mercoledì 30 aprile 2025

Est aliqua et doloris ambitio – Seneca, Epistulae, 63 (I)

 

Seneca apre la lettera manifestando comprensione per il dolore di Lucilio, dovuto alla morte di un amico caro. Da qui prende spunto per invitarlo al contegno nel manifestare la sofferenza.

[2] Duram tibi legem videor ponere, cum poetarum Graecorum maximus ius flendi dederit in unum dumtaxat diem, cum dixerit etiam Niobam de cibo cogitasse? Quaeris unde sint lamentationes, unde immodici fletus? per lacrimas argumenta desiderii quaerimus et dolorem non sequimur sed ostendimus; nemo tristis sibi est. O infelicem stultitiam! est aliqua et doloris ambitio.

«[2] Sembra che ti imponga una dura legge, quando il più grande dei poeti Greci concesse la facoltà di piangere, ma limitatamente a un giorno, e disse che anche Niobe pensò al cibo?1 Chiedi da dove derivino le lamentazioni, da dove i pianti senza misura? Noi attraverso le lacrime cerchiamo prove del rimpianto e non cediamo al dolore, ma lo ostentiamo; nessuno è triste per se stesso. O misera stoltezza! C’è un compiacimento anche del dolore».

[4] Id agamus ut iucunda nobis amissorum fiat recordatio. Nemo libenter ad id redit quod non sine tormento cogitaturus est, sicut illud fieri necesse est, ut cum aliquo nobis morsu amissorum quos amavimus nomen occurrat; sed hic quoque morsus habet suam voluptatem.

[4] Facciamo in modo che il ricordo dei defunti sia per noi piacevole. Nessuno torna volentieri a ciò che è destinato a pensare non senza tormento, così come accade necessariamente che il nome dei defunti che abbiamo amato ci si presenti con una stretta al cuore; però anche questa stretta ha un suo piacere».


Seneca quindi riporta una considerazione secondo la quale il ricordo degli amici defunti è gradito come il sapore di certi cibi aspri, cioè comprende un elemento di asprezza. Seneca non è d’accordo:

[7] Ego non idem sentio: mihi amicorum defunctorum cogitatio dulcis ac blanda est; habui enim illos tamquam amissurus, amisi tamquam habeam.
Fac ergo, mi Lucili, quod aequitatem tuam decet, desine beneficium fortunae male interpretari: abstulit, sed dedit.

«[7] Io non la penso allo stesso modo: il pensiero degli amici morti è per me dolce e carezzevole; li ho avuti infatti pensando che li avrei perduti, li ho perduti pensando che continuo ad averli.

Fa’ dunque, mio Lucilio, ciò che si addice al tuo equilibrio, smettila di interpretare male un beneficio della fortuna: ti ha tolto, ma ti ha dato».


1 Cfr. l’episodio della «Matrona di Efeso» nel Satyricon», dove la donna piange per giorni ma a un certo punto cede alla fame. Il riferimento di Seneca è a Omero, Iliade, XIX, 229; XXIV, 602.

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lunedì 28 aprile 2025

Statistiche del blog di oggi 28 aprile

 

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Calamitosus est animus futuri anxius et ante miserias miser – Seneca, Epistulae, 98

 

2. Omnia quae fortuna intuetur ita fructifera ac iucunda fiunt si qui habet illa se quoque habet nec in rerum suarum potestate est. Errant enim, Lucili, qui aut boni aliquid nobis aut mali iudicant tribuere fortunam: materiam dat bonorum ac malorum et initia rerum apud nos in malum bonumve exiturarum. Valentior enim omni fortuna animus est et in utramque partem ipse res suas ducit beataeque ac miserae vitae sibi causa est.

«2. Tutte le cose che la fortuna tiene d’occhio così diventano fruttuose e fonte di gioia, se chi le possiede possiede anche se stesso ed è in potere delle sue cose. Errano infatti, Lucilio, coloro che giudicano che la fortuna ci attribuisca qualche bene o qualche male: dà materia di bene e di male e gli spunti di situazioni che sfocieranno per noi in male o bene. Infatti l’animo è più forte di ogni fortuna ed è lui a condurre le proprie cose in entrambe le direzioni ed è causa per sé di una vita felice e infelice».

6. Calamitosus est animus futuri anxius et ante miserias miser, qui sollicitus est ut ea quibus delectatur ad extremum usque permaneant; nullo enim tempore conquiescet et expectatione venturi praesentia, quibus frui poterat, amittet.

