Nel «mito di Theuth» viene in particolare messa in risalto la distinzione tra tecnica e morale; Theuth è il corrispondente egizio di Prometeo, la divinità benefattrice dell’umanità. Un giorno va dal faraone Thamus per esporgli tutte le sue invenzioni, tra cui spiccano le lettere, individuate come μνήμης τε καὶ σοφίας φάρμακον, «farmaco della memoria e della sapienza» (274e); segue la risposta del faraone:
Ἤκουσα τοίνυν περὶ Ναύκρατιν τῆς Αἰγύπτου γενέσθαι τῶν ἐκεῖ παλαιῶν τινα θεῶν, οὗ καὶ τὸ ὄρνεον ἱερὸν ὃ δὴ καλοῦσιν Ἶβιν· αὐτῷ δὲ ὄνομα τῷ δαίμονι εἶναι Θεύθ. Τοῦτον δὴ πρῶτον ἀριθμόν τε καὶ λογισμὸν εὑρεῖν καὶ γεωμετρίαν καὶ ἀστρονομίαν, ἔτι δὲ πεττείας τε καὶ κυβείας, καὶ δὴ καὶ γράμματα. βασιλέως δ᾽ αὖ τότε ὄντος Αἰγύπτου ὅλης Θαμοῦ περὶ τὴν μεγάλην πόλιν τοῦ ἄνω τόπου ἣν οἱ Ἕλληνες Αἰγυπτίας Θήβας καλοῦσι, καὶ τὸν θεὸν Ἄμμωνα, παρὰ τοῦτον ἐλθὼν ὁ Θεὺθ τὰς τέχνας ἐπέδειξεν, καὶ ἔφη δεῖν διαδοθῆναι τοῖς ἄλλοις Αἰγυπτίοις· ὁ δὲ ἤρετο ἥντινα ἑκάστη ἔχοι ὠφελίαν, διεξιόντος δέ, ὅτι καλῶς ἢ μὴ καλῶς δοκοῖ λέγειν, τὸ μὲν ἔψεγεν, τὸ δ᾽ ἐπῄνει. πολλὰ μὲν δὴ περὶ ἑκάστης τῆς τέχνης ἐπ᾽ ἀμφότερα Θαμοῦν τῷ Θεὺθ λέγεται ἀποφήνασθαι, ἃ λόγος πολὺς ἂν εἴη διελθεῖν· ἐπειδὴ δὲ ἐπὶ τοῖς γράμμασιν ἦν, «τοῦτο δέ, ὦ βασιλεῦ, τὸ μάθημα», ἔφη ὁ Θεύθ, «σοφωτέρους Αἰγυπτίους καὶ μνημονικωτέρους παρέξει· μνήμης τε γὰρ καὶ σοφίας φάρμακον ηὑρέθη». ὁ δ᾽ εἶπεν· «ὦ τεχνικώτατε Θεύθ, ἄλλος μὲν τεκεῖν δυνατὸς τὰ τέχνης, ἄλλος δὲ κρῖναι τίν᾽ ἔχει μοῖραν βλάβης τε καὶ ὠφελίας τοῖς μέλλουσι χρῆσθαι· καὶ νῦν σύ, πατὴρ ὢν γραμμάτων, δι᾽ εὔνοιαν τοὐναντίον εἶπες ἢ δύναται. τοῦτο γὰρ τῶν μαθόντων λήθην μὲν ἐν ψυχαῖς παρέξει μνήμης ἀμελετησίᾳ, ἅτε διὰ πίστιν γραφῆς ἔξωθεν ὑπ᾽ ἀλλοτρίων τύπων, οὐκ ἔνδοθεν αὐτοὺς ὑφ᾽ αὑτῶν ἀναμιμνῃσκομένους· οὔκουν μνήμης ἀλλὰ ὑπομνήσεως φάρμακον ηὗρες. σοφίας δὲ τοῖς μαθηταῖς δόξαν, οὐκ ἀλήθειαν πορίζεις· πολυήκοοι γάρ σοι γενόμενοι ἄνευ διδαχῆς πολυγνώμονες εἶναι δόξουσιν, ἀγνώμονες ὡς ἐπὶ τὸ πλῆθος ὄντες, καὶ χαλεποὶ συνεῖναι, δοξόσοφοι γεγονότες ἀντὶ σοφῶν».
