sabato 5 aprile 2025

L’assenza di volontà nel male è una giustificazione? – III

Riprendo dal post precedente

Dodds1 ritiene che l’approccio socratico alla morale affondi le sue radici nell’«abitudine di spiegare il carattere o la condotta sotto specie di conoscenza», abitudine che preesiste a Socrate:

Il caso più noto è l’uso molto largo del verbo οἶδα, «sapere», con un neutro plurale per complemento oggetto, ad esprimere non solo il possesso di abilità tecnica (οἶδεν πολεμήια ἔργα e simili) ma anche ciò che chiameremmo carattere morale o sentimenti personali: Achille «sa cose selvatiche, come un leone», Polifemo «sa cose senza legge», Nestore ed Agamennone «sanno luno allaltro cose amichevoli»2. Queste non sono semplicemente espressioni idiomatiche omeriche: analoga trasposizione del sentimento in termini intellettuali è implicita, quando si dice che Achille «ha uno spietato intendimento (νόος)», o che i Troiani «ricordarono la fuga e dimenticarono la resistenza»3. Questo modo intellettualistico di spiegare la condotta ha lasciato unimpronta durevole sulla mentalità greca: i cosidetti paradossi socratici che «la virtù è conoscenza» e che «nessuno fa il male di proposito» non erano novità, erano formulazioni, generalizzate in forma esplicita | di un antico e radicato abito mentale. Questo abito mentale deve aver incoraggiato la credenza negli interventi psichici: se carattere vale conoscenza, quel che non è conoscenza non fa parte del carattere, e perviene alluomo dallesterno. Quando un uomo agisce in modo contrario a quel sistema di disposizioni coscienti che, si dice, egli conosce, il suo atto non è propriamente suo, gli è stato imposto. In altri termini, gli impulsi non sistematizzati, non razionali, tendono a venir esclusi dallio e attribuiti ad origine estranea.

Spostiamoci ora nel campo della tragedia greca, dove i personaggi dimostrano spesso la loro caratura eroica rivendicando la volontarietà delle proprie azioni, anche quando sono consapevoli di infrangere delle leggi, per lo meno quelle scritte. Così per esempio vediamo Prometeo assumersi fieramente la responsabilità del furto del fuoco (Eschilo, Prometeo, 266):

ἑκὼν ἑκὼν ἥμαρτον, οὐκ ἀρνήσομαι

«di mia volontà, di mia volontà ho peccato, non lo negherò».

Allo stesso modo Antigone4 rivendica il gesto con cui ha onorato il cadavere del fratello morto, nonostante l’editto di Creonte che lo vietava (Sofocle, Antigone, 443):

καὶ φημὶ δρᾶσαι κοὐκ ἀπαρνοῦμαι τὸ μή

«e affermo di averlo fatto e non lo nego, proprio no».

In particolare nell’atteggiamento di Prometeo Nietzsche5 individua la peculiarità degli indoeuropei:

La leggenda di Prometeo è proprietà originaria dellintera comunità dei popoli ariani e un documento delle loro doti di profondità tragica; non mancherebbe anzi di verosimiglianza il dire che questo mito possiede per la natura ariana esattamente la stessa caratteristica importanza che il mito del peccato originale ha per la natura semitica, e che fra i due miti esiste un grado di parentela come tra fratello e sorella. Il presupposto del mito di Prometeo è lo sconfinato valore che unumanità ingenua attribuisce al fuoco, come al vero palladio di ogni civiltà ascendente: ma che luomo disponesse liberamente del fuoco e non lo ricevesse soltanto come un regalo del cielo, come folgore incendiaria o come vampa scottante del sole, apparve a quei contemplativi uomini arcaici come un sacrilegio, come una rapina ai danni della natura divina. […] La cosa migliore e più alta di cui lumanità possa diventare partecipe, essa la conquista con un crimine, e deve poi accettarne le conseguenze […] un pensiero crudo, che per la dignità conferita al crimine6 stranamente contrasta con il mito semitico del peccato originale, in cui la curiosità, il raggiro menzognero, la seducibilità, la lascivia, insomma una serie di affetti eminentemente femminili fu considerata come origine del male. Ciò che distingue la concezione ariana è l’elevata idea del peccato attivo some vera virtù prometeica […] Chi comprende lintima essenza della leggenda di Prometeo cioè la necessità del delitto imposta allindividuo che ha aspirazioni titaniche - dovrà in pari tempo sentire la non apollineità di questa concezione pessimistica; giacché Apollo vuole dar pace agli esseri singoli proprio col tracciare fra loro linee di confine e col richiamarle poi sempre di nuovo alla memoria, mediante i suoi precetti della conoscenza di sé e della misura, come le più sacre leggi del mondo.

