giovedì 30 ottobre 2025

Perché i buoni soffrono se c’è una provvidenza? – Seneca, De providentia, II, 1-4

 


 
II.

1. ’Quare multa bonis uiris aduersa eueniunt?' Nihil accidere bono uiro mali potest: non miscentur contraria. Quemadmodum tot amnes, tantum superne deiectorum imbrium, tanta medicatorum uis fontium non mutant saporem maris, ne remittunt quidem, ita aduersarum impetus rerum uiri fortis non uertit animum: manet in statu et quidquid euenit in suum colorem trahit; est enim omnibus externis potentior.

«1. “Perché agli uomini buoni capitano molte avversità?” Nulla di male può accadere all’uomo buono: non si mescolano i contrari. Proprio come tanti fiumi, tante piogge precipitate dal cielo, una così grande abbondanza di fonti curative non mutano il gusto del mare, nemmeno lo attenuano, così l’assalto delle avversità non piega l’animo dell’uomo forte: rimane in posizione e qualsiasi cosa capiti se ne appropria dandogli il proprio colore1; è infatti più potente di tutte le cose esterne».

2. Nec hoc dico, non sentit illa, sed uincit, et alioqui quietus placidusque contra incurrentia attollitur. Omnia aduersa exercitationes putat. Quis autem, uir modo et erectus ad honesta, non est laboris adpetens iusti et ad officia cum periculo promptus? Cui non industrio otium poena est?

«2. E non dico questo, che non le percepisce, ma che le vince, e in altre situazioni pacifico e tranquillo si solleva contro gli assalti, Tutte le avversità le considera allenamenti. Chi, purché sia un uomo vero e indirizzato a imprese onorevole, non è desideroso di una giusta fatica2 e disposto a correre pericoli per i doveri? Per quale persona operosa l’ozio non è una punizione?»

3. Athletas uidemus, quibus uirium cura est, cum fortissimis quibusque confligere et exigere ab iis per quos certamini praeparantur ut totis contra ipsos uiribus utantur; caedi se uexarique patiuntur et, si non inueniunt singulos pares, pluribus simul obiciuntur.

«3. Noi vediamo gli atleti, che hanno a cuore il vigore dei corpi, scontrarsi con tutti i più forti e esigere da coloro attraverso i quali si preparano alla gara, che usino contro di loro tutte le forze; si lasciano ferire e maltrattare e, se non trovano singoli alla loro altezza, si scagliano contro più di uno contemporaneamente».

4. Marcet sine aduersario uirtus: tunc apparet quanta sit quantumque polleat, cum quid possit patientia ostendit. Scias licet idem uiris bonis esse faciendum, ut dura ac difficilia non reformident nec de fato querantur, quidquid accidit boni consulant, in bonum uertant; non quid sed quemadmodum feras interest.

«4. Marcisce la virtù senza un avversario: allora appare quanto sia grande e quanto valga, quando mostra ciò di cui è capace con la sopportazione. Sappi pure che la medesima cosa devono fare gli uomini buoni, cioè non temere le cose dure e difficili3 né lamentarsi del fato, qualsiasi cosa accada prenderla per un bene, volgerla in bene; non cosa, ma come sopporti fa la differenza».

 1 La traduzione letterale sarebbe «la tira verso il proprio colore», cioè se ne appropria rendendola un vantaggio. Per chiarire l’espressione è utile un passo di SchopenhauerParerga e paralipomena II, Capitolo ventiduesimo, Pensare da sé: «257. Come la più ricca biblioteca, se è in disordine, non è utile, quanto una piuttosto modesta, ma ben ordinata; parimenti la più grande quantità di conoscenze se non elaborate a fondo con il proprio pensiero vale assai meno di una quantità molto minore di esse, che però sia stata pensata a fondo e da più punti di vista. Infatti soltanto mediante la combinazione, svolta in ogni senso, di quello che sappiamo, e mediante il confronto di ogni verità con ogni altra, è possibile assimilare il proprio saper e averne sicuro possesso. Si può pensare a fondo soltanto ciò che si sa, perciò bisogna imparare qualcosa, ma si sa, altresì, soltanto ciò che si è pensato a fondo… 260. La lettura non è che un surrogato del pensiero autonomo… Bisogna leggere, dunque, soltanto quando la sorgente dei pensieri propri cessa di sgorgare… Invece, è un peccato contro lo spirito santo scacciare i pensieri propri