«6. È disgraziato l’animo ansioso del futuro e afflitto prima delle afflizioni, che si preoccupa che i piaceri di cui gode durino fino all’ultimo giorno; infatti non avrà pace in nessun momento e nell’attesa di ciò che verrà perderà il presente, di cui avrebbe potuto godere».

7. Potest fortunam cavere qui potest ferre;… Nihil est nec miserius nec stultius quam praetimere: quae ista dementia est malum suum antecedere?

«7. Può guardarsi dalla fortuna colui che può sopportarla;… Nulla è più infelice e stupido che temere in anticipo: che follia è questa di precorrere il proprio male?

8. Plus dolet quam necesse est qui ante dolet quam necesse est.

«8. Soffre più di quanto è necessario chi soffre prima di quanto è necessario».

11. Habere eripitur, habuisse numquam. Peringratus est qui, cum amisit, pro accepto nihil debet.

«11. Il possedere viene strappato, l’aver posseduto mai. È oltremodo ingrato chi, quando ha perso un bene, non deve niente in cambio di ciò che ha ricevuto».

13. intellegebat enim quod dari posset et eripi posse.

«13. capiva infatti che quello che può essere dato può anche essere strappato».

17. Hoc est, mi Lucili, philosophiam in opere discere et ad verum exerceri, videre quid homo prudens animi habeat contra mortem, contra dolorem, cum illa accedat, hic premat; quid faciendum sit a faciente discendum est.

«17. Questo significa, mio Lucilio, imparare la filosofia operando e allenarsi confrontandosi con la verità, vedere che animo abbia un uomo saggio contro la morte, contro il dolore, quando quella si avvicina e questo ci schiaccia; si deve imparare ciò che si deve fare da chi lo fa».

Personata felicitas – Seneca, Epistulae, 80

 

Nel capitolo VI Seneca affronta un tema a lui caro: la felicità di coloro che sono reputati felici è per lo più simulata. Il tema sarà poi ulteriormente sviluppato nelle Epistulae.


4. Isti quos pro felicibus aspicis, si non qua occurrunt sed qua latent uideris, miseri sunt, sordidi turpes, ad similitudinem parietum suorum extrinsecus culti; non est ista solida et sincera felicitas: crusta est et quidem tenuis. Itaque dum illis licet stare et ad arbitrium suum ostendi, nitent et inponunt; cum aliquid incidit quod disturbet ac detegat, tunc apparet quantum altae ac uerae foeditatis alienus splendor absconderit.

«4. Questi che tu guardi come fortunati, se li vedi non dal lato con cui si presentano ma da quello che nascondono, sono meschini, squallidi, vergognosi, a somiglianza delle loro pareti belli di fuori; non è questa una felicità solida e autentica: è una patina e pure sottile. E così finché è loro consentito stare dritti e mostrarsi a loro arbitrio, brillano e traggono in inganno; quando capita qualcosa che li sconvolge e scopre, allora appare quanta profonda e reale ripugnanza nascondesse quello splendore posticcio».


Questa idea piace a Seneca, che la declina con la metafora teatrale in Epistulae, 80:

5. Libera te primum metu mortis (illa nobis iugum inponit), deinde metu paupertatis. 6. Si vis scire quam nihil in illa mali sit, compara inter se pauperum et divitum vultus: saepius pauper et fidelius ridet; nulla sollicitudo in alto est; etiam si qua incidit cura, velut nubes levis transit: horum qui felices vocantur hilaritas ficta est aut gravis et suppurata tristitia, eo quidem gravior quia interdum non licet palam esse miseros, sed inter aerumnas cor ipsum exedentes necesse est agere felicem. 7. Saepius hoc exemplo mihi utendum est, nec enim ullo efficacius exprimitur hic humanae vitae mimus, qui nobis partes quas male agamus adsignat.

«5. Liberati innanzitutto dalla paura della morte (essa ci impone un giogo), poi dalla paura della povertà. 6. Se vuoi sapere quanto non ci sia nulla di male in essa, confronta tra loro i volti dei poveri e dei ricchi: il povero ride più spesso e più schiettamente; nessuna preoccupazione si trova nel profondo; anche se incappa in qualche affanno, passa come una nuvola leggera: l’allegria di questi che sono chiamati felici è recitata oppure è una tristezza opprimente e che rode, e di certo tanto più opprimente poiché non è possibile ogni tanto essere infelici apertamente, ma divorando il cuore stesso tra le pene si è obbligati a fare la parte del felice. 7. Devo usare più spesso questo esempio, e infatti da nessun altro con più efficacia è rappresentato questo mimo della vita umana, che ci assegna i ruoli che interpretiamo male».

