martedì 17 settembre 2024

Epicuro – Epistola a Meneceo, 128-131 – testo e traduzione


Lucrezio, poeta epicureo
Καὶ διὰ τοῦτο τὴν ἡδονὴν ἀρχὴν καὶ τέλος λέγομεν εἶναι τοῦ μακαρίως ζῆν. [129] ταύτην γὰρ ἀγαθὸν πρῶτον καὶ συγγενικὸν ἔγνωμεν, καὶ ἀπὸ ταύτης καταρχόμεθα πάσης αἱρέσεως καὶ φυγῆς, καὶ ἐπὶ ταύτην καταντῶμεν ὡς κανόνι τῷ πάθει πᾶν ἀγαθὸν κρίνοντες. «E per questo diciamo il piacere principio e fine del vivere beatamente. 129. Infatti sappiamo che questo è il bene primo e nato con noi, e da questo iniziamo ogni scelta e rifiuto, e a questo giungiamo giudicando ogni bene in base con il criterio di ciò che si prova».

 Καὶ ἐπεὶ πρῶτον ἀγαθὸν τοῦτο καὶ σύμφυτον, διὰ τοῦτο καὶ οὐ πᾶσαν ἡδονὴν αἱρούμεθα, ἀλλ' ἔστιν ὅτε πολλὰς ἡδονὰς ὑπερβαίνομεν, ὅταν πλεῖον ἡμῖν τὸ δυσχερὲς ἐκ τούτων ἕπηται· καὶ πολλὰς ἀλγηδόνας ἡδονῶν κρείττους νομίζομεν, ἐπειδὰν μείζων ἡμῖν ἡδονὴ παρακολουθῇ πολὺν χρόνον ὑπομείνασι τὰς ἀλγηδόνας. πᾶσα οὖν ἡδονὴ διὰ τὸ φύσιν ἔχειν οἰκείαν ἀγαθόν, οὐ πᾶσα μέντοι αἱρετή· καθάπερ καὶ ἀλγηδὼν πᾶσα κακόν, οὐ πᾶσα δὲ ἀεὶ φευκτὴ πεφυκυῖα. «E siccome questo è il bene primo e connaturato, per questo anche non scegliamo ogni piacere, ma è possibile che tralasciamo molti piaceri, qualora da questi derivi a noi molestia maggiore; e consideriamo molte sofferenze migliori dei piaceri, nel caso in cui per noi, che abbiamo sopportato sofferenze per molto tempo, ne consegua un piacere maggiore. Dunque ogni piacere è un bene poiché ha una natura affine a noi, però certamente non ogni piacere è da scegliere; come anche ogni sofferenza è un male, ma non ognuna è per natura da fuggire».

 [130] τῇ μέντοι συμμετρήσει καὶ συμφερόντων καὶ ἀσυμφόρων βλέψει ταῦτα πάντα κρίνειν καθήκει. χρώμεθα γὰρ τῷ μὲν ἀγαθῷ κατά τινας χρόνους ὡς κακῷ, τῷ δὲ κακῷ τοὔμπαλιν ὡς ἀγαθῷ. «130. Conviene in effetti giudicare tutte queste cose con il calcolo e la considerazione dei vantaggi e degli svantaggi. In certi momenti infatti facciamo la prova di un bene come di un male, e viceversa di un male come di un bene».

 Καὶ τὴν αὐτάρκειαν δὲ ἀγαθὸν μέγα νομίζομεν, οὐχ ἵνα πάντως τοῖς ὀλίγοις χρώμεθα, ἀλλ' ὅπως, ἐὰν μὴ ἔχωμεν τὰ πολλά, τοῖς ὀλίγοις ἀρκώμεθα, πεπεισμένοι γνησίως ὅτι ἥδιστα πολυτελείας ἀπολαύουσιν οἱ ἥκιστα ταύτης δεόμενοι, καὶ ὅτι τὸ μὲν φυσικὸν πᾶν εὐπόριστόν ἐστι, τὸ δὲ κενὸν δυσπόριστον, οἵ τε λιτοὶ χυλοὶ ἴσην πολυτελεῖ διαίτῃ τὴν ἡδονὴν ἐπιφέρουσιν, ὅταν ἅπαν τὸ ἀλγοῦν κατ' ἔνδειαν ἐξαιρεθῇ, «E consideriamo l'autarchia un gran bene, non per usare sempre il poco, ma per accontentarci del poco se non abbiamo il molto, sinceramente convinti che godono dell'abbondanza nel modo più piacevole coloro i quali ne hanno bisogno il meno possibile, e che ciò che è naturale è facile a procurarsi, ciò che è vano difficile, e che i cibi semplici procurano un piacere uguale a quello di una ricco vitto, qualora sia stato eliminata ogni sofferenza derivante dal bisogno»,

 [131] καὶ μᾶζα καὶ ὕδωρ τὴν ἀκροτάτην ἀποδίδωσιν ἡδονήν, ἐπειδὰν ἐνδέων τις αὐτὰ προσενέγκηται. τὸ συνεθίζειν οὖν ἐν ταῖς ἁπλαῖς καὶ οὐ πολυτελέσι διαίταις καὶ ὑγιείας ἐστὶ συμπληρωτικὸν καὶ πρὸς τὰς ἀναγκαίας τοῦ βίου χρήσεις ἄοκνον ποιεῖ τὸν ἄνθρωπον καὶ τοῖς πολυτελέσιν ἐκ διαλειμμάτων προσερχομένοις κρεῖττον ἡμᾶς διατίθησι καὶ πρὸς τὴν τύχην ἀφόβους παρασκευάζει. «131. e che il pane e l'acqua restituiscono il piacere più elevato, dopo che ci si sia accostati ad essi avendone bisogno. L'essere dunque abituati a piatti semplici e non ricchi sia è un completamento della salute sia rende l'uomo attivo per i bisogni necessari della vita e ci dispone meglio alle raffinatezze che a intervalli si presentano e ci prepara intrapidi davanti alla sorte».