Anche se alle volte una verità, una intuizione, che siamo riusciti a cogliere con molta fatica e lentamente, pensando e combinando i nostri pensieri in modo autonomo, si sarebbe potuta trovare bella e pronta e agevolmente in un libro, quella verità è tuttavia cento volte più preziosa, se si è raggiunta pensando da sé… porta il colore, la sfumatura, limpronta del nostro intero modo di pensare… Perciò i versi di Goethe:

Ciò che hai in eredità dai padri

guadagnalo per possederlo

… Colui che pensa da sé impara a conoscere le autorità che confermano le sue vedute soltanto in seguito… mentre il filosofo libresco parte dalle autorità».

 2 L’idea risale a EsiodoOpere, 289 τῆς δἀρετῆς ἱδρῶτα θεοὶ προπάροιθεν ἔθηκαν, «davanti alla virtù gli dèi hanno posto il sudore». La stessa torna altrove in SenecaEpistulae, 31, 7: non est viri timere sudorem«non è da uomini temere il sudore»; 67, 12: cape, quantam debes, virtutis pulcherrimae ac magnificentissimae speciem, quae nobis non ture nec sertis, sed sudore et sanguine colenda est, «devi capire, è tuo dovere, lo splendore della bellissima e magnificentissima virtù, che noi dobbiamo onorare non con incenso e corone, ma con sudore e sangue».

 3 Anche perché come dice Socrate in Repubblica, VI, 497d: τὰ γὰρ δὴ μεγάλα πάντα ἐπισφαλῆ, καὶ τὸ λεγόμενον τὰ καλὰ τῷ ὄντι χαλεπά, «tutte le cose grandi sono rischiose, e c’è il detto le cose belle sono in realtà difficili».

Mito di Er – Platone, Repubblica, X, 614b-621d – 12° parte

 

 

τὰ δὲ ἄλλα πάντα χαίρειν ἐάσει· ἑωράκαμεν γὰρ ὅτι ζῶντί τε καὶ τελευτήσαντι αὕτη κρατίστη αἵρεσις. ἀδαμαντίνως δὴ [619] [a] δεῖ ταύτην τὴν δόξαν ἔχοντα εἰς Ἅιδου ἰέναι, ὅπως ἂν ᾖ καὶ ἐκεῖ ἀνέκπληκτος ὑπὸ πλούτων τε καὶ τῶν τοιούτων κακῶν, καὶ μὴ ἐμπεσὼν εἰς τυραννίδας καὶ ἄλλας τοιαύτας πράξεις πολλὰ μὲν ἐργάσηται καὶ ἀνήκεστα κακά, ἔτι δὲ αὐτὸς μείζω πάθῃ, ἀλλὰ γνῷ τὸν μέσον ἀεὶ τῶν τοιούτων βίον αἱρεῖσθαι καὶ φεύγειν τὰ ὑπερβάλλοντα ἑκατέρωσε καὶ ἐν τῷδε τῷ βίῳ κατὰ τὸ δυνατὸν καὶ ἐν παντὶ τῷ ἔπειτα· οὕτω γὰρ [b] εὐδαιμονέστατος γίγνεται ἄνθρωπος.