8. omnium istorum personata felicitas est. Contemnes illos si despoliaveris.

«8. La felicità di tutti costoro è una maschera8. Li disprezzerai se avrai tolto loro i vestiti».

Il concetto è che non hominibus tantum sed rebus persona demenda est et reddenda facies sua9«Non solo agli uomini ma anche alle cose bisogna levare la maschera e restituire il loro aspetto autentico» (Epistulae, 24, 13).


8 Cfr. Schopenhauer, Parerga e paralipomena I, Aforismi sulla saggezza della vita. Capitolo quinto: «La maggior parte degli splendori e delle magnificenze è una pura apparenza… tutto ciò è l’insegna, latteggiamento, il geroglifico della gioia… lo scopo consiste semplicemente nel far credere ad altri che là per lappunto ha preso alloggio la gioia: la vera intenzione è di suscitare tale illusione nel cervello altrui».

9 Cfr. Lucrezio, De rerum natura, III, vv. 55-58: quo magis in dubiis hominem spectare periclis / convenit / adversisque in rebus noscere qui sit; / nam verae voces tum demum pectore ab imo / eliciuntur [et] eripitur persona manet res.«A maggior ragione è necessario osservare luomo nei dubbiosi / pericoli e conoscere chi sia nelle avversità; infatti allora infine le vere voci dal profondo del cuore / erompono e viene strappata la maschera, rimane lessenza».

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Giovanni Ghiselli: Omero II parte. Ancora l’epica omerica in generale...:   Per quanto riguarda la società omerica essa non è retta da un sovrano autocratico come quella micenea, secondo Codino . Viene fatt...

venerdì 25 aprile 2025

Statistiche del blog di oggi 25 aprile

 

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Tam turpe est Catoni mortem ab ullo petere quam uitam – Seneca, De providentia, II, 9-11

 

Riprendo dal post precedente


9. ecce spectaculum dignum ad quod respiciat intentus operi suo deus, ecce par deo dignum, uir fortis cum fortuna mala compositus, utique si et prouocauit. Non uideo, inquam, quid habeat in terris Iuppiter pulchrius, si <eo> conuertere animum uelit, quam ut spectet Catonem iam partibus non semel fractis stantem nihilo minus inter ruinas publicas rectum.

«ecco uno spettacolo degno a cui possa rivolgere lo sguardo un dio intento alla sua opera, ecco una coppia degna di dio, un uomo forte alle prese con la cattiva sorte, specialmente se l’ha provocata. Non vedo, dico, che cosa abbia sulla terra Giove di più bello, se vuole rivolgere lì l’attenzione, che guardare Catone5, quando ormai il partito era andato in pezzi non una sola volta, stare dritto ciò non ostante tra le rovine dello stato».

10. ‘Licet' inquit ‘omnia in unius dicionem concesserint, custodiantur legionibus terrae, classibus maria, Caesarianus portas miles obsideat, Cato qua exeat habet: una manu latam libertati uiam faciet. Ferrum istud, etiam ciuili bello purum et innoxium, bonas tandem ac nobiles edet operas: libertatem quam patriae non potuit Catoni dabit.

«10. ‘E sia,’ disse, ‘tutti i poteri siano andati a finire sotto il controllo di uno solo, le terre siano presidiate dalle legioni, i mari dalle flotte, un soldato di Cesare assedi le porte, Catone ha una via d’uscita: con una sola mano aprirà la strada alla libertà. Questa spada, puro e inncente anche nella guerra civile, darà alla luce alla fine buone e nobili azioni: darà a Catone la libertà che non poté dare alla patria».

Aggredere, anime, diu meditatum opus, eripe te rebus humanis. Iam Petreius et Iuba concucurrerunt iacentque alter alterius manu caesi, fortis et egregia fati conuentio, sed quae non deceat magnitudinem nostram: tam turpe est Catoni mortem ab ullo petere quam uitam.’

«Intraprendi, animo, l’opera a lungo meditata, strappa te stesso alle vicende umane. Già Petreio e Giuba si sono scontrati e giacciono uccisi uno per mano dell’altro, patto di morte coraggioso e senza pari, ma che non si addice alla nostra grandezza: Per Catone è vergognoso chiedere a qualcun altro tanto la morte quanto la vita’».

11. Liquet mihi cum magno spectasse gaudio deos, dum ille uir, acerrimus sui uindex, alienae saluti consulit et instruit discedentium fugam, dum studia etiam nocte ultima tractat, dum gladium sacro pectori infigit, dum uiscera spargit et illam sanctissimam animam indignamque quae ferro contaminaretur manu educit.