 Il rapporto tra volontarietà e involontarietà, poi, è uno dei conflitti fondamentali che Hegel7 individua nella tragedia e che vede rappresentato soprattutto nella saga di Edipo:

Più formale è una seconda collisione principale che i tragici greci amarono raffigurare nel destino di Edipo, e di cui lesempio più compiuto ci è dato da Sofocle nel suo Edipo Re e Edipo a Colono. Qui si tratta del diritto della coscienza desta, della legittimità di ciò che luomo compie con volere autocosciente, di contro a quel che egli ha realmente fatto involontariamente e inconsapevolmente per determinazione divina. Edipo ha ucciso il padre, sposato la madre, | generato figli con un matrimonio incestuoso, e tuttavia è stato coinvolto in questo orrendo misfatto senza volerlo e senza esserne cosciente8. Il diritto della nostra più profonda coscienza odierna consisterebbe nel rifiutare di riconoscere questi crimini come gli atti del proprio Io, giacché questi sono avvenuti al di fuori della coscienza e della volontà; ma il greco plastico assume la responsabilità di ciò che egli ha compiuto come individuo e non si scinde nella soggettività formale dellautocoscienza e in ciò che è la cosa oggettiva.

 

1 I Greci e lirrazionale, cap. I, Lapologia di Agamennone, pp. 28-29, La Nuova Italia, Firenze, 1997).

2 Iliade, XXIV, 41; Odissea, IX, 189; Odissea, III, 277.

3 Iliade, XVI, 35, 356 sq.

4 Allinizio della tragedia Antigone aveva già fatto intendere la forza della sua identità: ἀλλ᾽ οἶδ᾽ ἀρέσκουσ᾽ οἷς μάλισθ᾽ ἁδεῖν με χρή, «ma so di piacere a quelli a cui soprattutto è necessario che io piaccia» (v. 89); più avanti poi si esprime con profondo umanesimo: οὔτοι συνέχθειν, ἀλλὰ συμφιλεῖν ἔφυν, «non certo per condividere lodio, ma per condividere lamore sono nata» (v. 523).

5 La nascita della tragedia, cap. 9.

6 Anche Pascal (Pensieri, C279-B408) sembra conferire, in determinati casi, una certa “dignità” al male: Le mal est aisé, il y en a une infinité, le bien presque unique. Mais un certain genre de mal est aussi difficile à trouver que ce quon appelle bien, et souvent on fait passer pour bien à cette marque ce mal particulier. Il faut même une grandeur extraordinaire d’âme pour y arriver aussi bien quau bien, «Il male è facile, ce n’è un’infinità; il bene pressoché unico. Ma un certo tipo di male è tanto difficile da trovare quanto ciò che si chiama bene, e spesso si fa passare per bene sotto tale segno questo particolare male. È anzi necessaria una straordinaria grandezza danimo per arrivarci, proprio come per il bene».

7 Estetica, pp. 1357-58 (trad. it. di Nicola Merker e Nicola Vaccaro, Torino, Einaudi, 1967).

8 Si potrebbe obiettare che per Sofocle non è tanto questo il punto, quanto, se mai, il suo atteggiamento tracotante, come si evince dai vv. 396-398 dellEdipo re, in cui il re attribuisce esclusivamente a se stesso la vittoria sulla Sfinge: ἀλλ᾽ ἐγὼ μολών, / ὁ μηδὲν εἰδὼς Οἰδίπους, ἔπαυσά νιν, / γνώμῃ κυρήσας οὐδ᾽ ἀπ᾽, οἰωνῶν μαθών, «ma arrivato io, / Edipo, che non sapevo nulla, la feci cessare, / usando lintelligenza e senza avere appreso nulla dagli uccelli»

L’assenza di volontà nel male è una giustificazione? – II

 Riprendo da dove mi ero interrotto, cioè dalla conclusione dell’Ippia minore.