«[…] Ho sentito dire dunque che dalle parti di Naucrati d’Egitto ci fu uno degli antichi dèi di laggiù, del quale è sacro anche l’uccello che chiamano Ibis; questa divinità ha il nome di Theuth. Ebbene costui inventò innanzitutto il numero e il calcolo e la geometria e l’astronomia, inoltre scacchi e dadi, e tra l’altro le lettere. Essendo all’epoca re dell’intero Egitto Thamus, nei pressi della grande città della regione di sopra, che i Greci chiamano Tebe d’Egitto, e il dio Ammone, giunto da costui Theuth presentò le tecniche, e disse che bisognava distribuirle agli altri Egizi: l’altro chiese quale utilità avesse ciascuna tecnica, e mentre l’altro le passava in rassegna, secondo che gli sembrasse parlare bene o non bene, a volte le biasimava a volte le elogiava. Si dice che Thamus fece notare a Theuth su ciascuna tecnica, in entrambi i sensi, molti aspetti, che sarebbe un lungo discorso elencare; quando però si trovava sulle lettere, «Questo apprendimento, o re», disse Theuth, «renderà gli Egizi più sapienti e più mnemonici: è stato trovato infatti un farmaco della sapienza e della memoria». L’altro allora disse: «O tecnicissimo Theuth, uno è capace di partorire i ritrovati della tecnica, un altro di giudicare quale parte di danno e di vantaggio hanno per coloro che hanno intenzione di usarli: e ora tu, siccome sei il padre delle lettere, per benevolenza hai detto il contrario di quello che possono fare. Questo sapere infatti procurerà oblio nelle anime di chi apprende per trascuratezza della memoria, in quanto per fede nella scrittura richiamano alla memoria da fuori a partire da modelli esterni, non dall’interno essi stessi da sé stessi1; hai trovato un farmaco non certo della memoria ma del ricordo. Tu procuri ai discepoli l’opinione della sapienza, non la verità: divenuti tuoi assidui ascoltatori penseranno di essere, senza insegnamento, molto colti, essendo invece per lo più ignoranti, e difficili da frequentare, divenuti apparentemente sapienti, anziché sapienti».
Un concetto simile (e associabile alla sapienza socratica dell’Apologia2) si ritrova in Pascal, Pensieri, C 308 (B 327):
Le monde juge bien des choses, car il est dans l’ignorance naturelle, qui est le vrai siège de l’homme. Les sciences ont deux extrémités qui se touchent. La première est la pure ignorance naturelle où se trouvent tous les hommes en naissant. L’autre extrémité est celle où arrivent les grandes âmes qui, ayant parcouru tout ce que les hommes peuvent savoir, trouvent qu’ils ne savent rien et se rencontrent en cette même ignorance d’où ils étaient partis. Mais c’est une ignorance savante, qui se connaît. Ceux d’entre‑deux, qui sont sortis de l’ignorance naturelle et n’ont pu arriver à l’autre, ont quelque teinture de cette science suffisante et font les entendus. Ceux‑là troublent le monde et jugent mal de tout. Le peuple et les habiles composent le train du monde, ceux‑là le méprisent et sont méprisés. Ils jugent mal de toutes choses, et le monde en juge bien.
«La gente giudica rettamente le cose, perché si trova nell'ignoranza naturale, che è la vera condizione dell'uomo. Le scienze hanno due estremità che si toccano. La prima è la pura ignoranza naturale in cui si trovano tutti gli uomini quando nascono. L'altro estremo è quello a cui arriveranno le grandi anime, che, avendo percorso tutto ciò che l'uomo può sapere, trovano che non sanno nulla e si ritrovano in questa strana ignoranza da cui erano partiti; ma questa è una ignoranza dotta! che conosce se stessa. Quelli tra i due estremi che sono usciti dall'ignoranza naturale e non sono potuti giungere all'altro estremo hanno qualche verniciatura di tale scienza presuntuosa e fanno i saputi. Costoro mettono a soqquadro il mondo e giudicano male ogni cosa. Il popolo e i dotti mandano avanti il mondo; costoro lo disprezzano e ne sono disgustati. Giudicano male ogni cosa, mentre la gente ne giudica bene».