Non ho dubbi che gli dèi abbiano guardato con grande gioia, mentre quell’eroe, rigorosissimo vendicatore di se stesso, provvede alla salvezza degli altri e organizza la fuga di chi rinuncia a combattere, mentre si dedica allo studio6 anche nell’ultima notte, mentre pianta la spada nel sacro petto, mentre sparge le viscere e con la mano tira fuori quell’anima santissima e indegna di essere contaminata dal ferro7».


5 È Catone Uticense (o il Giovane), così soprannominato per distinguerlo dall’avo, il Censore, morto nel 149 a.C.. Fiero avversario di Cesare, dopo la battaglia di Farsálo del 48 a.C., in cui Cesaro sconfisse Pompeo, continuò a battersi, ma per non cadere prigioniero del rivale si diede in Utica la morte nel 46 a.C.. È l’eroe degli stoici.

6 Si tratta del Fedone platonico, che tratta dell’immortalità dell’anima. Lo sappiamo da 68, 2: κατακλιθεὶς ἔλαβεν εἰς χεῖρας τῶν Πλάτωνος διαλόγων τὸν περὶ ψυχῆς«prese tra le mani quello sull’anima dei dialoghi di Platone».

7 In Epistulae, 24, 8 descrive così l’ultimo gesto: nudas in vulnus manus egit et generosum illum contemptoremque omnis potentiae spiritum non emisit sed eiecit«mise le mani nude nella ferita e quello spirito nobile e sprezzante di ogni potenza non lo lasciò andare ma lo cacciò fuori». Così Plutarco, Vita di Catone, 70, 10: dopo essersi inferto il colpo sviene e i medici tentano sistemare le viscere uscite e lo ricuciono; ὡς οὖν ἀνήνεγκεν ὁ Κάτων καὶ συνεφρόνησε, τὸν μὲν ἰατρὸν ἀπεώσατο, ταῖς χερσὶ δὲ τὰ ἔντερα σπαράξας καὶ τὸ τραῦμἐπαναρρήξας, ἀπέθανεν«come dunque rinvenne Catone e riprese lucidità, cacciò via il medico, poi lacerandosi con le mani le viscere e squarciando di nuovo la ferita morì».

Non fert ullum ictum inlaesa felicitas – Seneca, De providentia, II, 5-8


Riprendo dal post precedente 


5. Non uides quanto aliter patres, aliter matres indulgeant? illi excitari iubent liberos ad studia obeunda mature, feriatis quoque diebus non patiuntur esse otiosos, et sudorem illis et interdum lacrimas excutiunt; at matres fouere in sinu, continere in umbra uolunt, numquam contristari, numquam flere, numquam laborare.

«Non vedi quanto padri e madri esprimano l’affetto diversamente l’uno dall’altro? Quelli ordinano di svegliare i figli di buon ora per intraprendere gli studi, non li lasciano nell’ozio nemmeno nei giorni di festa, e spremono loro il sudore e a volte le lacrime; ma le madri vogliono scaldarli in grembo, tenerli nell’ombra4, che non siano mai tristi, non piangano mai, non soffrano mai».

6. Patrium deus habet aduersus bonos uiros animum et illos fortiter amat et 'operibus' inquit 'doloribus damnis exagitentur, ut uerum colligant robur.' Languent per inertiam saginata nec labore tantum sed motu et ipso sui onere deficiunt. Non fert ullum ictum inlaesa felicitas; at cui adsidua fuit cum incommodis suis rixa, callum per iniurias duxit nec ulli malo cedit, sed etiam si cecidit de genu pugnat.

«La divinità ha nei confronti degli uomini buoni un animo di padre e li ama virilmente e “Siano alle prese,” dice, “con lavori, dolori, danni, per raccogliere la vera forza”. Infiacchiscono nell’inazione i corpi appesantiti e vengono meno non solo per la fatica ma anche per il movimento e il proprio stesso peso. Non sopporta alcun colpo una prosperità mai ferita; ma chi si è trovato in una continua lotta contro le sue disgrazie, ha fatto il callo a forza di offese e non cede al alcun male, ma anche se è caduto combatte in ginocchio».

7. Miraris tu, si deus ille bonorum amantissimus, qui illos quam optimos esse atque excellentissimos uult, fortunam illis cum qua exerceantur adsignat? Ego uero non miror, si aliquando impetum capiunt spectandi magnos uiros conluctantis cum aliqua calamitate.