«Tutto il resto bisogna lasciarlo perdere: abbiamo visto infatti che sia per un vivo sia per un morto questa è la scelta più importante. Pertanto bisogna andare nell’Ade mantenendo con ferrea determinazione questa opinione, per essere anche là imperturbabile davanti a ricchezze a mali siffatti, per non commettere, caduto nella tirannide e altre azioni siffatte, molti e inguaribili infamie, e subirne di maggiori in prima persona, ma per sapere scegliere sempre la vita mediana tra queste e evitare gli eccessi da una parte e dall’altra sia in questa vita per quanto è possibile sia in tutto il tempo a venire: così infatti l’uomo diventa sommamente felice1».

Καὶ δὴ οὖν καὶ τότε ὁ ἐκεῖθεν ἄγγελος ἤγγελλε τὸν μὲν προφήτην οὕτως εἰπεῖν· "Καὶ τελευταίῳ ἐπιόντι, ξὺν νῷ ἑλομένῳ, συντόνως ζῶντι κεῖται βίος ἀγαπητός, οὐ κακός. μήτε ὁ ἄρχων αἱρέσεως ἀμελείτω μήτε ὁ τελευτῶν ἀθυμείτω.»

«E anche allora il messaggero che veniva da laggiù riferiva che laraldo così disse: “Anche per chi arriva per ultimo, se sceglie con senno, vivendo secondo una stretta disciplina, è a disposizione una vita desiderabile, non cattiva. Né chi inizia la scelta sia trascurato né l’ultimo si scoraggi”».

1 Questa è una felicità autentica, diversa da quella personata, di cui parla SenecaEpistulae, 80: 5. Libera te primum metu mortis (illa nobis iugum inponit), deinde metu paupertatis. 6. Si vis scire quam nihil in illa mali sit, compara inter se pauperum et divitum vultus: saepius pauper et fidelius ridet; nulla sollicitudo in alto est; etiam si qua incidit cura, velut nubes levis transit: horum qui felices vocantur hilaritas ficta est aut gravis et suppurata tristitia, eo quidem gravior quia interdum non licet palam esse miseros, sed inter aerumnas cor ipsum exedentes necesse est agere felicem. 7. Saepius hoc exemplo mihi utendum est, nec enim ullo efficacius exprimitur hic humanae vitae mimus, qui nobis partes quas male agamus adsignat«5. Liberati innanzitutto dalla paura della morte (essa ci impone un giogo), poi dalla paura della povertà. 6. Se vuoi sapere quanto non ci sia nulla di male in essa, confronta tra loro i volti dei poveri e dei ricchi: il povero ride più spesso e più schiettamente; nessuna preoccupazione si trova nel profondo; anche se incappa in qualche affanno, passa come una nuvola leggera: l’allegria di questi che sono chiamati felici è recitata oppure è una tristezza opprimente e che rode, e di certo tanto più opprimente poiché non è possibile ogni tanto essere infelici apertamente, ma divorando il cuore stesso tra le pene si è obbligati a fare la parte del felice. 7. Devo usare più spesso questo esempio, e infatti da nessun altro con più efficacia è rappresentato questo mimo della vita umana, che ci assegna i ruoli che interpretiamo male». 8. omnium istorum personata felicitas est. Contemnes illos si despoliaveris. «8. La felicità di tutti costoro è una maschera. Li disprezzerai se avrai tolto loro i vestiti». Così anche nel De providentia, VI, 4: Isti quos pro felicibus aspicis, si non qua occurrunt sed qua latent uideris, miseri sunt, sordidi turpes, ad similitudinem parietum suorum extrinsecus culti; non est ista solida et sincera felicitas: crusta est et quidem tenuis. Itaque dum illis licet stare et ad arbitrium suum ostendi, nitent et inponunt; cum aliquid incidit quod disturbet ac detegat, tunc apparet quantum altae ac uerae foeditatis alienus splendor absconderit, «4. Questi che tu guardi come fortunati, se li vedi non dal lato con cui si presentano ma da quello che nascondono, sono meschini, squallidi, vergognosi, a somiglianza delle loro pareti belli di fuori; non è questa una felicità solida e autentica: è una patina e pure sottile. E così finché è loro consentito stare dritti e mostrarsi a loro arbitrio, brillano e traggono in inganno; quando capita qualcosa che li sconvolge e scopre, allora appare quanta profonda e reale ripugnanza nascondesse quello splendore posticcio».

