venerdì 31 ottobre 2025

Perché i buoni soffrono se c’è una provvidenza? – Seneca, De providentia, II, 7-9

  7. Miraris tu, si deus ille bonorum amantissimus, qui illos quam optimos esse atque excellentissimos uult, fortunam illis cum qua exerceantur adsignat? Ego uero non miror, si aliquando impetum capiunt spectandi magnos uiros conluctantis cum aliqua calamitate.

«Ti meravigli tu, se quel dio che ama sommamente i buoni, il quale vuole che quelli siano i migliori e i più eccellenti possibile, assegna loro una sorte con cui si allenino? Io proprio non mi meraviglio, se ogni tanto sono presi irresistibilmente dal desiderio di guardare i grandi uomini in lotta con una qualche calamità».

8. Nobis interdum uoluptati est, si adulescens constantis animi inruentem feram uenabulo excepit, si leonis incursum interritus pertulit, tantoque hoc spectaculum est gratius quanto id honestior fecit. Non sunt ista quae possint deorum in se uultum conuertere, puerilia et humanae oblectamenta leuitatis:

«Per talvolta è motivo di piacere, se un ragazzo di animo saldo affronta l’assalto di una belva con uno spiedo, se sostiene senza paura la carica di un leone, e questo spettacolo è tanto più gradito quanto più compie quel gesto con stile. Non sono queste le cose che possono attirare su di sé lo sguardo degli dèi, passatempi puerili e della superficialità umana:»

9. ecce spectaculum dignum ad quod respiciat intentus operi suo deus, ecce par deo dignum, uir fortis cum fortuna mala compositus, utique si et prouocauit. Non uideo, inquam, quid habeat in terris Iuppiter pulchrius, si <eo> conuertere animum uelit, quam ut spectet Catonem iam partibus non semel fractis stantem nihilo minus inter ruinas publicas rectum.

«ecco uno spettacolo degno a cui possa rivolgere lo sguardo un dio intento alla sua opera, ecco una coppia degna di dio, un uomo forte alle prese con la cattiva sorte, specialmente se l’ha provocata. Non vedo, dico, che cosa abbia sulla terra Giove di più bello, se vuole rivolgere lì l’attenzione, che guardare Catone1, quando ormai il partito era andato in pezzi non una sola volta, stare dritto ciò non ostante tra le rovine dello stato».

1 È Catone Uticense (o il Giovane), così soprannominato per distinguerlo dall’avo, il Censore, morto nel 149 a.C.. Fiero avversario di Cesare, dopo la battaglia di Farsálo del 48 a.C., in cui Cesaro sconfisse Pompeo, continuò a battersi, ma per non cadere prigioniero del rivale si diede in Utica la morte nel 46 a.C.. È l’eroe degli stoici.

Nietzsche, La nascita della tragedia – Spiegazione e commento – CAPITOLO 14 – 1° parte

 

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(in aggiornamento)


Capitolo 14

L’occhio di ciclope


Immaginiamo ora l’unico grande occhio di Ciclope di Socrate puntato sulla tragedia, quell’occhio in cui non arse mai la dolce follia dell’entusiasmo artistico – immaginiamo come a quell’occhio fosse interdetto di guardare con pieno diletto negli abissi dionisiaci – che cosa propriamente doveva scorgere nella «sublime e celebratissima» arte tragica, come Platone la chiama? Qualcosa di assolutamente irrazionale.


Nel dramma satiresco di Euripide Ciclope i satiri che compongono il coro si lamentano dell’assenza di Dioniso, misconosciuto da Polifemo.

Quanto alla follia dell’entusiasmo artistico si tratta del già citato passo di Platone, Fedro, 244a:


νῦν δὲ τὰ μέγιστα τῶν ἀγαθῶν ἡμῖν γίγνεται διὰ μανίας, θείᾳ μέντοι δόσει διδομένης,

«ora i più grandi tra i beni esistono per noi grazie alla follia, concessa certamente per dono divino».


Platone aveva così definito la poesia tragica (Gorgia, 502b):


ἡ σεμνὴ αὕτη καὶ θαυμαστή, ἡ τῆς τραγῳδίας ποίησις.

«Questa poesia solenne e meravigliosa, la poesia della tragedia».