Una posizione analoga, ma meno contorta ed espressa in modo molto più chiaro ed efficace1, si trova in Critone, 44d:

Εἰ γὰρ ὤφελον, ὦ Κρίτων, οἷοί τ’ εἶναι οἱ πολλοὶ τὰ μέγιστα κακὰ ἐργάζεσθαι, ἵνα οἷοί τ’ ἦσαν καὶ ἀγαθὰ τὰ μέγιστα, καὶ καλῶς ἂν εἶχεν. νῦν δὲ οὐδέτερα οἷοί τε· οὔτε γὰρ φρόνιμον οὔτε ἄφρονα δυνατοὶ ποιῆσαι, ποιοῦσι δὲ τοῦτο ὅτι ἂν τύχωσι.

«Magari, o Critone, i più fossero capaci di compiere i più grandi mali, affinché fossero capaci di compiere anche i più grandi beni, e sarebbe bello! Ora invece non sono capaci di nessuna delle due cose: non sono in grado di rendere né intelligenti né stolti, ma fanno quello che gli capita»
2Curiosamente Guicciardini si trova, su questo, d’accordo con Platone (Ricordi, 168):

Che mi rilieva me che colui che mi offende lo facci per ignoranza e non per malignità? Anzi, è spesso molto peggio, perché la malignità ha e fini suoi determinati e procede con le sue regole, e però non sempre offende quanto può. Ma la ignoranza, non avendo né fine, né regola, né misura, procede furiosamente e dà mazzate da ciechi3.Si può aggiungere alla riflessione di Guicciardini una di Machiavelli4 che parlando di Cesare e confrontandolo con Catilina dice che «tanto è più biasimevole Cesare, quanto più è da biasimare quello che ha fatto, che quello che ha voluto fare un male».

L’idea espressa da Socrate nei due dialoghi presi in considerazione è coerente, per la sua natura intellettualistica, con quella più generale che potremmo, sulla scorta di Nietzsche, far rientrare nel concetto di socratismo5, secondo cui la morale dipende dalla conoscenza. Tale teoria trova espressione nel Protagora di Platone (357d, 358d):

καὶ γὰρ ὑμεῖς ὡμολογήκατε ἐπιστήμης ἐνδείᾳ ἐξαμαρτάνειν περὶ τὴν τῶν ἡδονῶν αἵρεσιν καὶ λυπῶν τοὺς ἐξαμαρτάνοντας – ταῦτα δέ ἐστιν ἀγαθά τε καὶ κακά – [] ἐπί γε τὰ κακὰ οὐδεὶς ἑκὼν ἔρχεται οὐδὲ ἐπὶ ἃ οἴεται κακὰ εἶναι. 
«anche voi infatti siete daccordo che per mancanza di scienza sbagliano coloro che sbagliano riguardo alla scelta dei piaceri e dei dolori questi sono i beni e i mali [] nessuno va volontariamente verso i mali, nemmeno verso quelli che crede siano mali».

Peraltro sempre nel Protagora (352d-e) trova spazio anche la tesi opposta, con parole che richiamano quasi letteralmente alcuni versi dell’Ippolito6 di Euripide e concettualmente pure quelli di tre anni prima (431 a. C.) della Medea7:

οἶσθα οὖν ὅτι οἱ πολλοὶ τῶν ἀνθρώπων ἐμοί τε καὶ σοὶ οὐ πείθονται, ἀλλὰ πολλούς φασι γιγνώσκοντας τὰ βέλτιστα οὐκ ἐθέλειν πράττειν, ἐξὸν αὐτοῖς, ἀλλὰ ἄλλα πράττειν· καὶ ὅσους δὴ ἐγὼ ἠρόμην ὅτι ποτε αἴτιόν ἐστι τούτου, ὑπὸ ἡδονῆς φασιν [e] ἡττωμένους ἢ λύπης ἢ ὧν νυνδὴ ἐγὼ ἔλεγον ὑπό τινος τούτων κρατουμένους ταῦτα ποιεῖν τοὺς ποιοῦντας. 
«Sai che i più tra gli uomini non crede né a me né a te, ma dicono che molti, pur conoscendo il meglio ed essendo per quelli possibile non vogliono praticarlo, ma agiscono diversamente; e a quanti ho chiesto quale mai fosse la causa di ciò, affermano che coloro che fanno queste cose le fanno vinti dal piacere8 o dal dolore o dominati da una di queste passioni di cui or ora dicevo».

