, evidentemente nell’ignoranza della sua identità (fr. 61, cfr. Baccanti, 460 sqq.), e schernito per il suo aspetto e abbigliamento effemminati (fr. 61 e probabilmente 59, 60, 62, cfr. Baccanti vv. 453-459 n., 831-833 n.). È come se la prima scena tra Penteo e Dioniso nelle Baccanti seguisse il modello dei poeti più antichi piuttosto da vicino. (b) Da qualche parte nella tetralogia c’era un’apparizione del dio nella sua vera natura, il cui effetto sul palazzo di Licurgo era descritto nei versi ἐνθουσιᾷ δὴ δῶμα, βακχεύει στέγη7 (fr. 58). Possiamo probabilmente dedurre che nel “prodigio del palazzo” delle Baccanti Euripide stesse seguendo la tradizione, anche se le parole conservate non implicano un effettivo terremoto. (c) Da due frammenti delle Βασσάραι possiamo dedurre che Eschilo – come Euripide – parlasse delle pericolose sembianze taurine del dio (fr. 23, cfr. Baccanti 618, 920, 1017) e lo rappresentasse come Signore del Fulmine (fr. 23a sul monte Pangeo, cfr. Baccanti 594-595 n., 1082-1083 n.).

Tre ulteriori congetture possono essere aggiunte. (i) Certi personaggi in Eschilo (?Licurgo o Penteo) applicano il termine offensivo χαλιμίαι o χαλιμάδες8 alle donne baccanti (fr. 448), il che suggerisce che le insinuazioni di immoralità messe da Euripide in bocca a Penteo erano accuse tradizionali. (ii) L’imprigionamento e la prodigiosa fuga delle baccanti, brevemente descritti nel nostro dramma (vv. 443-448), figurano nel sommario di “Apollodoro” della storia di Licurgo (Biblioteca, III, 34-35 Βάκχαι δὲ ἐγένοντο αἰχμάλωτοι αὖθις δὲ αἱ Βάκχαι ἐλύθησαν ἐξαίφνης9), e forse comparivano anche nel Lycurgus di Nevio10. “Apollodoro” non sta seguendo Euripide, dato che fa incarcerare a Licurgo anche i satiri. Dobbiamo supporre che egli ed Euripide (e Nevio?) stiano qui attingendo ad una fonte comune, con ogni probabilità la Lycurgeia di Eschilo. (iii) Nevio pure riproduce l’interrogatorio del dio prigioniero e la descrizione del suo abbigliamento effemminato, che certamente risale a Eschilo; e l’incendio del palazzo, che probabilmente attua. Quindi può ben essere che sia dalla medesima fonte che egli ed Euripide derivino la similitudine delle menadi con gli uccelli e il racconto del loro assalto alle fattorie della valle (frr. 7 e 3, basati su Baccanti 748-750). L’impressione lasciata dai frammenti del Lycurgus nel loro complesso è che Nevio non dipendesse dalle Baccanti, ma si avvalesse di un originale molto simile ad esse sia nella tonalità generale sia nello schema della sua trama. E la cosa probabile è che questo originale fosse gli Ἠδωνοί di Eschilo.

Delle tragedie romane sulla storia di Penteo, il Pentheus di Pacuvio11 era basata su Euripide, se dobbiamo credere a Servio su Eneide, IV, 496; ma certe altre fonti erano apparentemente utilizzate, dato che il prigioniero di Penteo è chiamato Acete, come anche in Ovidio, Metamorfosi, III, 474 sqq. (dove la narrazione si discosta ampiamente da Euripide in altri aspetti). Le Baccanti di Accio12 sembra dai frammenti che siano state un adattamento abbastanza vicino al dramma di Euripide.


iii. Testimonianze dalla pittura vascolare

La morte di Penteo era, come altri soggetti dionisiaci, fu tra i maggiormente prediletti dai pittori vascolari; e dal modo in cui l’hanno trattata sono stati fatti tentativi di trarre deduzioni su come Eschilo vi ha posto mano e sulle innovazioni a lui o a Euripide.

[…] È stato dedotto che nella forma più antica del mito gli uccisori non erano Agave e le sue sorelle ma i seguaci di Dioniso; e che o Eschilo o Euripide furono i primi a fare di Agave l’assassina. Non è impossibile, ma i miti paralleli delle Miniadi e delle Pretidi mi sembrano dire il contrario […] Quanto ai drammi contemporanei di Euripide […] non c’è nessuna indicazione nell’arte greca che Penteo si sia travestito. Ciò può essere dovuto semplicemente alla difficoltà di rappresentare un Penteo travestito facilmente riconoscibile. Ed è in ogni caso avventato concludere, come fanno alcuni, che Euripide ha inventato il travestimento: più di una versione della fine di Penteo può ben essere circolata prima che egli scrivesse […].