Noi sappiamo che l’unico genere d’arte per lui comprensibile era la favola esopica, con cui si può dire la verità attraverso un’immagine ad un intelletto pigro; la tragedia del resto, oltre a rivolgersi a chi ha poco intelletto, non dice nemmeno la verità. La annovera tra le arti lusingatrici, come Platone nel passo del Gorgia che continua quello precedente (502b-c):


ΣΩ. πότερόν ἐστιν αὐτῆς τὸ ἐπιχείρημα καὶ ἡ σπουδή, ὡς σοὶ δοκεῖ, χαρίζεσθαι τοῖς θεαταῖς μόνον, ἢ καὶ διαμάχεσθαι, ἐάν τι αὐτοῖς ἡδὺ μὲν ᾖ καὶ κεχαρισμένον, πονηρὸν δέ, ὅπως τοῦτο μὲν μὴ ἐρεῖ, εἰ δέ τι τυγχάνει ἀηδὲς καὶ ὠφέλιμον, τοῦτο δὲ καὶ λέξει καὶ ᾄσεται, ἐάντε χαίρωσιν ἐάντε μή; ποτέρως σοι δοκεῖ παρεσκευάσθαι ἡ τῶν τραγῳδιῶν ποίησις;

So. Sua cura e intenzione, secondo te, è solamente compiacere gli spettatori, o anche sforzarsi, se qualcosa risulti per loro piacevole e gradito, qualcos’altro penoso, di non dirlo, ma se qualcosa si trovi ad essere spiacevole e utile, questo lo dirà e lo canterà, sia che ne godano, sia che no? In quale dei due modi ti sembra strutturata?

ΚΑΛ. Δῆλον δὴ τοῦτό γε, ὦ Σώκρατες, ὅτι πρὸς τὴν [c] ἡδονὴν μᾶλλον ὥρμηται καὶ τὸ χαρίζεσθαι τοῖς θεαταῖς.

Call. Ma questo almeno è chiaro, o Socrate, che è indirizzata piuttosto al piacere e a compiacere gli spettatori.

ΣΩ. Οὐκοῦν τὸ τοιοῦτον, ὦ Καλλίκλεις, ἔφαμεν νυνδὴ κολακείαν εἶναι;

ΚΑΛ. Πάνυ γε.

«So. Non dicvamo dunque una cosa del genere, o Callicle, poco fa, che è adulazione?

Call. Certamente».


Dunque bisogna astenersene e lo pretendeva anche dai suoi discepoli, al punto che Platone dovette bruciare le sue poesie giovanili. Che Platone in gioventù si fosse dedicato alla tragedia risulta da Diogene Laerzio, III, 5:


μέλλων ἀγωνιεῖσθαι τραγῳδίᾳ πρὸ τοῦ Διονυσιακοῦ θεάτρου Σωκράτους ἀκούσας κατέφλεξε τὰ ποιήματα.

«Quando stava per gareggiare nella tragedia davanti al teatro di Dioniso, dopo aver ascoltato Socrate, bruciò i versi».


Anche quando le massime socratiche trovarono resistenza, furono tuttavia abbastanza forti da spingere la poesia su posizioni nuove.

Mito di Er – Platone, Repubblica, X, 614b-621d – 14° parte

  Εἰπόντος δὲ ταῦτα τὸν πρῶτον λαχόντα ἔφη εὐθὺς ἐπιόντα τὴν μεγίστην τυραννίδα ἑλέσθαι, καὶ ὑπὸ ἀφροσύνης τε καὶ λαιμαργίας οὐ πάντα ἱκανῶς ἀνασκεψάμενον ἑλέσθαι, ἀλλ' [c] αὐτὸν λαθεῖν ἐνοῦσαν εἱμαρμένην παίδων αὑτοῦ βρώσεις καὶ ἄλλα κακά· ἐπειδὴ δὲ κατὰ σχολὴν σκέψασθαι, κόπτεσθαί τε καὶ ὀδύρεσθαι τὴν αἵρεσιν, οὐκ ἐμμένοντα τοῖς προρρηθεῖσιν ὑπὸ τοῦ προφήτου· οὐ γὰρ ἑαυτὸν αἰτιᾶσθαι τῶν κακῶν, ἀλλὰ τύχην τε καὶ δαίμονας καὶ πάντα μᾶλλον ἀνθἑαυτοῦ.