«Ti meravigli tu, se quel dio che ama sommamente i buoni, il quale vuole che quelli siano i migliori e i più eccellenti possibile, assegna loro una sorte con cui si allenino? Io proprio non mi meraviglio, se ogni tanto sono presi irresistibilmente dal desiderio di guardare i grandi uomini in lotta con una qualche calamità».

8. Nobis interdum uoluptati est, si adulescens constantis animi inruentem feram uenabulo excepit, si leonis incursum interritus pertulit, tantoque hoc spectaculum est gratius quanto id honestior fecit. Non sunt ista quae possint deorum in se uultum conuertere, puerilia et humanae oblectamenta leuitatis:

«Per talvolta è motivo di piacere, se un ragazzo di animo saldo affronta l’assalto di una belva con uno spiedo, se sostiene senza paura la carica di un leone, e questo spettacolo è tanto più gradito quanto più compie quel gesto con stile. Non sono queste le cose che possono attirare su di sé lo sguardo degli dèi, passatempi puerili e della superficialità umana:»


Continua...


4 Tenerli nell’ombra significa evitare il contatto con la realtà, che può rappresentare un problema. L’ombra nell’antichità non è mai positiva perché significa solitudine e distacco dalla realtà e dalla cultura. Vedi nell’articolo «Il sapere non è sapienza» la figura dell’umbraticus doctor.

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Giovanni Ghiselli: Joyce Ulisse. Ottavo episodio I Lestrigoni. Il pr...:   Si avvicina a Bloom una donna dall’aspetto molto sciupato sebbene all’incirca coetanea di Molly. I due si scambiano il saluto How do y...

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Giovanni Ghiselli: Il 25 aprile del 2025.

Giovanni Ghiselli: Il 25 aprile del 2025.:   Le celebrazioni del 25 aprile, se vogliono rendere onore ai partigiani morti e avere un senso oltre la retorica delle cerimonie uffi...

giovedì 24 aprile 2025

Statistiche del blog di oggi 24 aprile

 

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Giovanni Ghiselli: Seneca, Epistole 6 e 7.

Giovanni Ghiselli: Seneca, Epistole 6 e 7.: Seneca. Epistola 6. La vera amicizia.   Aliquid gaudeo discere ut doceam , gioisco nell’imparare qualche cosa per insegnarla (…)     n...

Magna scilicet laus est si homo mansuetus homini est – Seneca, Epistulae, 95

 

49. Quae causa est dis bene faciendi? natura. Errat si quis illos putat nocere nolle: non possunt.

«49. Che motivo hanno gli dèi di fare del bene? La natura. Erra chi pensa che quelli non vogliano nuocere: non possono».

51. Magna scilicet laus est si homo mansuetus homini est.

«51. È davvero un grande merito se l’uomo è mite con l’uomo».

52. Natura nos cognatos edidit… Illa aequum iustumque composuit; ex illius constitutione miserius est nocere quam laedi; ex illius imperio paratae sint iuvandis manus.

«52. La natura ci ha messi al mondo fratelli… Quella ha organizzato equità e giustizia; secondo la sua costituzione è fonte di maggiore infelicità nuocere piuttosto che essere offesi; per suo comando le mani siano a disposizione di chi ha bisogno di aiuto».

53. Ille versus et in pectore et in ore sit: “homo sum, humani nihil a me alienum puto”.

«53. Sia nel cuore sia in bocca ci sia quel famoso verso: “homo sum, humani nihil a me alienum puto1”.

54. Aestimemus singula fama remota et quaeramus quid sint, non quid vocentur.

«54. Valutiamo le singole cose rimuovendo i luoghi comuni e ricerchiamo cosa siano, non come siano chiamate».

57. Actio recta non erit nisi recta fuerit voluntas; ab hac enim est actio.

«57. L’azione non sarà retta se non sarà stata retta la volontà; da questa infatti deriva l’azione».

58. nihil liquet incertissimo regimine utentibus, fama. Si vis eadem semper velle, vera oportet velis.

«58. Niente è chiaro per chi usa il più incerto dei criteri, i luoghi comuni. Se vuoi volere sempre le medesime cose, bisogna che tu voglia cose vere».

1 Terenzio, Heautontimorumenos, 77.

Giovanni Ghiselli: Joyce Ulisse. Ottavo episodio I Lestrigoni. Il pr...

Giovanni Ghiselli: Joyce Ulisse. Ottavo episodio I Lestrigoni. Il pr...:   Bloom attraversa la Westmoreland street   e osserva: un negozio di biciclette Rover. Oggi ci sono le corse. Rover cycleshop.Those ra...

