Riprendo dal post precedente.
Dodds1 ritiene che l’approccio socratico alla morale affondi le sue radici nell’«abitudine di spiegare il carattere o la condotta sotto specie di conoscenza», abitudine che preesiste a Socrate:
Il caso più noto è l’uso molto largo del verbo οἶδα, «sapere», con un neutro plurale per complemento oggetto, ad esprimere non solo il possesso di abilità tecnica (οἶδεν πολεμήια ἔργα e simili) ma anche ciò che chiameremmo carattere morale o sentimenti personali: Achille «sa cose selvatiche, come un leone», Polifemo «sa cose senza legge», Nestore ed Agamennone «sanno l’uno all’altro cose amichevoli»2. Queste non sono semplicemente espressioni idiomatiche omeriche: analoga trasposizione del sentimento in termini intellettuali è implicita, quando si dice che Achille «ha uno spietato intendimento (νόος)», o che i Troiani «ricordarono la fuga e dimenticarono la resistenza»3. Questo modo intellettualistico di spiegare la condotta ha lasciato un’impronta durevole sulla mentalità greca: i cosidetti paradossi socratici che «la virtù è conoscenza» e che «nessuno fa il male di proposito» non erano novità, erano formulazioni, generalizzate in forma esplicita | di un antico e radicato abito mentale. Questo abito mentale deve aver incoraggiato la credenza negli interventi psichici: se carattere vale conoscenza, quel che non è conoscenza non fa parte del carattere, e perviene all’uomo dall’esterno. Quando un uomo agisce in modo contrario a quel sistema di disposizioni coscienti che, si dice, egli conosce, il suo atto non è propriamente suo, gli è stato imposto. In altri termini, gli impulsi non sistematizzati, non razionali, tendono a venir esclusi dall’io e attribuiti ad origine estranea.
Spostiamoci ora nel campo della tragedia greca, dove i personaggi dimostrano spesso la loro caratura eroica rivendicando la volontarietà delle proprie azioni, anche quando sono consapevoli di infrangere delle leggi, per lo meno quelle scritte. Così per esempio vediamo Prometeo assumersi fieramente la responsabilità del furto del fuoco (Eschilo, Prometeo, 266):
ἑκὼν ἑκὼν ἥμαρτον, οὐκ ἀρνήσομαι
«di mia volontà, di mia volontà ho peccato, non lo negherò».
Allo stesso modo Antigone4 rivendica il gesto con cui ha onorato il cadavere del fratello morto, nonostante l’editto di Creonte che lo vietava (Sofocle, Antigone, 443):
καὶ φημὶ δρᾶσαι κοὐκ ἀπαρνοῦμαι τὸ μή
«e affermo di averlo fatto e non lo nego, proprio no».
In particolare nell’atteggiamento di Prometeo Nietzsche5 individua la peculiarità degli indoeuropei:
La leggenda di Prometeo è proprietà originaria dell’intera comunità dei popoli ariani e un documento delle loro doti di profondità tragica; non mancherebbe anzi di verosimiglianza il dire che questo mito possiede per la natura ariana esattamente la stessa caratteristica importanza che il mito del peccato originale ha per la natura semitica, e che fra i due miti esiste un grado di parentela come tra fratello e sorella. Il presupposto del mito di Prometeo è lo sconfinato valore che un’umanità ingenua attribuisce al fuoco, come al vero palladio di ogni civiltà ascendente: ma che l’uomo disponesse liberamente del fuoco e non lo ricevesse soltanto come un regalo del cielo, come folgore incendiaria o come vampa scottante del sole, apparve a quei contemplativi uomini arcaici come un sacrilegio, come una rapina ai danni della natura divina. […] La cosa migliore e più alta di cui l’umanità possa diventare partecipe, essa la conquista con un crimine, e deve poi accettarne le conseguenze […] un pensiero crudo, che per la dignità conferita al crimine6 stranamente contrasta con il mito semitico del peccato originale, in cui la curiosità, il raggiro menzognero, la seducibilità, la lascivia, insomma una serie di affetti eminentemente femminili fu considerata come origine del male. Ciò che distingue la concezione ariana è l’elevata idea del peccato attivo some vera virtù prometeica […] Chi comprende l’intima essenza della leggenda di Prometeo – cioè la necessità del delitto imposta all’individuo che ha aspirazioni titaniche - dovrà in pari tempo sentire la non apollineità di questa concezione pessimistica; giacché Apollo vuole dar pace agli esseri singoli proprio col tracciare fra loro linee di confine e col richiamarle poi sempre di nuovo alla memoria, mediante i suoi precetti della conoscenza di sé e della misura, come le più sacre leggi del mondo.