Cfr. Anche SchopenhauerParerga e paralipomena I, Aforismi sulla saggezza della vita. Capitolo quinto: «La maggior parte degli splendori e delle magnificenze è una pura apparenza… tutto ciò è l’insegna, latteggiamento, il geroglifico della gioia… lo scopo consiste semplicemente nel far credere ad altri che là per lappunto ha preso alloggio la gioia: la vera intenzione è di suscitare tale illusione nel cervello altrui».

Giovanni Ghiselli: Francesca Albanese.

Giovanni Ghiselli: Francesca Albanese.: Ancora su “ la Repubblica ” di oggi. Vado a pagina 12 Titolo: “ Albanese non credibile Attacco dell’Italia all’Onu   Il testo ripo...

Nietzsche, La nascita della tragedia – Spiegazione e commento – CAPITOLO 11 – completo

 

Qui il percorso completo in PDF

(in aggiornamento)   

 

Capitolo 11

Il suicidio della tragedia


La tragedia greca perì in modo diverso da tutti gli antichi generi d’arte affini: morì suicida, in seguito a un insolubile conflitto, dunque tragicamente, mentre tutti quegli altri scomparvero a tarda età con la morte più bella e tranquilla.


Conforme a natura è morire dolcemente lasciando una bella discendenza, e così è stato per gli altri generi letterari che di epoca in epoca si sono rinnovati; la tragedia invece ha lasciato un vuoto assoluto. Tale è la percezione di Encolpio nel Satyricon di Petronio a proposito della decadenza culturale della sua epoca (cap. 2):


Ac ne carmen quidem sani coloris enituit, sed omnia, quasi eodem cibo pasta, non potuerunt usque ad senectutem canescere.

«E neppure la poesia brillò di un sano colore, ma tutti i generi, quasi si fossero pasciuti del medesimo cibo, non poterono imbiancare fino alla vecchiaia».


Insomma anche in letteratura vale quello che dice Nietzsche di Ulisse (Al di là del bene e del male, 96):


Bisogna congedarsi dalla vita come Odisseo da Nausicaa – piuttosto benedicendola che restando innamorati di essa.


Quando poi nacque un nuovo genere che venerava la tragedia come progenitrice si scoprì con terrore che assomigliava sì alla madre, ma nei lineamenti mostrati nella lotta con la morte combattuta da Euripide: la tragedia,  morendo produsse come sua degenerazione, la commedia attica nuova. Non sorprende pertanto la passione di Filemone e Menandro per Euripide. Ma cosa avevano in comune?


lo spettatore fu portato da Euripide sulla scena… Per opera sua l’uomo della vita quotidiana si spinse, dalla parte riservata agli spettatori, sulla scena; lo specchio, in cui prima venivano riflessi solo i tratti grandi e arditi, mostrò ora quella meticolosa fedeltà che riproduce coscienziosamente anche le linee non riuscite della natura.


Questo è almeno ciò che dicono i personaggi Euripide e Eschilo nelle Rane di Aristofane:


οἰκεῖα πράγματ᾽ εἰσάγων, οἷς χρώμεθ᾽, οἷς ξύνεσμεν,

ἐξ ὧν γ᾽ ἂν ἐξηλεγχόμην: ξυνειδότες γὰρ οὗτοι

ἤλεγχον ἄν μου τὴν τέχνην

«(Ho educato il pubblico) introducendo cose di casa, quelle che usiamo, con cui abbiamo a che fare, / in base alle quali potessi essere messo alla prova; questi infatti, essendo consapevoli / avrebbero potuto confutare la mia arte» (959-61, parla Euripide).