«Dopo che quello ebbe detto queste cose, (Er) disse che il primo sorteggiato subito andava a scegliere la più grande tirannide, e per stoltezza e avidità scelse senza aver considerato tutto a sufficienza, ma gli sfuggì che era contenuto il destino di divorare i propri figli e altri mali: dopo che ebbe esaminato con calma, si batteva e si lamentava della scelta, non attenendosi alle parole dette prima dallaraldo: infatti non incolpava se stesso dei mali, ma la sorte e gli dèi e tutto tranne se stesso».

εἶναι δὲ αὐτὸν τῶν ἐκ τοῦ οὐρανοῦ ἡκόντων, ἐν τεταγμένῃ πολιτείᾳ ἐν τῷ προτέρῳ βίῳ βεβιωκότα, ἔθει [d] ἄνευ φιλοσοφίας ἀρετῆς μετειληφότα.

«Era egli di quelli che erano giunti dal cielo, che aveva vissuto nella vita precedente in una costituzione ben ordinata, che aveva partecipato della virtù per abitudine senza filosofia».

ὡς δὲ καὶ εἰπεῖν, οὐκ ἐλάττους εἶναι ἐν τοῖς τοιούτοις ἁλισκομένους τοὺς ἐκ τοῦ οὐρανοῦ ἥκοντας, ἅτε πόνων ἀγυμνάστους· τῶν δἐκ τῆς γῆς τοὺς πολλούς, ἅτε αὐτούς τε πεπονηκότας ἄλλους τε ἑωρακότας, οὐκ ἐξ ἐπιδρομῆς τὰς αἱρέσεις ποιεῖσθαι.

«E, per così dire, non erano in numero minore a essere colti in tali situazioni coloro che erano giunti dal cielo, in quanto non allenati alle sofferenze; invece i più tra quelli che erano arrivati dalla terra, siccome avevano sofferto essi stessi e avevano visto altri (soffrire), facevano le scelte non di fretta».


 Qui è espresso il topos del πάθει μάθος, la cui formulazione con queste efficaci parole risale a EschiloAgamennone, 177, ma si trova in molti altri autori:


EsiodoOpere e giorni, vv. 217-218

δίκη δὑπὲρ ὕβριος ἴσχει

ἐς τέλος ἐξελθοῦσα· παθὼν δέ τε νήπιος ἔγνω.

«Ma giustizia prevale sulla prepotenza, / quando alla fine arriva; anche uno stolto comprende soffrendo».


Eschilo, Agamennone, 177

Ζῆνα δέ τις προφρόνως ἐπινίκια κλάζων

τεύξεται φρενῶν τὸ πᾶν,

τὸν φρονεῖν βροτοὺς ὁδώ-

σαντατὸν πάθει μάθος

θέντα κυρίως ἔχειν.

«Chi intona a Zeus con gioia il canto della vittoria / otterrà in tutto saggezza, / Zeus che ha avviato i mortali ad essere saggi, / che ha stabilito come legge principale / attraverso la sofferenza la comprensione».


Eschilo, Prometeo, 391

ἡ σήΠρομηθεῦσυμφορὰ διδάσκαλος

«La tua disgrazia, Prometeo, è maestra».


SofocleEdipo a Colono567-68

ἔξοιδ’ ἀνὴρ ὢν χὤτι τῆς ἐς αὔριον

οὐδὲν πλέον μοι σοῦ μέτεστιν ἡμέρας.

«So di essere un uomo e che il giorno di / domani non appartiene affatto più a me che a te».


 Un’affermazione di umanesimo esemplare, come quella di Antigone:


Sofocle, Antigone, 523

Οὔτοι συνέχθεινἀλλὰ συμφιλεῖν ἔφυν.

«Sono nata per condividere non certo l’odio, ma l’amore».


EuripideMedea, 34

ἔγνωκε δἡ τάλαινα συμφορᾶς ὕπο

«Ha compreso l'infelice dalla disgrazia»


Euripide, Alcesti, 940

ἄρτι μανθάνω

«ora comprendo»

 Questa di Admeto nell’Alcesti  è una resipiscenza tardiva, dopo essersi pentito per aver fatto morire la moglie al posto suo.