 

1 Cfr. nota 8.

2 Cfr. La Rochefoucauld, Massime, 237: Nul ne mérite d’être loué de bonté s’il na pas la force d’être méchant; toute autre bonté n’est le plus souvent quune paresse ou une impuissance de la volonté, «Nessuno merita di essere lodato per bontà se gli manca la forza di essere cattivo. Ogni altra bontà è più spesso soltanto pigrizia o impotenza della volontà».

3 Un sostegno inaspettato può venire da Seneca (Epistulae, 95): Non promittet se talem in perpetuum qui bonus casu est, «Non garantisce che sarà tale per sempre colui che è buono per caso» (39); è in ciò infatti che consiste la differenza tra la sapienza e le altre arti, poiché in illis excusatius est voluntate peccare quam casu, in hac maxima culpa est sponte delinquere, «in quelle è più scusabile sbagliare per volontà che per caso, in questa la colpa più grande è cadere in fallo volontariamente» (8).

4 Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I, 10, 3.

5 Secondo Nietzsche lessenza del socratismo, che è di natura etica, trova una sua declinazione anche in chiave estetica in Euripide (La nascita della tragedia, cap. 12, Milano, Adelphi, 1972): «Potremo ormai avvicinarci allessenza del socratismo estetico, la cui legge suprema suona a un di presso: “Tutto deve essere razionale per essere bello”, come proposizione parallela al principio socratico: “solo chi sa è virtuoso” […] Così Euripide è come poeta soprattutto leco delle sue cognizioni coscienti [] Egli deve aver avuto spesso limpressione come di dover far vivere per il dramma linizio dello scritto di Anassagora [] al principio tutto era mescolato, poi venne lintelletto e creò ordine”. E se col suo nus Anassagora apparve tra i filosofi come il primo sobrio fra individui tutti ebbri, anche Euripide può aver concepito con unimmagine simile il suo rapporto con gli altri poeti della tragedia [] Euripide si accinse a mostrar al mondo [] lopposto del poeta irragionevole; il suo principio estetico tutto deve essere cosciente per essere bello” è la proposizione parallela al precetto socratico «tutto deve essere cosciente per essere buono. Per conseguenza Euripide può essere considerato come il poeta del socratismo estetico».

6 Queste le parole di Fedra (vv. 380-83): τὰ χρήστ᾽ ἐπιστάμεσθα καὶ γιγνώσκομεν, / οὐκ ἐκπονοῦμεν δ᾽, οἱ μὲν ἀργίας ὕπο, / οἱ δ᾽ ἡδονὴν προθέντες ἀντὶ τοῦ καλοῦ / ἄλλην τιν᾽, «conosciamo il bene e lo comprendiamo, / ma non ci impegniamo a metterlo in pratica, alcuni per pigrizia, / altri preferendo al bello un qualche altro / piacere».

7 Medea, combattuta tra lamore per i figli e la sete di vendetta, si risolve per la vendetta con la seguente rassegnata considerazione (vv. 1078-80): καὶ μανθάνω μὲν οἷα τολμήσω κακά, / θυμὸς δὲ κρείσσων τῶν ἐμῶν βουλευμάτων, / ὅσπερ μεγίστων αἴτιος κακῶν βροτοῖς, «e comprendo quali mali oserò, / ma più forte delle mie riflessioni è la passione, / la quale è causa dei massimi mali per i mortali».

8 Magari proprio il piacere del male, in cui l’uomo si dimostra la peggiore delle belve, in quanto numquam enim illas ad nocendum nisi necessitas incitat; [hae] aut fame aut timore coguntur ad pugnam: homini perdere hominem libet, «quelle in effetti non le aizza mai a nuocere nulla se non la necessità: sono costrette alla lotta o dalla fame o dalla paura: all’uomo dà piacere distruggere l’uomo» (Seneca, Epistualae, 103, 2).

venerdì 4 aprile 2025

L’assenza di volontà nel male è una giustificazione? – I

 

Quando Enea nel VI libro dell’Eneide discende agli inferi1, incontra per l’ultima volta Didone, ormai tra le ombre dei morti; dopo essersene sorpreso e adombrando l’ipotesi di esserne responsabile, dice per giustificarsi:

invitus, regina, tuo de litore cessi,

«senza volerlo regina mi sono allontanato dalla tua spiaggia»2.