Questa tendenza lo accomuna a Socrate il quale per primo ha introdotto nelle case la filosofia, come dice bene Cicerone, che per questo gli assegna il primato (Tusculanae disputationesV, 4, 10):


Sed ab antiqua philosophia usque ad Socratem, qui Archelaum, Anaxagorae discipulum, audierat, numeri motusque tractabantur, et unde omnia orerentur quove reciderent, studioseque ab is siderum magnitudines intervalla cursus anquirebantur et cuncta caelestia. Socrates autem primus philosophiam devocavit e caelo et in urbibus conlocavit et in domus etiam introduxit et coegit de vita et moribus rebusque bonis et malis quaerere.

«Ma dall’antica filosofia fino a Socrate, che aveva ascoltato Archelao, discepolo di Anassagora, erano trattati i numeri e i moti, e da dove tutte le cose nascessero e dove morissero e con zelo erano ricercati da quelli le grandezze delle stelle le distanze le orbite e tutti i fenomeni celesti. Socrate per primo fece scendere dal cielo la filosofia e la collocò nelle città e la introdusse persino nelle case e costrinse a ricercare sulla vita e sui costumi e sulle cose buone e cattive».


Queste invece il rimprovero di Eschilo (Rane, 1013-17, 1021):


σκέψαι τοίνυν οἵους αὐτοὺς παρ᾽ ἐμοῦ παρεδέξατο πρῶτον,
εἰ γενναίους καὶ τετραπήχεις, καὶ μὴ διαδρασιπολίτας,
μηδ᾽ ἀγοραίους μηδὲ κοβάλους ὥσπερ νῦν μηδὲ πανούργους,
ἀλλὰ πνέοντας δόρυ καὶ λόγχας καὶ λευκολόφους τρυφαλείας
καὶ πήληκας καὶ κνημῖδας καὶ θυμοὺς ἑπταβοείους.
[…]

δρᾶμα ποιήσας Ἄρεως μεστόν

«guarda dunque quali li ha ricevuti da me all'inizio, nobili e belli grossi, / e non cittadini infingardi, né oziosi né cialtroni come ora né furfanti, / ma che spiravano aste e lance e elmi dai bianchi cimieri / e elmi e schinieri e cuori con sette strati di cuoio […] componendo un dramma pieno di Ares».


Quest’ultima affermazione è confermata da Gorgia (24 D-K):


εἶπεν ἓν τῶν δραμάτων αὐτοῦ [Aischylos] μεστὸν Ἄρεως εἶναι, τοὺς Ἑπτὰ ἐπὶ Θήβας.

«disse che uno dei suoi drammi era pieno di Ares, I sette contro Tebe».


Ora Odisseo, il tipico greco dell’arte antica si abbassa diventando il greculo che sopravvisse nello schiavo furbo della commedia.

In effetti Odisseo è multiforme non solo come personaggio nell’Odissea, ma anche nei ruoli che gli vengono attribuiti nella letteratura successiva. Per esempio in Platone può essere visto come una sorta di anticipazione della sensibilità ellenistica che predilige la dimensione individuale e disincantata. Tale è la sua caratterizzazione nel mito di Er (Repubblica, X, 620c-d):


κατὰ τύχην δὲ τὴν Ὀδυσσέως λαχοῦσαν πασῶν ὑστάτην αἱρησομένην ἰέναι, μνήμῃ δὲ τῶν προτέρων πόνων φιλοτιμίας λελωφηκυῖαν ζητεῖν περιιοῦσαν χρόνον πολὺν βίον ἀνδρὸς ἰδιώτου ἀπράγμονος, καὶ μόγις εὑρεῖν κείμενόν που καὶ παρημελημένον ὑπὸ τῶν ἄλλων, καὶ εἰπεῖν ἰδοῦσαν ὅτι τὰ αὐτὰ ἂν ἔπραξεν καὶ πρώτη λαχοῦσα, καὶ ἁσμένην ἑλέσθαι.