PolibioStorie, I, 35, 7

δυεῖν γὰρ ὄντων τρόπων πᾶσιν ἀνθρώποις τῆς ἐπὶ τὸ βέλτιον μεταθέσεωςτοῦ τε διὰ τῶν ἰδίων συμπτωμάτων καὶ τοῦ διὰ τῶν ἀλλοτρίωνἐναργέστερον μὲν εἶναι συμβαίνει τὸν διὰ τῶν οἰκείων περιπετειῶνἀβλαβέστερον δὲ τὸν διὰ τῶν ἀλλοτρίων.

«Essendo infatti due i modi del cambiamento in meglio per tutti gli uomini, uno attraverso le sventure proprie e l'altro attraverso quelle altrui, succede che sia più evidente (efficace) quello attraverso le peripezie personali, ma meno dannoso quello attraverso le peripezie altrui».


 Didone ne è un altro esempio, commovente in quanto Enea non ricambia la sua umanità. Quando il Troiano, bisognoso di aiuto, le si presenta così lei lo conforta:

Eneide630

Non ignara mali, miseris succurrere disco.

«Non ignara del male, imparo a soccorrere i miseri».


Queste invece le ultime parole di Enea a Didone viva (EneideI, IV, vv. 360-361):

Desine meque tuis incendere teque querelis:

Italiam non sponte sequor.

«Smettila di infiammare me e te con le tue lamentele: / non di mia volontà seguo l’Italia».


NietzscheUmano, troppo umano, I

Parte terza, La vita religiosa

109. Dolore è conoscenza. Ora la tragedia è questa, che non si può credere a quei dogmi della religione e della metafisica, se si porta nel cuore e nella mente il severo metodo della verità, e d'altra parte si è divenuti attraverso l'evoluzione dell'umanità così delicati, eccitabili e sofferenti, da aver bisogno di mezzi di salute e di consolazione della più alta specie; dal che sorge quindi il pericolo che l'uomo si dissangui sulla verità conosciuta. Ciò esprime Byron in versi immortali:

Sorrow is knowledge: they who know the most

Must mourn the deepest oer the fatal truth,

The Tree of Knowledge is not that of life.1

 Contro tali cure, nessun mezzo giova più dell'evocare, almeno per le ore più tristi e buie dell'anima, la solenne leggerezza di Orazio, e del dire a se stessi con lui:

quid aeternis minorem

consiliis animum fatigas?

Cur non sub alta vel platano vel hac

pinu iacentes...2

[...] Quei dolori possono essere veramente penosi, ma senza dolori non si può diventare una guida e un educatore dell'umanità.


Nietzsche, Umano, troppo umano, II

Parte prima, Opinioni e sentenze

48. Aver molta gioia. Chi ha molta gioia, dev'essere un brav'uomo: ma forse non è il più intelligente, benché raggiunga proprio ciò che il più intelligente con tutta la sua intelligenza cerca di raggiungere.


Nietzsche, La gaia scienza, libro primo

13. Per la teoria del sentimento di potenza. … il dolore si pone sempre il problema della causa, mentre il piacere tende ad arrestarsi su se stesso e a non guardarsi indietro.


Nietzsche, Genealogia della morale

seconda dissertazione, «colpa»«cattiva coscienza» e simili, 3

«Si incide a fuoco qualcosa affinché resti nella memoria: soltanto quel che non cessa di dolorare resta nella memoria» – è questo un assioma della più antica (purtroppo anche più longeva) psicologia sulla terra…


1 «Dolore è la conoscenza: coloro che conoscono più di tutti / devono soffrire più profondamente di tutti per questa fatale verità, / l'albero della conoscenza non è quello della vita» (Byron, Manfredi, I, 1, 11-13).

2 fugit retro / levis iuventas et decor, arida / pellente lascivos amores / canitie facilemque somnum. / Non semper idem floribus est honor / vernis neque uno luna rubens nitet / voltu: quid aeternis minorem / consiliis animum fatigas? / Cur non sub alta vel platano vel hac / pinu iacentes (11-14) sic temere et rosa / canos odorati capillos,/ dum licet, Assyriaque nardo / potamus uncti? «Fugge dietro a noi la leggera gioventù e la grazia, mentre l'arida / vecchiaia scaccia i lascivi amori / e il facile sonno. / Non è sempre la stessa la bellezza dei fiori / primaverili né la luna rosseggiante risplende con un solo / volto: perché stanchi con eterni progetti / un cuore che è più piccolo? / Perché, sdraiati così alla buona sotto un alto platano / o sotto questo pino / coi capelli grigi profumati di rosa / e unti di nardo assiro, / finché è possibile, perché non beviamo?» (Orazio, Odi, II, 11, vv. 5-17).