Il rapporto tra volontarietà e involontarietà, poi, è uno dei conflitti fondamentali che Hegel7 individua nella tragedia e che vede rappresentato soprattutto nella saga di Edipo:
Più formale è una seconda collisione principale che i tragici greci amarono raffigurare nel destino di Edipo, e di cui l’esempio più compiuto ci è dato da Sofocle nel suo Edipo Re e Edipo a Colono. Qui si tratta del diritto della coscienza desta, della legittimità di ciò che l’uomo compie con volere autocosciente, di contro a quel che egli ha realmente fatto involontariamente e inconsapevolmente per determinazione divina. Edipo ha ucciso il padre, sposato la madre, | generato figli con un matrimonio incestuoso, e tuttavia è stato coinvolto in questo orrendo misfatto senza volerlo e senza esserne cosciente8. Il diritto della nostra più profonda coscienza odierna consisterebbe nel rifiutare di riconoscere questi crimini come gli atti del proprio Io, giacché questi sono avvenuti al di fuori della coscienza e della volontà; ma il greco plastico assume la responsabilità di ciò che egli ha compiuto come individuo e non si scinde nella soggettività formale dell’autocoscienza e in ciò che è la cosa oggettiva.
1 I Greci e l’irrazionale, cap. I, L’apologia di Agamennone, pp. 28-29, La Nuova Italia, Firenze, 1997).
2 Iliade, XXIV, 41; Odissea, IX, 189; Odissea, III, 277.
3 Iliade, XVI, 35, 356 sq.
4 All’inizio della tragedia Antigone aveva già fatto intendere la forza della sua identità: ἀλλ᾽ οἶδ᾽ ἀρέσκουσ᾽ οἷς μάλισθ᾽ ἁδεῖν με χρή, «ma so di piacere a quelli a cui soprattutto è necessario che io piaccia» (v. 89); più avanti poi si esprime con profondo umanesimo: οὔτοι συνέχθειν, ἀλλὰ συμφιλεῖν ἔφυν, «non certo per condividere l’odio, ma per condividere l’amore sono nata» (v. 523).
5 La nascita della tragedia, cap. 9.
6 Anche Pascal (Pensieri, C279-B408) sembra conferire, in determinati casi, una certa “dignità” al male: Le mal est aisé, il y en a une infinité, le bien presque unique. Mais un certain genre de mal est aussi difficile à trouver que ce qu’on appelle bien, et souvent on fait passer pour bien à cette marque ce mal particulier. Il faut même une grandeur extraordinaire d’âme pour y arriver aussi bien qu’au bien, «Il male è facile, ce n’è un’infinità; il bene pressoché unico. Ma un certo tipo di male è tanto difficile da trovare quanto ciò che si chiama bene, e spesso si fa passare per bene sotto tale segno questo particolare male. È anzi necessaria una straordinaria grandezza d’animo per arrivarci, proprio come per il bene».
7 Estetica, pp. 1357-58 (trad. it. di Nicola Merker e Nicola Vaccaro, Torino, Einaudi, 1967).
8 Si potrebbe obiettare che per Sofocle non è tanto questo il punto, quanto, se mai, il suo atteggiamento tracotante, come si evince dai vv. 396-398 dell’Edipo re, in cui il re attribuisce esclusivamente a se stesso la vittoria sulla Sfinge: ἀλλ᾽ ἐγὼ μολών, / ὁ μηδὲν εἰδὼς Οἰδίπους, ἔπαυσά νιν, / γνώμῃ κυρήσας οὐδ᾽ ἀπ᾽, οἰωνῶν μαθών, «ma arrivato io, / Edipo, che non sapevo nulla, la feci cessare, / usando l’intelligenza e senza avere appreso nulla dagli uccelli»