«L’anima di Ulisse andava a scegliere sorteggiata per case ultima tra tutte, ma per ricordo delle precedenti sofferenze, guarita dall’ambizione, cercava andando in giro per molto tempo una vita di un uomo privato sfaccendato, e a stento la trovò che giaceva da qualche parte e trascurata dagli altri, e disse vedendola che avrebbe fatto la stessa scelta anche sorteggiata per prima, e la prese contenta».


Pochi anni prima si era così espresso il Pericle di Tucidide (II, 40, 2): ἔνι τε τοῖς αὐτοῖς οἰκείων ἅμα καὶ πολιτικῶν ἐπιμέλεια, καὶ ἑτέροις πρὸς ἔργα τετραμμένοις τὰ πολιτικὰ μὴ ἐνδεῶς γνῶναι· μόνοι γὰρ τόν τε μηδὲν τῶνδε μετέχοντα οὐκ ἀπράγμονα, ἀλλ' ἀχρεῖον νομίζομεν, «Nelle medesime persone c’è la cura degli affari privati e insieme di quelli pubblici, e per gli altri che sono rivolti a delle attività è possibile conoscere le questioni politiche adeguatamente; noi soli consideriamo chi non partecipa in nulla a questi problemi non pacifico, ma inutile».

Qui, forse, nel rovesciare il rapporto tra sfera pubblica e privata, è anticipato quel sentimento di stanchezza post-filosofica di cui parla Snell  (La cultura greca e le origini del pensiero occidentale. Il giocoso in Callimacopagg. 371-372): «Questi poeti ellenistici erano, per dirla in una parola, post-filosofici, mentre i poeti arcaici erano pre-filosofici. La poesia piú antica tende a scoprire sempre nuovi lati dello spirito, e trova perciò una naturale continuazione nella conquista razionale dei campi che aveva da poco scoperto, cioè nella filosofia e nella scienza. Cosí l'epica ha, coi suoi miti eroici, posto le basi della storiografia jonica e formulando il problema dell'ἀρχή (arché) nei poemi teogonici e cosmologici, ha creato le premesse della filosofia jonica della natura. La lirica porta ad Eraclito, il dramma a Socrate e a Platone. Nel momento in cui sorgeva la poesia ellenistica, declinava la grande epoca d'incessante evoluzione dei sistemi filosofici. Il secolo IV aveva visto nascere le opere di Platone, di Aristotele e di Teofrasto, e alla fine del secolo erano state fondate le due scuole filosofiche piú importanti per i tempi futuri: il Giardino di Epicuro e la Stoa di Zenone. La filosofia aveva dunque raggiunto in Grecia i suoi risultati più alti, quando in un nuovo centro spirituale, in Alessandria d'Egitto, residenza dei Tolomei, si formò una cerchia di poeti, fra cui Teocrito e il piú notevole di tutti, Callimaco, i quali portarono la poesia a una nuova fioritura. Post-filosofici sono questi poeti, nel senso che non credono piú nella possibilità di dominare teoreticamente il mondo, e nell'esercizio della poesia, a cui Aristotele aveva ancora riconosciuto un carattere filosofico, si allontanano scetticamente dall’universale e si rivolgono con amore al particolare».


Torniamo a Nietzsche.


Euripide si ascrive a merito nelle Rane di Aristofane di aver liberato coi suoi rimedi casalinghi l’arte tragica dalla sua pomposa corpulenza… lo spettatore vedeva e sentiva ora sulla scena euripidea il suo sosia, e si rallegrava che quello sapesse parlare tanto bene… con Euripide gli spettatori imparavano essi stessi a parlare, e di ciò Euripide stesso si vanta nella gara con Eschilo.