Nietzsche, La nascita della tragedia – Spiegazione e commento – CAPITOLO 13

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(in aggiornamento)


Capitolo 13

Il demone socratico


Che Socrate avesse uno stretto legame di tendenza con Euripide, non sfuggì all’antichità di quel tempo; e l’espressione più eloquente di questo fiuto felice è quella leggenda circolante ad Atene, secondo cui Socrate usava aiutare Euripide a poetare.


La voce è riportata da Diogene Laerzio (II, 18):


ἐδόκει δὲ συμποιεῖν Εὐριπίδῃ

«pare che collaborasse con Euripide nel comporre».


I partigiani del buon tempo antico, o laudatores temporis acti, come li chiama Orazio (Ars poetica, 173), associavano i due nomi ad indicare la causa della corruzione della generazione dei maratonomachi, con il sacrificio della loro valentia a favore di un dubbio razionalismo. In tal senso Aristofane parla di loro con sdegno e disprezzo, come si può vedere alla fine delle Rane (1491-99):


χαρίεν οὖν μὴ Σωκράτει

παρακαθήμενον λαλεῖν,

ἀποβαλόντα μουσικὴν

τά τε μέγιστα παραλιπόντα

τῆς τραγῳδικῆς τέχνης.

τὸ δ᾽ ἐπὶ σεμνοῖσιν λόγοισι

καὶ σκαριφησμοῖσι λήρων

διατριβὴν ἀργὸν ποιεῖσθαι,

παραφρονοῦντος ἀνδρός.

«è grazioso dunque non stare seduto / accanto a Socrate a chiacchierare, / disprezzando la musica / e i grandissimi resti / dell’arte tragica. È vano perdere tempo / in sciocchezze su discorsi altezzosi e inutili sottigliezze, di un uomo delirante».


Riprendendo una testimonianza di Eliano (Eliano, Varia Historia, II, 13) Nietzsche presuppone l’ostilità di Socrate per il teatro:


ὁ δὲ Σωκράτης σπάνιον μὲν ἐπεφοίτα τοῖς θεάτροις, εἴ ποτε δὲ Εὐριπίδης ὁ τῆς τραγῳδίας ποιητὴς ἠγωνίζετο καινοῖς τραγῳδοῖς, τότε γε ἀφικνεῖτο.

«Socrate raramente frequentava i teatri, ma se mai Euripide, l’autore di tragedie, gareggiava con tragedie nuove, allora in quel caso ci andava».


Il famoso oracolo accostava i due assegnando il secondo posto della sapienza a Euripide e il terzo a Sofocle (il quale vantava maggiore consapevolezza rispetto a Eschilo), evidentemente basandosi sul criterio della chiarezza di questo sapere.

Vediamo il passo in cui Platone nell’Apologia (20d sqq.) descrive l’episodio dell’oracolo di Delfi:


τῆς γὰρ ἐμῆς, εἰ δή τίς ἐστιν σοφία καὶ οἵα, μάρτυρα ὑμῖν παρέξομαι τὸν θεὸν τὸν ἐν Δελφοῖς. Χαιρεφῶντα γὰρ ἴστε που.

«della mia sapienza, infatti, se è tale e di che qualità sia, vi fornirò come testimone il dio di Delfi. Conoscete infatti Cherefonte in qualche modo» (20e).

καὶ δή ποτε καὶ εἰς Δελφοὺς ἐλθὼν ἐτόλμησε τοῦτο μαντεύσασθαι—καί, ὅπερ λέγω, μὴ θορυβεῖτε, ὦ ἄνδρες—ἤρετο γὰρ δὴ εἴ τις ἐμοῦ εἴη σοφώτερος. ἀνεῖλεν οὖν ἡ Πυθία μηδένα σοφώτερον εἶναι.

«e una volta andato a Delfi osò chiedere questo oracolo – e, ciò che dico, non rumoreggiate, signori – chiese infatti se qualcuno fosse più sapiente di me. Rispose dunque la Pizia che nessuno era più sapiente» (21a).

ἦλθον ἐπί τινα τῶν δοκούντων σοφῶν εἶναι.