Facciamo un passo indietro. Nel I libro del poema Virgilio aveva raccontato l’incontro tra la regina di Cartagine e il pio Enea, fato profugus3, umanamente accolto da Didone4 dopo il naufragio. Nel IV libro avevamo assistito all’esplosione della storia d’amore, favorita per motivi diversi sia da Venere sia da Giunone: dopo essere stato ospitato e soccorso, Enea se ne era andato improvvisamente, ubbidendo agli ordini di Mercurio e rispondendo con queste parole a Didone che tentava disperatamente di dissuaderlo: desine meque tuis incendere teque querellis; / Italiam non sponte sequor, «Smettila di infiammare me e te con le tue lamentele: / non di mia volontà seguo l’Italia» (IV, 360-361)5. Ebbene, così Virgilio descrive la reazione dellombra di Didone alle parole di Enea: illa solo fixos ocuols aversa tenebat, «ella teneva gli occhi fissi al suolo, girata dallaltra parte»6.

Mi sono sempre chiesto se lassenza di volontarietà nel compiere il male sia o no unattenuante. Comunemente la mancanza di intenzione è addotta come giustificazione plausibile; tuttavia diversi autori sostengono il contrario. In questo articolo cercherò di fornire qualche spunto di riflessione.

Iniziamo da un breve dialogo di Platone che affronta specificamente questo tema, lIppia minore; vediamone un riassunto. La discussione parte da una questione posta da Socrate al sofista Ippia di Elide, il quale aveva tenuto un discorso su Omero (364b):

ἀτὰρ τί δὴ λέγεις ἡμῖν περὶ τοῦ Ἀχιλλέως τε καὶ τοῦ Ὀδυσσέως; πότερον ἀμείνω καὶ κατὰ τί φῂς εἶναι;

«Ma cosa ci dici a proposito di Achille e di Odisseo? Chi dei due dici che è migliore e secondo cosa?»

Ippia risponde così (364c):

φημὶ γὰρ Ὅμηρον πεποιηκέναι ἄριστον μὲν ἄνδρα Ἀχιλλέα τῶν εἰς Τροίαν ἀφικομένων, σοφώτατον δὲ Νέστορα, πολυτροπώτατον δὲ Ὀδυσσέα.

«Dico infatti che Omero ha fatto Achille come luomo migliore tra quelli giunti a Troia, Nestore il più sapiente, Odisseo il più multiforme nellingegno».

L’aggettivo πολύτροπος è usato qui al superlativo nell’accezione negativa di «scaltro», «tessitore d’inganni», diversamente dall’Odissea, dove invece caratterizza positivamente l’eroe fin dal primo verso. Ippia cita, a sostegno della sua idea, alcuni versi (Iliade, IX, 308-3147) da cui risulta quanto Achille sia ἁπλούστατος καὶ ἀληθέστατος, «schietto e veritiero8 al massimo» (364d):

Διογενὲς Λαερτιάδη, πολυμήχαν’ Ὀδυσσεῦ,

χρὴ μὲν δὴ τὸν μῦθον ἀπηλεγέως ἀποειπεῖν,

ὥσπερ δὴ κρανέω τε καὶ ὡς τελέεσθαι ὀίω·

ἐχθρὸς γάρ μοι κεῖνος ὁμῶς Ἀΐδαο πύλῃσιν,

ὅς χ’ ἕτερον μὲν κεύθῃ ἐνὶ φρεσίν, ἄλλο δὲ εἴπῃ.

αὐτὰρ ἐγὼν ἐρέω, ὡς καὶ τετελεσμένον ἔσται.

«Laerziade di stirpe divina, Odisseo dalle molte risorse, / è necessario certo manifestare francamente il pensiero, come lo realizzerò e come penso che si compirà; / infatti mi è odioso come le porte dellAde colui, / che una cosa occulti nel cuore, unaltra dica. / Ma io dirò come anche sarà compiuto».