Vediamo i passi di Aristofane:


ἀλλ᾽ ὡς παρέλαβον τὴν τέχνην παρὰ σοῦ τὸ πρῶτον εὐθὺς

οἰδοῦσαν ὑπὸ κομπασμάτων καὶ ῥημάτων ἐπαχθῶν,

ἴσχνανα μὲν πρώτιστον αὐτὴν καὶ τὸ βάρος ἀφεῖλον

«ma quando all'inizio ho ricevuto l'arte da te / gonfia di spavalderie e parole pesanti, / per prima cosa l'ho snellita e ho tolto il peso» (939-941)


ἔπειτα τουτουσὶ λαλεῖν ἐδίδαξα

«poi ho insegnato a questi a chiacchierare» (954)


Con questo cambio di linguaggio creò i presupposti della commedia nuova perché non fu più un segreto come rappresentare la quotidianità sulla scena.


Prendeva ora a parlare la mediocrità cittadina, su cui Euripide fondava tutte le sue speranze politiche.

Di nuovo leggiamo nelle Rane (vv. 948-950, 952):


ἔπειτ᾽ ἀπὸ τῶν πρώτων ἐπῶν οὐδὲνα παρῆκ᾽ ἂν ἀργόν,

ἀλλ᾽ ἔλεγεν ἡ γυνή τέ μοι χὠ δοῦλος οὐδὲν ἧττον,

χὠ δεσπότης χἠ παρθένος χἠ γραῦς ἄν.

«poi fin dalla prime parole non lasciavo nessuno inattivo, / ma parlava la donna per me non meno dello schiavo / e il padrone e la ragazza e la vecchia»

δημοκρατικὸν γὰρ αὔτ᾽ ἔδρων.

«infatti facevo questo democraticamente».

 

Quella che Nietzsche chiama maliziosamente mediocrità cittadina, possiamo definirla attualizzando il concetto classe media a cui in effetti Euripide assegna il primato. Tale teoria si trova espressa compiutamente nelle Supplici di Euripide, 238-45:

τρεῖς γὰρ πολιτῶν μερίδες: οἳ μὲν ὄλβιοι

ἀνωφελεῖς τε πλειόνων τ᾽ ἐρῶσ᾽ ἀεί:

οἳ δ᾽ οὐκ ἔχοντες καὶ σπανίζοντες βίου

δεινοί, νέμοντες τῷ φθόνῳ πλέον μέρος,

ἐς τοὺς ἔχοντας κέντρ᾽ ἀφιᾶσιν κακά,

γλώσσαις πονηρῶν προστατῶν φηλούμενοι:

τριῶν δὲ μοιρῶν ἡ 'ν μέσῳ σῴζει πόλεις,

κόσμον φυλάσσουσ᾽ ὅντιν᾽ ἂν τάξῃ πόλις.

«Tre infatti sono le classi di cittadini: i ricchi sono / inutili e bramano sempre di più; / quelli che non hanno nulla e mancano di mezzi di sussistenza / sono temibili: attribuendo troppa parte all’invidia, / lanciano strali cattivi contro i possidenti, / tratti in inganno dalle lingue di capi malvagi; / delle tre classi quella che sta in mezzo salva le città, / preservando l’ordine che la città disponga».


Per ulteriori approfondimenti vedi l’approfondimento sulla «teoria della classe media».


Per questo l’Euripide di Aristofane rivendica di avere rappresentato la quotidianità di cui ognuno era capace di giudicare (vedi supra). Se ora la massa sapeva filosofare era merito suo.


A una massa siffattamente preparata e illuminata poteva rivolgersi ora la commedia nuova, per la quale Euripide è divenuto in un certo senso l’istruttore del coro […] sorse quel genere di spettacolo di tipo scacchistico, la commedia nuova, col suo continuo trionfo della furberia e della scaltrezza.

La conseguenza di questo passaggio è la perdita della fede in una dimensione ideale e quindi le divinità supreme diventano l’attimo, l’arguzia e il capriccio. Predomina ora, almeno nella sensibilità il quinto stato, quello dello schiavo, e se si può ora parlare di serenità greca è quella dello schiavo, il quale non si assume responsabilità ed è tutto concentrato sulla meschinità del presente. Fu questo genere di serenità che rifuggiva la serietà e il terrore che scandalizzava i cristiani dei primi quattro secoli, al cui influsso di deve il perdurare nei secoli successivi di questa idea della grecità, come se non ci fosse stato il VI secolo con la nascita della tragedia, i suoi misteri, Pitagora, Eraclito e tutta un’altra concezione del mondo.