ἔοικα γοῦν τούτου γε σμικρῷ τινι αὐτῷ τούτῳ σοφώτερος εἶναι, ὅτι ἃ μὴ οἶδα οὐδὲ οἴομαι εἰδέναι.

«Andai da uno di quelli reputati sapienti» (21b).

«Dunque mi sembrò di essere più sapiente di questo almeno proprio per questo piccolo particolare, cioè per il fatto che le cose che non so nemmeno penso di saperle» (21d).


Questo è il punto centrale: quando si rese conto di essere l’unico ad ammettere di non sapere conferì un nuovo valore al sapere e all’intelligenza, in quanto ovunque trovava la presunzione della sapienza, quella contro cui mette in guardia Thamus nel mito di Theuth alla fine del Fedro di Platone, quando conclude così la stroncatura della scrittura inventata da Theuth (274e-275b):


ὦ τεχνικώτατε Θεύθ, ἄλλος μὲν τεκεῖν δυνατὸς τὰ τέχνης, ἄλλος δὲ κρῖναι τίν᾽ ἔχει μοῖραν βλάβης τε καὶ ὠφελίας τοῖς μέλλουσι χρῆσθαι· καὶ νῦν σύ, πατὴρ ὢν γραμμάτων, δι᾽ εὔνοιαν τοὐναντίον εἶπες ἢ δύναται. τοῦτο γὰρ τῶν μαθόντων λήθην μὲν ἐν ψυχαῖς παρέξει μνήμης ἀμελετησίᾳ, ἅτε διὰ πίστιν γραφῆς ἔξωθεν ὑπ᾽ ἀλλοτρίων τύπων, οὐκ ἔνδοθεν αὐτοὺς ὑφ᾽ αὑτῶν ἀναμιμνῃσκομένους· οὔκουν μνήμης ἀλλὰ ὑπομνήσεως φάρμακον ηὗρες. σοφίας δὲ τοῖς μαθηταῖς δόξαν, οὐκ ἀλήθειαν πορίζεις· πολυήκοοι γάρ σοι γενόμενοι ἄνευ διδαχῆς πολυγνώμονες εἶναι δόξουσιν, ἀγνώμονες ὡς ἐπὶ τὸ πλῆθος ὄντες, καὶ χαλεποὶ συνεῖναι, δοξόσοφοι γεγονότες ἀντὶ σοφῶν.

«O tecnicissimo Theuth, uno è capace di partorire i ritrovati della tecnica, un altro di giudicare quale parte di danno e di vantaggio hanno per coloro che hanno intenzione di usarli: e ora tu, siccome sei il padre delle lettere, per benevolenza hai detto il contrario di quello che possono fare. Questo sapere infatti procurerà oblio nelle anime di chi apprende per trascuratezza della memoria, in quanto per fede nella scrittura richiamano alla memoria da fuori a partire da modelli esterni, non dall’interno essi stessi da sé stessi; hai trovato un farmaco non certo della memoria ma del ricordo. Tu procuri ai discepoli l’opinione della sapienza, non la verità: divenuti tuoi assidui ascoltatori penseranno di essere, senza insegnamento, molto colti, essendo invece per lo più ignoranti, e difficili da frequentare, divenuti apparentemente sapienti, anziché sapienti».


  È la famosa condanna della scrittura associata alla dottrina della conoscenza in quanto reminiscenza formulata in Menone, 81b-c: Socrate sta spiegando a Menone che, essendo l’anima immortale, nasciamo più volte e quindi impariamo tutto nel corso delle varie vite; ἅτε γὰρ τῆς φύσεως ἁπάσης συγγενοῦς οὔσης, καὶ μεμαθηκυίας τῆς ψυχῆς ἅπαντα, οὐδὲν κωλύει ἓν μόνον ἀναμνησθέντα ὃ δὴ μάθησιν καλοῦσιν ἄνθρωποι τἆλλα πάντα αὐτὸν ἀνευρεῖν, ἐάν τις ἀνδρεῖος ᾖ καὶ μὴ ἀποκάμνῃ ζητῶν· τὸ γὰρ ζητεῖν ἄρα καὶ τὸ μανθάνειν ἀνάμνησις ὅλον ἐστίν, «siccome infatti la natura è tutta imparentata con se stessa e l’anima ha appreso tutto, nulla impedisce che ricordando una sola cosa, ciò che gli uomini appunto chiamano apprendimento, riscopra tutte le altre cose, qualora sia un uomo di valore e non si stanchi di cercare; infatti il cercare e l’apprendere sono nel complesso reminiscenza».