L’episodio è quello dell’ambasceria; in questi versi Achille, dopo aver accolto amichevolmente Fenice, Aiace e Odisseo, giunti allo scopo di convincerlo a deporre la sua ira, rifiuta sdegnato la proposta di Odisseo che su mandato di Agamennone gli ha promesso, in cambio del ritorno ai posti di combattimento, una ricca ricompensa: sette tripodi, dieci talenti d’oro, venti lebeti, dodici cavalli campioni e in più sette donne lesbie, oltre a Briseide (con la quale, assicura, Agamennone non si è ancora accoppiato), subito, e dopo la conquista di Troia altre venti tra le prigioniere (le più belle dopo Elena); infine bottino a non finire. Al ritorno in patria Agamennone gli avrebbe poi dato in sposa una delle tre figlie (Crisotemi, Laodice, Ifianassa) con sette castelli in dote.

Ippia deduce dai versi citati, che mettono in antitesi i due eroi, la contrapposizione dei due caratteri, ἀληθής τε καὶ ἁπλοῦς, «veritiero e schietto» il carattere (τρόπος) di Achille, πολύτροπός τε καὶ ψευδής, «dall’ingegno multiforme e falso» quello di Odisseo.

Ippia argomenta sulla falsità di Odisseo giocando sui termini τρόπος («carattere, ingegno») e πολύτροπός («dal multiforme ingegno»), in quanto dalle parole di Omero emerge il carattere (τρόπος) ἀληθής τε καὶ ἁπλοῦς, «veritiero e schietto» di Achille, πολύτροπός τε καὶ ψευδής, «dall’ingegno multiforme e falso» di Odisseo. In caso contrario il poeta non avrebbe contrapposto così i due eroi.

A questo punto Socrate si avvale di una furbizia logica: in un primo momento afferma che il più scaltro in realtà è Achille, perché nei versi successivi prima dice a Odisseo che non tornerà a combattere ma l’indomani partirà con la nave (vv. 356-61) e poco dopo dice invece ad Aiace che aspetterà Ettore presso la sua nave (vv. 654-655). Siccome infatti Odisseo οὐδὲν γοῦν φαίνεται εἰπὼν πρὸς αὐτὸν ὡς αἰσθανόμενος αὐτοῦ ψευδομένου, «è evidente che non gli dice niente come se si fosse accorto che sta mentendo»9 (371a), ne consegue che Omero ha fatto Achille tanto scaltro da superare Odisseo nella sua stessa arte della menzogna, concedendosi addirittura il lusso di contraddirsi davanti a lui. Come minimo Achille e Odisseo sono dunque sullo stesso piano.

La furbizia consiste nel fatto che Socrate vuol indurre Ippia a dire che in realtà Achille non voleva mentire ma che (371e):

ταῦτα ὑπὸ εὐηθείας ἀναπεισθεὶς πρὸς τὸν Αἴαντα ἄλλα εἶπεν ἢ πρὸς τὸν Ὀδυσσέα· ὁ δὲ Ὀδυσσεὺς ἅ τε ἀληθῆ λέγει, ἐπιβουλεύσας ἀεὶ λέγει, καὶ ὅσα ψεύδεται, ὡσαύτως,

«indotto dalla semplicità ha detto queste cose ad Aiace diversamente che a Odisseo; Odisseo invece le cose vere che dice, le dice sempre avendole premeditate, e quelle false allo stesso modo».

Per questo, cioè in quanto «indotto dalla semplicità» (ὑπὸ εὐηθείας ἀναπεισθεὶς), Achille è migliore di Odisseo, secondo Ippia. A questo punto per Socrate è facile ribaltare il ragionamento giocando sull’ambiguità di εὐήθεια, intendendola come «sciocchezza» anziché «semplicità».

Poco prima (367a) infatti si era convenuto10 sul fatto che:

ὁ μὲν ἀμαθὴς πολλάκις ἂν βουλόμενος ψευδῆ λέγειν τἀληθῆ ἂν εἴποι ἄκων, εἰ τύχοι, διὰ τὸ μὴ εἰδέναι, σὺ δὲ ὁ σοφός, εἴπερ βούλοιο ψεύδεσθαι, ἀεὶ ἂν κατὰ τὰ αὐτὰ ψεύδοιο,

«lignorante spesso, pur volendo dire il falso, potrebbe dire il vero involontariamente, caso mai, per il fatto di non sapere, mentre il sapiente, come te, se volesse dire il falso, direbbe il falso sempre nello stesso modo»,

non cioè come Achille, il quale, secondo l’interpretazione di Ippia, si contraddice involontariamente.