Speculazioni di questo tipo sono necessariamente azzardate. Ciò che, comunque, emerge da uno studio della rappresentazione pittorica del quinto secolo dei soggetti dionisiaci è che almeno alcuni dei pittori aveva visto donne in estasi religiosa (probabilmente alle Lenee. E ciò che essi potevano vedere anche Euripide aveva la possibilità di vederlo, senza andare in Macedonia a tal fine.


iv. Elementi formali

Abbiamo così considerato da lontano solo il contenuto delle Baccanti. Quando esaminiamo la forma, siamo subito colpiti dall’aspetto arcaico che questo dramma molto tardo presenta. In ciò non è unico: una certa tendenza arcaizzante fa mostra di sé qua e là in tutta la produzione più tarda di Euripide. Ma le Baccanti portano l’arcaismo più avanti di qualsiasi altro dei suoi drammi; Murray addirittura lo definisce “il più formalista dramma greco da noi conosciuto”13.

In una certa misura ciò è dettato dalla trama. Qui per una volta Euripide aveva un coro la cui presenza non aveva bisogno di difesa e le cui sorti personali erano intimamente legate all’azione: possono così συναγωνίζεσθαι nella maniera approvata da Aristotele (Poetica, 1456a25)14, e per un’estensione che è insolita sia in Euripide sia nei drammi superstiti di Sofocle. Quindi non c’era bisogno di ridurre la sua parte o di sostituire alcuno dei suoi canti con assolo degli attori (μονῳδίαι)15. Per di più, la rappresentazione di un’azione miracolosa, a meno che il produttore non disponga delle risorse di Drury Lane16, impone un uso esteso della narrazione. Il poeta ha inserito un miracolo psicologico al centro dell’azione scenica17; però il miracolo fisico doveva essere riferito. E così le Baccanti ritornano al modello drammatico più arcaico: non solo ci sono due discorsi del messaggero formali, ciascuno lungo più di 100 versi, ma abbiamo in aggiunta la narrazione del soldato (vv. 434-450) e quella dello straniero (vv. 617-637); tutti e quattro descrivono eventi miracolosi che non avrebbero potuto essere mostrati sul palcoscenico.

Ma è significativo che anche nell’espressione e nello stile il dramma ritorni a una maniera più arcaica. Un recente ricercatore continentale trova più forme arcaiche nelle Baccanti che in ogni altro dramma di Euripide, e meno forme colloquiali o prosastiche che qualsiasi cosa egli abbia scritto fino alle Troiane18. C’è, è vero, un’insolitamente alta percentuale di “nuove” parole, cioè parole che non si trovano in altri scrittori precedenti19. Ma poche di queste sembrano essere prese dalla parlata contemporanea: alcune di esse appartengono al linguaggio della religione dionisiaca, come θιασώτης o καταβακχιοῦσθαι: altre sono raffinatezze dell’espressione poetica, come χρυσορόης o σκιαρόκομος. C’è una considerevole componente eschilea nel vocabolario, e alcune eco inconsce di frasi eschilee sono state notate (probabilmente ne troveremmo di più se i drammi dionisiaci di Eschilo si fossero conservati). Il solenne stile semi-liturgico che è predominante nei canti corali spesso richiama Eschilo; c’è un po’ della preziosità e della cura barocca nell’elemento decorativo che caratterizza la maggior parte dei versi più tardi di Euripide. In accordo con questa tonalità è la scelta di ritmi associati agli effettivi inni del culto (commento, p. 183), e specialmente l’uso esteso di ionici (p. 72). Così anche l’esordio dei ritornelli (876 sqq., 991 sqq.), che appartengono alla tradizione degli inni del culto: è degno di nota che Eschilo li usi liberamente, Sofocle per niente, Euripide altrove solo nell’inno di Ione ad Apollo e nel canto di trasporto dell’acqua di Elettra. I trimetri giambici rivelano la data del dramma con l’alta percentuale di piedi soluti (uno ogni 2,3 trimetri, una frequenza superata solo nell’Oreste); ma il dialogo ha, ciò non di meno, una certa arcaica rigidità se confrontato, per esempio, con la contemporanea Ifigenia in Aulide. Un segno di ciò è la rarità nei passi recitati dell’ἀντιλαβή (divisione di un verso tra due che parlano). In altri drammi tardi questo è un mezzo prediletto20 per trasmettere il concitato batti e ribatti di un’accesa discussione, specialmente nelle scene trocaiche; nelle Baccanti i versi giambici sono divisi solo in due punti (vv. 189, 966-70), quelli trocaici mai.

Questa severità di forma sembra essere voluta: va al di là di ciò a cui i condizionamenti del teatro costringevano. E in effetti il tremendo potere del dramma sorge in parte dalla tensione tra il classico formalismo del suo stile e della sua struttura e la strana esperienza religiosa che rappresenta. Come Coleridge disse, l’immaginazione creativa si manifesta nel modo più intenso nell’ “equilibrio o riconciliazione delle opposte o discordanti qualità”, e specialmente nel combinare uno stato emotivo più che inconsueto con un ordine più che consueto”. Nelle Baccanti si è realizzata una combinazione di questo genere.