A questa idea si può contrapporre quanto dice Schopenhauer (Parerga e paralipomena IICapitolo ventitreesimo, Sul mestiere dello scrittore e sullo stile, 289a: «Quanto grandi e degni di ammirazione sono stati quei primi spiriti del genere umano i quali… inventarono la più meravigliosa delle opere d’arte, la grammatica della lingua… tutto questo nella nobile intenzione di avere un organo materiale adeguato e sufficiente per la piena e degna espressione del pensiero umano».

Dunque si accorse che i reputati sapienti in realtà non avevano un’idea chiara del loro sapere, ma lo esercitavano solo per istinto:


ἔγνων οὖν αὖ καὶ περὶ τῶν ποιητῶν ἐν ὀλίγῳ τοῦτο, ὅτι οὐ σοφίᾳ ποιοῖεν ἃ ποιοῖεν, ἀλλὰ φύσει τινὶ καὶ ἐνθουσιάζοντες ὥσπερ οἱ θεομάντεις καὶ οἱ χρησμῳδοί: καὶ γὰρ οὗτοι λέγουσι μὲν πολλὰ καὶ καλά, ἴσασιν δὲ οὐδὲν ὧν λέγουσι.

«Compresi dunque in breve a mia volta anche sui poeti questo, che non per sapienza componevano ciò che componevano, ma per una disposizione naturale ed essendo ispirati dalla divinità, come gli indovini e i profeti: e infatti costoro dicono molte e belle cose, ma non sanno nessuna delle cose che dicono».


«Solo per istinto» è il cuore del problema: così Socrate condanna arte ed etica vigenti, perché ovunque vede mancanza di intelligenza e il potere dell’illusione; da qui credette di dover correggere l’esistenza, quale precursore di una nuova concezione in un mondo di cui considereremmo la massima fortuna poterne cogliere anche un solo frammento.


Chi è costui, che osa da solo negare la natura greca, quella che attraverso Omero, Pindaro ed Eschilo, attraverso Fidia, attraverso Pericle, attraverso la Pizia e Dioniso, attraverso l’abisso più profondo e la cima più alta è sicura della nostra stupefatta adorazione?


Quale semidio, quale forza oserebbero Tanto? Una chiave per spiegare la natura di Socrate ci è offerta dal suo «demone»: questa voce giunge sempre per dissuadere. Così infatti ci viene detto nell’Apologia (31c-d):


τούτου δὲ αἴτιόν ἐστιν ὃ ὑμεῖς ἐμοῦ πολλάκις ἀκηκόατε πολλαχοῦ λέγοντος, ὅτι μοι θεῖόν τι καὶ δαιμόνιον γίγνεται, ὃ δὴ καὶ ἐν τῇ γραφῇ ἐπικωμῳδῶν Μέλητος ἐγράψατο. ἐμοὶ δὲ τοῦτ᾽ ἔστιν ἐκ παιδὸς ἀρξάμενον, φωνή τις γιγνομένη, ἣ ὅταν γένηται, ἀεὶ ἀποτρέπει με τοῦτο ὃ ἂν μέλλω πράττειν, προτρέπει δὲ οὔποτε.

«Causa di ciò è quello di cui voi spesso mi avete sentito parlare in molti luoghi, cioè che in me c'è un qualcosa di divino e demonico, cosa che appunto Meleto ha anche scritto nell'accusa schernendomi come in una commedia. Questo è con me fin da bambino, una voce che nasce, la quale, quando nasce, sempre mi trattiene da questo che sto per fare, non mi spinge mai».


Socrate dunque funziona al contrario.


Mentre in tutti gli uomini produttivi l’istinto è proprio la forza creativa e affermativa, e la coscienza si comporta in maniera critica e dissuadente, in Socrate l’istinto si trasforma in un critico, la coscienza in una creatrice – una vera mostruosità per defectum. Più precisamente noi scorgiamo qui un mostruoso defectus di ogni disposizione mistica, sicché Socrate sarebbe da definire come l’individuo specificamente  non mistico, in cui la natura logica, per una superfetazione, è sviluppata in modo tanto eccessivo quanto lo è quella sapienza istintiva nel mistico.