La logica conseguenza è che Odisseo è migliore di Achille, ma Ippia non la accetta (371e-372a):

Καὶ πῶς ἄν, ὦ Σώκρατες, οἱ ἑκόντες ἀδικοῦντες καὶ [372] [a] ἑκόντες ἐπιβουλεύσαντες καὶ κακὰ ἐργασάμενοι βελτίους ἂν εἶεν τῶν ἀκόντων, οἷς πολλὴ δοκεῖ συγγνώμη εἶναι, ἐὰν μὴ εἰδώς τις ἀδικήσῃ ἢ ψεύσηται ἢ ἄλλο τι κακὸν ποιήσῃ; καὶ οἱ νόμοι δήπου πολὺ χαλεπώτεροί εἰσι τοῖς ἑκοῦσι κακὰ ἐργαζομένοις καὶ ψευδομένοις ἢ τοῖς ἄκουσιν.

«E come, o Socrate, coloro che commettono ingiustizia volontariamente e che volontariamente premeditano e attuano dei mali sarebbero migliori di coloro che agiscono così involontariamente, per i quali pare esserci molta indulgenza, qualora uno senza saperlo commetta ingiustizia o menta o compia un qualche altro male? Anche le leggi in fin dei conti sono molto più dure con coloro che compiono volontariamente dei mali e mentono piuttosto che con coloro che lo compiono involontariamente».

Ippia ha spostato la discussione sul piano morale, quello del bene e del male, dove Socrate insiste con la sua tesi (372d):

ἐμοὶ γὰρ φαίνεται, ὦ Ἱππία, πᾶν τοὐναντίον ἢ ὃ σὺ λέγεις· οἱ βλάπτοντες τοὺς ἀνθρώπους καὶ ἀδικοῦντες καὶ ψευδόμενοι καὶ ἐξαπατῶντες καὶ ἁμαρτάνοντες ἑκόντες ἀλλὰ μὴ ἄκοντες, βελτίους εἶναι ἢ οἱ ἄκοντες.

«A me infatti sembra, o Ippia, tutto il contrario di quello che dici tu: coloro che danneggiano gli uomini e commettono ingiustizia e mentono e ingannano e sbagliano volontariamente, non invece involontariamente, sono migliori di coloro che lo fanno involontariamente».

Nella parte finale del dialogo Socrate propone una serie di esempi a sostegno della sua tesi: il filo conduttore è che per voler fare qualcosa male bisogna prima saperlo fare bene, ergo la volontà di fare il male presuppone la capacità di fare il bene; l’esempio più efficace è questo (374c):

Πότερον οὖν ἂν δέξαιο πόδας κεκτῆσθαι ἑκουσίως χωλαίνοντας ἢ ἀκουσίως; 
«Preferiresti possedere dei piedi che zoppicano volontariamente o involontariamente?»11.

La domanda naturalmente è retorica e questa è la conclusione paradossale (376a):

ἡ δυνατωτέρα καὶ ἀμείνων ψυχή, ὅτανπερ ἀδικῇ, ἑκοῦσα ἀδικήσει, ἡ δὲ πονηρὰ ἄκουσα. 
«Lanima più capace e migliore, qualora appunto commetta ingiustizia, la commetterà volontariamente, mentre quella malvagia involontariamente».


1 Diversamente da Ulisse, che nellOdissea li evoca (XI, vv. 34 sqq.); a questo passo alluderà Nietzsche (Umano, troppo umano II, parte prima, 408, Milano, Adelphi, 1981), parafrasandolo efficacemente anche se non precisamente: «Il viaggio nellAde. Anche io sono stato agli inferi, come Odisseo, e ci tornerò ancora più volte; e non solo montoni ho sacrificato per poter parlare con alcuni morti; bensì non ho risparmiato il mio stesso sangue».

2 Virgilio, Eneide, VI, 460. Ma si potrebbe già obiettare con Seneca (Epistulae, 54, 7): nihil invitus facit sapiens; necessitatem effugit, quia vult quod coactura est, «Il sapiente non fa nulla se non vuole; sfugge alla necessità, poiché vuole ciò a cui essa è destinata a costringerlo».