1 È la famosa condanna della scrittura associata alla dottrina della conoscenza in quanto reminiscenza formulata in Menone, 81b-c: Socrate sta spiegando a Menone che, essendo l’anima immortale, nasciamo più volte e quindi impariamo tutto nel corso delle varie vite; ἅτε γὰρ τῆς φύσεως ἁπάσης συγγενοῦς οὔσης, καὶ μεμαθηκυίας τῆς ψυχῆς ἅπαντα, οὐδὲν κωλύει ἓν μόνον ἀναμνησθέντα ὃ δὴ μάθησιν καλοῦσιν ἄνθρωποι τἆλλα πάντα αὐτὸν ἀνευρεῖν, ἐάν τις ἀνδρεῖος ᾖ καὶ μὴ ἀποκάμνῃ ζητῶν· τὸ γὰρ ζητεῖν ἄρα καὶ τὸ μανθάνειν ἀνάμνησις ὅλον ἐστίν, «siccome infatti la natura è tutta imparentata con se stessa e l’anima ha appreso tutto, nulla impedisce che ricordando una sola cosa, ciò che gli uomini appunto chiamano apprendimento, riscopra tutte le altre cose, qualora sia un uomo di valore e non si stanchi di cercare; infatti il cercare e l’apprendere sono nel complesso reminiscenza».
A questa idea si può contrapporre quanto dice Schopenhauer (Parerga e paralipomena II, Capitolo ventitreesimo, Sul mestiere dello scrittore e sullo stile, 289a: «Quanto grandi e degni di ammirazione sono stati quei primi spiriti del genere umano i quali… inventarono la più meravigliosa delle opere d’arte, la grammatica della lingua… tutto questo nella nobile intenzione di avere un organo materiale adeguato e sufficiente per la piena e degna espressione del pensiero umano».
2 20d sqq.: τῆς γὰρ ἐμῆς, εἰ δή τίς ἐστιν σοφία καὶ οἵα, μάρτυρα ὑμῖν παρέξομαι τὸν θεὸν τὸν ἐν Δελφοῖς. Χαιρεφῶντα γὰρ ἴστε που, «della mia sapienza, infatti, se è tale e di che qualità sia, vi fornirò come testimone il dio di Delfi. Conoscete infatti Cherefonte in qualche modo» (20e). καὶ δή ποτε καὶ εἰς Δελφοὺς ἐλθὼν ἐτόλμησε τοῦτο μαντεύσασθαι—καί, ὅπερ λέγω, μὴ θορυβεῖτε, ὦ ἄνδρες—ἤρετο γὰρ δὴ εἴ τις ἐμοῦ εἴη σοφώτερος. ἀνεῖλεν οὖν ἡ Πυθία μηδένα σοφώτερον εἶναι, «e una volta andato a Delfi osò chiedere questo oracolo – e, ciò che dico, non rumoreggiate, signori – chiese infatti se qualcuno fosse più sapiente di me. Rispose dunque la Pizia che nessuno era più sapiente» (21a). ἦλθον ἐπί τινα τῶν δοκούντων σοφῶν εἶναι, «Andai da uno di quelli reputati sapienti» (21b). ἔοικα γοῦν τούτου γε σμικρῷ τινι αὐτῷ τούτῳ σοφώτερος εἶναι, ὅτι ἃ μὴ οἶδα οὐδὲ οἴομαι εἰδέναι, «Dunque mi sembrò di essere più sapiente di questo almeno proprio per questo piccolo particolare, cioè per il fatto che le cose che non so nemmeno penso di saperle» (21d).
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