1 [N.d.T.] «sofferenze».

2 [N.d.T.] Così la pensava anche Nietzsche, La nascita della tragedia, cap. 10: «È tradizione incontestabile che la tragedia greca, nella sua forma più antica, aveva per oggetto solo i dolori di Dioniso, e che per molto tempo l’unico eroe presente in scena fu appunto Dioniso. Con la stessa sicurezza peraltro si può affermare che fino a Euripide Dioniso non cessò mai di essere leroe tragico, e che tutte le figure famose della scena greca, Prometeo, Edipo, eccetera, sono soltanto maschere di quelleroe originario. Che dietro a tutte queste maschere si nasconda una divinità, è l'unica ragione essenziale della tipica «idealità», così spesso ammirata, di quelle celebri figure. Non so chi ha sostenuto che tutti gli individui in quanto individui sono comici e pertanto non tragici: da ciò si potrebbe dedurre che i Greci in genere non potevano tollerare individui sulla scena tragica. Effettivamente sembra che essi abbiano sentito a questo modo, e in genere la distinzione e valutazione platonica dell'«idea» in antitesi all'«idolo», alla copia, è profondamente radicata nella natura greca. Ma per servirci della terminologia di Platone, sulle figure tragiche della scena ellenica si potrebbe all'incirca parlare così: lunico Dioniso veramente reale appare in una molteplicità di figure, nella maschera di un eroe in lotta, ed è per così dire preso nella rete della volontà individuale. Quanto alle parole e alle azioni del dio che appare, egli rassomiglia a un individuo che sbaglia, che lotta e che soffre; e che egli appaia in genere con questa epica determinatezza e chiarezza, è effetto dell’interprete di sogni Apollo, che con quella simbolica apparenza chiarisce al coro il suo stato dionisiaco. Ma in verità quelleroe è il Dioniso sofferente dei misteri, quel dio che sperimenta in sé i dolori dellindividuazione, e di cui mirabili miti narrano come da fanciullo fosse fatto a pezzi dai Titani e come poi in questo stato venisse venerato come Zagreus. Con ciò si significa che questo sbranamento, la vera e propria sofferenza dionisiaca, è come una trasformazione in aria, acqua, terra e fuoco, e che quindi dobbiamo considerare lo stato di individuazione come la fonte e la causa prima di ogni sofferenza, come qualcosa in sé detestabile. Dal sorriso di questo Dioniso sono nati gli dèi olimpici, dalle sue lacrime gli uomini»

3 [N.d.T.] Del VI secolo a.C.; era considerato il padre della tragedia.

4 [N.d.T.] Era figlio di Frinico; non sappiamo quasi nulla e non ci sono giunti frammenti.

5 [N.d.T.] «Semele fulminata».

6 O Πενθεύς (come le Βάκχαι di Euripide e Iofonte portavano il titolo alternativo Πενθεύς)

7 [N.d.T.] «è invaso dal dio il palazzo, la casa è in preda a Bacco».

8 [N.d.T.] «donne dalla veste discinta».

9 [N.d.T.] «le baccanti divennero prigioniere … di nuovo le baccanti furono subito liberate».

10 [N.d.T.] 275-201 a.C. circa.

11 [N.d.T.] 220-135 a.C. circa.

12 [N.d.T.] 170-84 a.C. circa.

13 Euripides and His Age, p. 184. [N.d.T.] p. 122 nella traduzione di Nina Ruffini, Bari, Laterza, 1932.

14 [N.d.T.] καὶ τὸν χορὸν δὲ ἕνα δεῖ ὑπολαμβάνειν τῶν ὑποκριτῶν, καὶ μόριον εἶναι τοῦ ὅλου καὶ συναγωνίζεσθαι μὴ ὥσπερ Εὐριπίδῃ ἀλλ' ὥσπερ Σοφοκλεῖ, «E bisogna considerare il coro come uno degli attori, e che sia una parte dell’insieme e che partecipi all’azione, non come per Euripide ma come per Sofocle».

15 Sembra verosimile che i lunghi assolo, esagerati in drammi come l’Oreste e non più una novità, avessero cominciato ad annoiare il pubblico (cfr. Aristofane, Rane, 849, 1329 sqq.). Sicché il contemporaneo Edipo a Colono mostra un simile ritorno alla pratica più antica rispetto al Filottete ([N.d.T.] del 409 a.C.).

16 [N.d.T.] Strada di Londra che dà il nome al famoso Theatre Royale Drury Lane fin dal XVII secolo; evidentemente disponeva di risorse regali.

17 Vedi nota all’episodio 3 (c), p. 172.

18 J. Smereka, Studia Euripidea (Lwow, 1936), p. 117. [N.d.T.] Rappresentate nel 415 a.C.: cioè si tratta di una tragedia tarda.

19 Ibidem 241.

20 52 versi recitati sono così divisi nell’Oreste, 36 nell’Ifigenia in Aulide, 53 nell’Edipo a Colono.

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