Non promittet se talem in perpetuum qui bonus casu est – Seneca, Epistulae, 95

 

31. Quae clam commissa capite luerent, tum quia paludati fecere laudamus. Non pudet homines, mitissimum genus, gaudere sanguine alterno et bella gerere gerendaque liberis tradere, cum inter se etiam mutis ac feris pax sit.

«31. Quei crimini che commessi di nascosto comporterebbero la pena di morte, allora siccome li hanno compiuti uomini in alta uniforme li lodiamo. Non si vergognano gli uomini, una specie mitissima, di godere del sangue reciproco e di fare guerre e di lasciarle in eredità ai figli affinché le continuino, mentre anche gli animali muti e quelli feroci tra loro stanno in pace».

33. nihil turpest cuius placet pretium. Homo, sacra res homini, iam per lusum ac iocum occiditur et quem erudiri ad inferenda accipiendaque vulnera nefas erat, is iam nudus inermisque producitur satisque spectaculi ex homine mors est.

«33. Non è turpe niente di ciò di cui ci va bene il prezzo. L’uomo, cosa sacra per l’uomo, ormai è ucciso per gioco e per scherzo e quello che era un sacrilegio che fosse istruito a infliggere e ricevere ferite, oramai è mandato avanti nudo e disarmato e la morte per mano di un uomo è uno spettacolo che appaga».

36. illis aut hebetibus et obtusis aut mala consuetudine obsessis diu robigo animorum effricanda est.

«36. Da coloro che sono o fiacchi e ottusi o da lungo assediati da una cattiva abitudine bisogna grattare via la ruggine degli animi».

39. Non promittet se talem in perpetuum qui bonus casu est.

«39. Non garantisce che sarà tale per sempre colui che è buono per caso».

43. Eadem aut turpia sunt aut honesta: refert quare aut quemadmodum fiant.

«43. Le medesime cose sono o turpi o oneste: è importante perché o come sono compiute».

45-46. Proponamus oportet finem summi boni ad quem nitamur, ad quem omne factum nostrum dictumque respiciat; veluti navigantibus ad aliquod sidus derigendus est cursus. [46] Vita sine proposito vaga est.

«45-46. Dobbiamo tenere davanti agli occhi il fine del sommo bene, per il quale sforzarci, al quale rivolga lo sguardo ogni nostra azione e parola; allo stesso modo i naviganti devono indirizzare il corso a una qualche stella. 46. La vita senza una scopo è vagabonda».

47. deum colit qui novit.

«47. Onora dio chi lo conosce».

Giovanni Ghiselli: Joyce Ulisse. Ottavo episodio I Lestrigoni. Il pr...

Giovanni Ghiselli: Joyce Ulisse. Ottavo episodio I Lestrigoni. Il pr...:  Bloom passeggia, osserva e ricorda. Anche   lui , come Odisseo, come Omero,   non vuole dimenticare. novstou laqevsqai ( Odissea , IX...

Giovanni Ghiselli: Francesco fi’ di Pietro Bernardone e Jorge Bergog...

Giovanni Ghiselli: Francesco fi’ di Pietro Bernardone e Jorge Bergog...:   Francesco di Assisi, un giovane ricco che ha scelto la povertà, è stato un eretico rispetto al tenore di vita di tanti curiali catto...

mercoledì 23 aprile 2025

Statistiche del blog di oggi 23 aprile

 

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Giovanni Ghiselli: Seneca Epistola 5. Ottima via da seguire è quella ...

Giovanni Ghiselli: Seneca Epistola 5. Ottima via da seguire è quella ...:   Non splendeat toga, ne sordeat quidem   (5, 3) la toga non brilli, neppure sia sudicia Hoc primum philosophia promittit: sensum co...

Chef al posto di intellettuali – Seneca, Epistulae, 95

 

Questi paragrafi sono molto adatti a confutare la moda attuale del cibo che domina i media.


15. cibo… qui postquam coepit non ad tollendam sed ad inritandam famem quaeri et inventae sunt mille conditurae quibus aviditas excitaretur, quae desiderantibus alimenta erant onera sunt plenis.

«15. cibo… che da quando ha cominciato ad essere ricercato non per eliminare ma per stimolare la fame e furono inventati mille condimenti da cui l’avidità è eccitata, quelli che erano alimenti per chi li bramava sono pesi per chi è pieno».

21. Libidine vero ne maribus quidem cedunt: pati natae… adeo perversum commentae genus inpudicitiae viros ineunt… quia feminam exuerant, damnatae sunt morbis virilibus.