3 «Profugo per volere del fato» (Eneide, I, 2). T. S. Eliot vede in ciò lelemento che fa del poema virgiliano il classico per antonomasia (Che cosa è un classico?, in Opere. 1939-1962, Bompiani 2003, a cura di Roberto Sanesi, pp. 491-492): «Enea è, dal principio alla fine, una creatura del fato: un uomo che non è un avventuriero o un intrigante, un vagabondo o un arrivista; un uomo che compie il proprio destino non per forza o per decreto arbitrario né certamente per brama di gloria – ma sottomettendo la propria volontà a un potere più alto […] è bandito dalla patria per uno scopo che supera la sua comprensione, ma che nondimeno egli accetta; e dal punto di vista umano non è uno che sia felice o abbia successo. Ma è il simbolo di Roma, e quello che Enea è per Roma, lantica Roma è per lEuropa. Così Virgilio si conquista la centralità” del classico supremo; è lui il centro della civiltà europea, in una posizione che nessun altro poeta può condividere o usurpare».

4 Allansia di Enea così risponde Didone: non ignara mali miseris succurrere disco, «Non ignara del male, imparo a soccorrere i miseri» (I, 630). È questa la versione virgiliana del τόπος eschileo del πάθει μάθος, «attraverso la sofferenza la comprensione» (Agamennone, 177).

5 Giustamente Ovidio nota sarcasticamente che et famam pietatis habet, tamen hospes et ensem / praebuit et causam mortis, Elissa, tuae, «ha pure la fama di pietà, tuttavia da ospite ha fornito la spada e il motivo, Elissa, della tua morte» (Ovidio, Ars amatoria, III, 39-40).

6 Così commenta lepisodio T. S. Eliot (op. cit., pp. 484-485): «Ho sempre pensato che lincontro di Enea con lombra di Didone, nel libro VI, sia non soltanto uno dei brani più commoventi, ma anche uno dei più civili che si possano incontrare in poesia. È un episodio parco nellespressione quanto ricco di significato»; poi Eliot nota come «invece di ingiuriare Enea ella si limiti a ignorarlo – ed è forse il più espressivo rimprovero di tutta la storia della poesia».

7 Il testo originale è leggermente diverso: διογενὲς Λαερτιάδη πολυμήχαν’ Ὀδυσσεῦ / χρὴ μὲν δὴ τὸν μῦθον ἀπηλεγέως ἀποειπεῖν, / ᾗ περ δὴ φρονέω τε καὶ ὡς τετελεσμένον ἔσται, / ὡς μή μοι τρύζητε παρήμενοι ἄλλοθεν ἄλλος. / ἐχθρὸς γάρ μοι κεῖνος ὁμῶς Ἀΐδαο πύλῃσιν / ὅς χ’ ἕτερον μὲν κεύθῃ ἐνὶ φρεσίν, ἄλλο δὲ εἴπῃ. / αὐτὰρ ἐγὼν ἐρέω ὥς μοι δοκεῖ εἶναι ἄριστα·

8 Euripide associa semplicità e verità in tre versi molto belli delle Fenicie (469-472): ἁπλοῦς ὁ μῦθος τῆς ἀληθείας ἔφυ / κοὐ ποικίλων δεῖ τἄνδιχ’ ἑρμηνευμάτων· / ἔχει γὰρ αὐτὰ καιρόν· ὁ δ’ ἄδικος λόγος / νοσῶν ἐν αὑτῷ φαρμάκων δεῖται σοφῶν, «il discorso della verità è semplice per natura / e ciò che è giusto non ha bisogno di intricate interpretazioni: / ha in sé ciò che è opportuno; il discorso ingiusto invece / avendo il vizio dentro di sé ha bisogno di espedienti sofisticati». Questi versi sono ripresi da Seneca (Epistulae ad Lucilium, 49, 12): ut ait ille tragicus, “veritatis simplex oratio est”, ideoque illam implicari non oportet; nec enim quicquam minus convenit quam subdola ista calliditas animis magna conantibus, «Come dice quel famoso tragico, “il discorso della verità è semplice”, e quindi non è il caso di complicarlo; e infatti non cè alcuna cosa che convenga meno di questa furbizia subdola agli animi che si preparano a grandi imprese».

9 Cioè: Odisseo mostra di non essersi reso conto della doppiezza di Achille.

10 In quel punto si parlava di calcolo, ma il concetto viene assunto anche come norma generale.

11 Come nota Seneca (Epistulae, 90, 46): multum autem interest utrum peccare aliquis nolit an nesciat, «fa molta differenza se qualcuno non vuole o non sa peccare».