Dal fatto che Euripide portò lo spettatore sulla scena per renderlo in grado di giudicare il dramma nasce l’illusione che prima il rapporto tra tragedia e pubblico fosse sbagliato e che da Sofocle a Euripide ci sia stato un progresso. Ma da dove viene l’obbligo per l’artista di adeguarsi a un’entità che ha la sua forza solo nel numero? Se poi in quanto artista si sente superiore, come potrebbe stimare il pubblico nel suo complesso più del singolo spettatore dotato? In realtà nessun artista più di Euripide ha disprezzato il suo pubblico; se avesse avuto il minimo rispetto per la disapprovazione che riscuoteva sarebbe crollato sotto i colpi dei suoi insuccessi. In effetti, attivo tra il 455 a.C. (Peliadi) e il 406 a.C. (anno della morte), ottenne:



Si può vedere dunque che la formulazione per cui Euripide portò sulla scena lo spettatore per renderlo in grado di giudicare era provvisoria, per cui bisogna capire più profondamente la sua tendenza. Eschilo e Sofocle godettero a pieno dei favori del pubblico, quindi non si può parlare per loro di discordanza tra opera d’arte e pubblico.


Quale particolare riguardo per lo spettatore lo condusse contro lo spettatore? […] Euripide si sentiva come poeta… molto al di sopra della massa, ma non al di sopra di due dei suoi spettatori.


Portò la massa sulla scena ma rispettò quei due come soli giudici e trasferì nei suoi eroi tutto ciò che prima si trovava solo nei suoi spettatori.


Di questi due spettatori uno è – Euripide stesso, Euripide come pensatore, non come poeta.


La ricchezza del suo talento critico fecondava un impulso creativo secondario. Si era poi sforzato di riconoscere i tutti i tratti e le linee dei capolavori dei suoi predecessori, solo che vi scorse qualcosa di incommensurabile,


la figura più chiara aveva ancor sempre dietro di sé una coda di cometa, che sembrava accennare a qualcosa di incerto e non rischiarabile.


In particolare il coro gli creva dei problemi, così come l’interpretazione dei problemi etici, la trattazione dei miti.


Perfino nella lingua… in particolare egli trovava troppa pompa per situazioni semplici, troppe metafore e forzature rispetto alla semplicità dei caratteri… e da spettatore confessò a se stesso di non capire i suoi grandi predecessori. Ma poiché l’intelletto era da lui considerato la vera e propria radice di ogni godimento e creazione, dovette guardarsi intorno e chiedere se dunque nessuno pensasse come lui ed ammettesse ugualmente quell’incommensurabilità.


Sull’intellettualismo di Euripide si era soffermato anche Aristofane (Rane, 971-75):


τοιαῦτα μέντοὐγὼ φρονεῖν

τούτοισιν εἰσηγησάμην,

λογισμὸν ἐνθεὶς τῇ τέχνῃ

καὶ σκέψιν, ὥστ᾽ ἤδη νοεῖν

ἅπαντα καὶ διειδέναι

«In effetti io ho indotto costoro / a fare tali riflessioni / mettendo nell’arte il calcolo / e l’analisi, così da riflettere su tutto e distinguere».


Nessuno però lo aiutò a capire come mai, nonostante i suoi rilievi, i grandi maestri rimanevano nel giusto.


E in questo stato tormentoso egli trovò l’altro spettatore, che non capiva la tragedia… In lega con costui, egli poté… iniziare l’immane lotta contro le opere d’arte di Eschilo e Sofocle – non con scritti polemici, bensì come poeta drammatico che contrappone la sua concezione della tragedia a quella tramandata.