«21. In verità quanto a libidine non sono da meno nemmeno rispetto ai maschi: nate per essere passive… avendo escogitato un genere di impudicizia a tal punto perverso, vanno sopra gli uomini… siccome si erano svestite della natura femminile, sono state candannate ai morbi maschili».

23. Nunc vero quam longe processerunt mala valetudinis! Has usuras voluptatium pendimus ultra modum fasque concupitarum. Innumerabiles esse morbos non miraberis: cocos numera. Cessat omne studium et liberalia professi sine ulla frequentia desertis angulis praesident; in rhetorum ac philosophorum scholis solitudo est: at quam celebres culinae sunt, quanta circa nepotum focos <se> iuventus premit!

«23. Ma ora quanti progressi hanno fatto le malattie! Questi sono gli interessi che paghiamo per i piaceri bramati oltre la giusta misura. Non ti meraviglierai che le malattie siano innumerevoli: conta i cuochi. Cessa ogni studio e i professori delle arti liberali presidiano angoli abbandonati senza la minima presenza; nelle scuole dei retori e dei filosofi c’è il deserto: ma come sono affollate le cucine, quanta gioventù si accalca intorno ai focolari dei debosciati!».

Adeo etiam sine ratione ipsa veritas lucet – Seneca, Epistulae, 94

 

42. Aeque praecepta bona, si saepe tecum sint, profutura quam bona exempla.

«42. I buoni precetti, se stanno spesso con te, sono destinati a giovare come i buoni esempi».

43. adeo etiam sine ratione ipsa veritas lucet.

«43. A tal punto anche senza spiegazioni la verità da sola splende1».

46. Duae res plurimum roboris animo dant, fides veri et fiducia: utramque admonitio facit.

«46. Due cose danno il massimo della solidità all’animo, la fede nella verità e la fiducia in sé stessi: entrambe le cose produce l’ammonimento».

47. Pars virtutis disciplina constat, pars exercitatione; et discas oportet et quod didicisti agendo confirmes.

«47. Una parte della virtù è fatta di apprendimento, una parte di esercizio; bisogna sia che impari sia che consolidi ciò che hai imparato».

52. nonne apparet opus esse nobis aliquo advocato qui contra populi praecepta praecipiat?

«52. Non è forse evidente che abbiamo bisogno di un qualche difensore che che ci dia insegnamenti contrari a quelli della massa?3».

54. Nemo errat uni sibi, sed dementiam spargit in proximos accipitque invicem… Dum facit quisque peiorem, factus est; didicit deteriora, dein docuit.

«54. Nessuno erra solo per se stesso, ma semina follia sul prossimo e la riceve a sua volta… Mentre ciascuno rende un altro peggiore, è diventato tale; impara cose più brutte, poi le insegna4».


1 Cfr. Schopenhauer (Parerga e paralipomena II, cap. 23, Sul mestiere dello scrittore, 283):

La maschera più resistente è quella della incomprensibilità [...] e ha raggiunto finalmente il suo vertice con Hegel: e sempre con esito fortunatissimo. Eppure non vi è nulla di più facile che scrivere in modo che nessuno possa capire; come, invece, nulla è più difficile che esprimere pensieri significativi in modo che ognuno debba comprenderli. [L’astrusità è parente dell’assurdità, e ogni volta è infinitamente più probabile che essa celi una mistificazione piuttosto che una qualche intuizione profonda]. La reale presenza dello spirito rende tutti i suddetti artifici superflui [...] 
Scribendi recte sapere est et principium et fons 
La semplicità è sempre stata un indice non soltanto di verità, ma altresì di genialità. Lo stile riceve bellezza dal pensiero[...] Perciò la prima regola, e forse l’unica, del buono stile, è che si abbia qualcosa da dire [...] Una caratteristica di costoro è anche che, se possibile, evitano tutte le espressioni decise, onde, poter, eventualmente, tirare la testa fuori da laccio: per ciò scelgono in tutti i casi l’espressione più astratta [...] una costante paura per tutte le espresssioni definite […] Nel discorso di un uomo d’ingegno troviamo in ogni parola, come in ogni pennellata, un’intenzione specifica; dove manca l’ingegno, tutto è approntato in modo meccanico. * [...] la testa superiore crea ogni frase appositamente per il caso specifico. Se è vero che bisogna possibilmente pensare come uno spirito grande, bisogna invece parlare la stessa lingua che parlano gli altri […] Colui che scrive in modo affettato somiglia a colui che si mette in ghingheri per non essere scambiato e confuso col volgo; è questo un pericolo che il gentlemen non corre mai [...] così lo stile prezioso rivela la testa volgare. Nondimeno è sbagliato voler scrivere proprio come si parla. Piuttosto, ogni stile di scrittura deve rivelare una certa affinità con lo stile lapidario, che è infatti l’antenato di tutti gli stili […] L’oscurità, la mancanza di chiarezza nell’espressione è sempre e dovunque un sintomo assai brutto. Poiché in novantanove casi su cento essa deriva dalla mancanza di chiarezza nel pensiero[...] Quando in una testa sorge un pensiero giusto, cerca subito la chiarezza e la raggiungerà ben presto […] Se uno ha da comunicare una cosa giusta, si sforzerà di parlare in modo non chiaro oppure in modo chiaro? […] Ogni parola superflua agisce proprio in modo contrario al suo scopo [...] Bisogna fare risparmiare al lettore tempo, sforzo e pazienza [...] Qui trova la sua giusta applicazione il detto di Esiodo πλέον ἥμισυ παντὸς. In generale non occorre dire tutto [...] La verità quando è nuda è più bella, e l’impressione che essa fa è tanto più profonda quanto più semplice ne è l’espressione [...] bisogna evitare ogni ornamento retorico non necessario [...] bisogna industriasi per uno stile casto [...] non bisogna mai sacrificare la chiarezza, e tanto meno la grammatica, alla concisione […] L’introduzione della misera grammatica [...] e non, come opinano certi gretti puristi, l’introduzione di singole parole straniere. queste vengono assimilate e arricchiscono la lingua […] I segni di interpunzione tipografici vengono trattati, infatti, come se fossero d’oro […] Non bisogna dunque contrarre parole e forme linguistiche, bensì ingrandire i pensieri: come un convalescente potrà riempire di nuovo i suoi vestiti non facendoli restringere bensì riacquistando la sua prestanza».