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Sapienza silenica – parte 3°

 Famosi sono i versi di Sofocle,  EDIPO a COLONO, vv. 1224-1227:



Μὴ φῦναι τὸν ἅπαντα νι-

κᾷ λόγον· τὸ δ', ἐπεὶ φανῇ, 

βῆναι κεῖθεν ὅθεν περ ἥ- 

κει, πολὺ δεύτερον, ὡς τάχιστα.

«Il non essere nato vince / ogni discorso; andare, dopo che tu sia venuto alla luce, / là da dove appunto sei / giunto al più presto, è di gran lunga il secondo bene».

 Anche in Euripide non mancano le testimonianze:

 Euripide, Troiane, vv. 636-637:

τὸ μὴ γενέσθαι τῷ θανεῖν ἴσον λέγω, 

τοῦ ζῆν δὲ λυπρῶς κρεῖσσόν ἐστι κατθανεῖν. 

 ἀλγεῖ γὰρ οὐδὲν † τῶν κακῶν ᾐσθημένος· † 

ὁ δ’ εὐτυχήσας ἐς τὸ δυστυχὲς πεσὼν 

ψυχὴν ἀλᾶται τῆς πάροιθ’ εὐπραξίας. 640 

κείνη δ’, ὁμοίως ὥσπερ οὐκ ἰδοῦσα φῶς, 

τέθνηκε κοὐδὲν οἶδε τῶν αὑτῆς κακῶν. 

ἐγὼ δὲ τοξεύσασα τῆς εὐδοξίας 

λαχοῦσα πλεῖον τῆς τύχης ἡμάρτανον.

 «Il non nascere io lo dico pari al morire, / mentre rispetto al vivere nel dolore è meglio morire. / Infatti non soffre nulla chi non percepisce i mali; / invece chi avendo avuto fortuna poi è caduto nella sventura / ha perduto nell’anima il precedente successo. / Quella invece, proprio come se non avesse mai visto la luce, / è morta e non sa niente dei propri mali. / Mentre io dopo aver mirato alla buona fama / e averla colta, a maggior ragione fallivo il bersaglio della fortuna».

 Vediamo anche qualche passo latino.

 LUCREZIO, De rerum natura

 V, 174

 quidve mali fuerat nobis non esse creatis?, «che male sarebbe stato per noi non essere stati creati?».

 V, 222-27

tum porro puer, ut saevis proiectus ab undis

navita, nudus humi iacet infans indigus omni

vitali auxilio, cum primum in luminis oras

nixibus ex alvo matris natura profudit,

vagituque locum lugubri complet, ut aequumst

cui tantum in vita restet transire malorum.

 «Ed ecco il fanciullo, come un naufrago buttato a riva dalle crudeli / onde, nudo giace al suolo privo di parola bisognoso di ogni / aiuto vitale, non appena la natura lo ha fatto uscire / dal ventre della madre sui lidi della luce, con le doglie / e riempie il luogo di un lugubre vagito, come è giusto / per cui nella vita è riservato di attraversare tanti mali».

 Leopardi aveva in mente questi versi quando scrisse il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (vv. 39-56; 100-104):

Nasce l'uomo a fatica,/Ed è rischio di morte il nascimento./Prova pena e tormento/Per prima cosa; e in sul principio stesso/La madre e il genitore/Il prende a consolar dell'esser nato./Poi che crescendo viene,/L'uno e l'altro il sostiene, e via pur sempre/ Con atti e con parole/Studiasi fargli core,/E consolarlo dell'umano stato:/Altro ufficio più grato/Non si fa da parenti alla lor prole./Ma perchè dare al sole,/Perchè reggere in vita/Chi poi di quella consolar convenga?/Se la vita è sventura,/Perchè da noi si dura? […] Questo io conosco e sento,/Che degli eterni giri,/Che dell'esser mio frale,/Qualche bene o contento/Avrà fors'altri; a me la vita è male.

 

Seneca 

Consolatio ad Marciam, 22 (per una donna, figlia del senatore e storiografo martire di Tiberio Cremuzio Cordo, a cui era morto il figlio).

 Itaque, si felicissimum est non nasci, proximum est, puto, brevi aetate defunctos cito in integrum restitui, «e così, se la massima fortuna è non nascere, la seconda è, credo, essere restituiti allo stato originario in fretta dopo aver compiuto una vita breve».

 Consolatio ad Polybium, 4, 3 (per un uomo, un potente liberto di   Claudio, a cui era morto un fratello).

 Non vides, qualem nobis vitam rerum natura promiserit, quae primum nascentium hominum fletum esse voluit?, «Non vedi quale vita ci ha riservato la natura, che ha voluto che per prima cosa ci fosse il pianto degli uomini quando nascono?»

 Infine vediamo Petronio, Satyricon, , 48, 8 (è Trimalchione che durante la cena si atteggia a filosofo).

 Nam Sybillam quidem Cumis, ego ipse, oculis meis, vidi in ampulla pendere et cum illi pueri dicerent: Σιβύλλα, τὶ θέλεις; respondebat illa: ἀποθανεῖν θέλω, «io stesso infatti vidi con i miei occhi a Cuma la Sibilla essere sospesa in un’ampolla e siccome i fanciulli dicevano: “Sibilla, cosa vuoi”, ella rispondeva: “morire voglio”».

 Queste parole di Petronio sono citate come epigrafe all’inizio di The waste land di T.S. Eliot (1922).

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