Una volta innescato il processo «l’immane ruota che muove il socratismo logico è in azione per così dire al di là di Socrate». E dal dignitoso contegno, anche davanti ai giudici, con cui fece valere la sua vocazione divina, si intuisce che si sentiva di ricoprire una funzione storica. Era impossibile confutarlo così come approvarlo nella sua demolizione degli istinti; l’unica soluzione era esiliarlo come qualcosa di enigmatico, di assurdo, come in per esempio dice di lui Fedro all’inizio dell’omonimo dialogo ():


Φαῖδρος. Σὺ δέ γε, ὦ θαυμάσιε, ἀτοπώτατός τις φαίνῃ. Ἀτεχνῶς γάρ, ὃ λέγεις, ξεναγουμένῳ τινὶ καὶ οὐκ ἐπιχωρίῳ ἔοικας· οὕτως ἐκ τοῦ ἄστεος οὔτ᾽ εἰς τὴν ὑπερορίαν ἀποδημεῖς, οὔτ᾽ ἔξω τείχους ἔμοιγε δοκεῖς τὸ παράπαν ἐξιέναι.

«Fedro. Tu, o o meraviglioso, sembri un tipo proprio strano. Infatti, come dici, assomigli del tutto a uno straniero che è portato in giro da una guida e non uno del posto; così non vai fuori città né per andare all’estero, né mi sembri affatto uscire fuori dalle mura».

Σωκράτης. Συγγίγνωσκέ μοι, ὦ ἄριστε. Φιλομαθὴς γάρ εἰμι· τὰ μὲν οὖν χωρία καὶ τὰ δένδρα οὐδέν μ᾽ ἐθέλει διδάσκειν, οἱ δ᾽ ἐν τῷ ἄστει ἄνθρωποι. Σὺ μέντοι δοκεῖς μοι τῆς ἐμῆς ἐξόδου τὸ φάρμακον ηὑρηκέναι. ῞Ωσπερ γὰρ οἱ τὰ πεινῶντα θρέμματα θαλλὸν ἤ τινα καρπὸν προσείοντες ἄγουσιν, σὺ ἐμοὶ λόγους οὕτω προτείνων ἐν βιβλίοις, τήν τε Ἀττικὴν φαίνῃ περιάξειν ἅπασαν καὶ ὅποι ἂν ἄλλοσε βούλῃ.

«Socrate. Perdonami, ottimo amico. Io infatti sono bramoso di apprendere: dunque i posticini e gli alberi non vogliono insegnarmi niente, mentre lo fanno gli uomini nella città. Tu certo sembri avermi trovato il farmaco per farmi uscire. Infatti come coloro che agitano davanti agli occhi del bestiame affamato un ramoscello o un frutto lo spingono avanti, tu protendendo in avanti così i discorsi dei libri, sembri portarmi in giro per tutta l’Attica e dove altro vuoi».


Ma che per lui fosse sentenziata la morte pare che lo abbia voluto lo stesso Socrate, che vi andò incontro con la stessa calma con cui lasciò il simposio all’alba, ultimo tra i bevitori (Platone, Simposio, 223d):


πρότερον μὲν καταδαρθεῖν τὸν Ἀριστοφάνη, ἤδη δὲ ἡμέρας γιγνομένης τὸν Ἀγάθωνα. τὸν οὖν Σωκράτη, κατακοιμίσαντ᾽ ἐκείνους, ἀναστάντα ἀπιέναι, καὶ ἓ ὥσπερ εἰώθει ἕπεσθαι, καὶ ἐλθόντα εἰς Λύκειον, ἀπονιψάμενον, ὥσπερ ἄλλοτε τὴν ἄλλην ἡμέραν διατρίβειν, καὶ οὕτω διατρίψαντα εἰς ἑσπέραν οἴκοι ἀναπαύεσθαι.

«Prima si addormentò Aristofane, poi quando ormai era giorno Agatone. Socrate dunque, dopo averli messi a letto, si alzò e se ne andò, ed egli (Aristodemo, n.d.t.), come era solito, lo seguì, e giunto al Liceo, dopo essersi lavato, come altre volte passò il resto della giornata, e dopo averla così passata, verso sera si riposava a casa».


Il Socrate morente divenne l’ideale nuovo… della gioventù nobile greca: prima di tutti Platone, il tipico giovane ellenico, si gettò ai piedi di quest’immagine con tutta l’ardente dedizione della sua anima.