Io non ho padroni...
12. ‘At ego’ inquis ‘nullum habeo dominum.’ Bona aetas est: forsitan habebis. Nescis qua aetate Hecuba servire coeperit, qua Croesus, qua Darei mater, qua Platon, qua Diogenes?
«12. ‘Ma io’, dici, ‘non ho nessun padrone’. L’età è buona: forse lo avrai. Non sai a quale età Ecuba1 cominciò a fare la schiava, a quale Creso2, a quale la madre di Dario3, a quale Platone4, a quale Diogene5?».
[15] “Quid ergo? omnes servos admovebo mensae meae?” Non magis quam omnes liberos. Erras si existimas me quosdam quasi sordidioris operae reiecturum […] Non ministeriis illos aestimabo sed moribus: sibi quisque dat mores, ministeria casus assignat. Quidam cenent tecum quia digni sunt, quidam ut sint.
«15. “E allora? Ammetterò alla mia mensa tutti chi schiavi?” Non più di tutti gli uomini liberi. Sbagli se pensi che rifiuterò certe persone come in quanto dediti a un lavoro troppo umile […] Io non li valuterò dagli impieghi, ma dai comportamenti: i comportamenti se li dà ciascuno, gli impieghi li assegna il caso. Certi cenino con te siccome ne sono degni, certi affinché lo siano».
[17] “Servus est.” Sed fortasse liber animo. “Servus est.” Hoc illi nocebit? Ostende quis non sit: alius libidini servit, alius avaritiae, alius ambitioni, <omnes spei>, omnes timori. Dabo consularem aniculae servientem, dabo ancillulae divitem, ostendam nobilissimos iuvenes mancipia pantomimorum: nulla servitus turpior est quam voluntaria.
«17. “È uno schiavo”. Ma forse è libero nell’animo. “È uno schiavo” Questo gli nuocerà? Mostra chi non lo è: uno è schiavo della brama, un altro dell’avidità, un altro dell’ambizione, tutti della speranza, tutti della paura. Ti porterò ad esempio un ex console asservito a una vecchietta, un ricco a una ancella, ti mostrerò giovani nobilissimi schiavi di pantomimi. «17. Nessuna schiavitù è più vergognosa di quella volontaria6».
[20] Regum nobis induimus animos; nam illi quoque obliti et suarum virium et imbecillitatis alienae sic excandescunt, sic saeviunt, quasi iniuriam acceperint, a cuius rei periculo illos fortunae suae magnitudo tutissimos praestat. Nec hoc ignorant, sed occasionem nocendi captant querendo; acceperunt iniuriam ut facerent.
[20] Noi abbiamo indossato con l’animo gli abiti dei re; infatti anche quelli dimentichi sia della propria forza sia della debolezza altrui così si infiammano, così infieriscono, quasi avessero subito un oltraggio, dal cui pericolo la grandezza della loro sorte li mantiene del tutto al sicuro. E non ignorano ciò, ma lamentandosi vanno in cerca di un’occasione per nuocere; hanno subito un oltraggio per infliggerlo».
1 La regina di Troia, moglie di Priamo, divenuta bottino di Odisseo dopo aver assistito impotente all’omicidio del nipotino Astianatte. Inutilmente Andromaca, mamma del bimbo, aveva cercato di dissuadere i Greci con queste parole: ὦ βάρβαρ’ ἐξευρόντες Ἕλληνες κακά, / τί τόνδε παῖδα κτείνετ’ οὐδὲν αἴτιον;, «Oh Greci che avete inventato barbare atrocità, / perché uccidete questo bambino che non ha nessuna colpa?» (Euripide, Troiane, vv. 764-765).
2 Ultimo re di Lidia, protagonista di un famoso dialogo con Solone, riportato da Erodoto e ripreso da Plutarco, su chi sia l’uomo più felice. L’oracolo di Delfi gli aveva rivelato che se avesse attaccato la Persia di Ciro avrebbe distrutto un grande regno; attaccò, ma il grande regno era il proprio e fu sconfitto e fatto prigioniero da Ciro.
3 Dario III, re dell’impero persiano, sconfitto da Alessandro Magno.
4 Fu fatto schiavo in occasione di uno dei suoi viaggi in Sicilia; fu riscattato grazie al denaro raccolto dagli amici.
5 Filosofo della scuola cinica, vissuto all’epoca di Alessandro Magno.
6 Di questo genere possiamo considerare la schiavitù del tiranno: Ἔστιν ἄρα τῇ ἀληθείᾳ, κἂν εἰ μή τῳ δοκεῖ, ὁ τῷ ὄντι τύραννος τῷ ὄντι δοῦλος τὰς μεγίστας θωπείας καὶ δουλείας [e] καὶ κόλαξ τῶν πονηροτάτων, καὶ τὰς ἐπιθυμίας οὐδ' ὁπωστιοῦν ἀποπιμπλάς, ἀλλὰ πλείστων ἐπιδεέστατος καὶ πένης τῇ ἀληθείᾳ φαίνεται, ἐάν τις ὅλην ψυχὴν ἐπίστηται θεάσασθαι, καὶ φόβου γέμων διὰ παντὸς τοῦ βίου, σφαδᾳσμῶν τε καὶ ὀδυνῶν πλήρης, εἴπερ τῇ τῆς πόλεως διαθέσει ἧς ἄρχει ἔοικεν. ἔοικεν δέ·, «È dunque in verità, anche se a qualcuno non pare, il vero tiranno un vero schiavo caratterizzato dalle lusinghe e dagli asservimenti più grandi, adulatore dei più malvagi, e incapace di saziare le brame in nessun modo, ma si rivela bisognosissimo di moltissime cose e in verità povero, se uno sa osservare l’anima intera, e zeppo di paura durante tutta la vita, pieno di convulsioni e dolori, se appunto assomiglia alla condizione della città che governa; e vi assomiglia» (Repubblica, IX, 579d-e).
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