 Come amava ripetere Schopenhauer, ἁπλοῦς ὁ μῦθος τῆς ἀληθείας ἔφυ: si tratta di un verso (469) delle Fenicie di Euripide: «il discorso della verità è semplice per natura»; i versi che seguono (470-472) recitano così: κοὐ ποικίλων δεῖ τἄνδιχ’ ἑρμηνευμάτων· / ἔχει γὰρ αὐτὰ καιρόν· ὁ δ’ ἄδικος λόγος / νοσῶν ἐν αὑτῷ φαρμάκων δεῖται σοφῶν, «e ciò che è giusto non ha bisogno di intricate interpretazioni: / ha in sé ciò che è opportuno; il discorso ingiusto invece / avendo il vizio dentro di sé ha bisogno di espedienti sofisticati». Seneca li cita (Epistulae, 49, 12): ut ait ille tragicus, “veritatis simplex oratio est”, ideoque illam implicari non oportet; nec enim quicquam minus convenit quam subdola ista calliditas animis magna conantibus, «come dice quel famoso tragico, “il discorso della verità è semplice”, e quindi non è il caso di complicarlo; e infatti non c’è alcuna cosa che convenga meno di questa furbizia subdola agli animi che si preparano a grandi imprese».

3 Cfr. De vita beata, 1: Decernatur itaque et quo tendamus et qua, non sine perito aliquo cui explorata sint ea in quae procedimus, quoniam quidem non eadem hic quae in ceteris peregrinationibus condicio est: in illis comprensus aliquis limes et interrogati incolae non patiuntur errare at hic tritissima quaeque uia et celeberrima maxime decipit«Si stabilisca dunque sia dove tendere sia per dove, non senza una persona esperta per cui siano stati esplorati quei campi verso cui procediamo, perché certamente qui la condizione non è la medesima che negli altri viaggi: in quelli un sentiero riconosciuto e gli abitanti interrogati non consentono di sbagliare strada, mentre qui tutte le vie più sono battute e frequentate più traggono in inganno».

4 Cfr. De vita beata, 1: Nemo sibi tantummodo errat, sed alieni erroris et causa et auctor est; nocet enim adplicari antecedentibus et, dum unusquisque mauult credere quam iudicare, numquam de uita iudicatur, semper creditur, uersatque nos et praecipitat traditus per manus error. Alienis perimus exemplis: sanabimur, [si] separemur modo a coetu. «Nessuno erra soltanto per sé, ma è causa e fonte dellerrore altrui; nuoce infatti appoggiarsi a coloro che ci precedono e, finché ciascuno preferisce credere piuttosto che giudicare, mai si esprime un giudizio sulla vita, sempre si crede, e ci tormenta e fa precipitare lerrore tramandato di mano in mano. Periamo a causa degli esempi altrui: guariremo, basta che ci separiamo dalla folla».