giovedì 22 maggio 2025

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martedì 20 maggio 2025

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domenica 18 maggio 2025

martedì 13 maggio 2025

Grandezza e mediocrità – Anonimo Del sublime

 

33

(Grandezza e mediocrità)


L’autore in questo capitolo si chiede se sia [1] κρεῖττον ἐν ποιήμασι καὶ λόγοις μέγεθος ἐν ἐνίοις διημαρτημένον ἢ τὸ σύμμετρον μὲν ἐν τοῖς κατορθώμασιν ὑγιὲς δὲ πάντη καὶ ἀδιάπτωτον, «meglio negli scritti in versi e in prosa una grandezza che ha fallito in alcuni punti o la mediocrità nelle correttezze, sana ovunque e priva di cadute».

La risposta parte da questa considerazione: [2] αἱ ὑπερμεγέθεις φύσεις ἥκιστα καθαραί· ‹τὸ› γὰρ ἐν παντὶ ἀκριβὲς κίνδυνος μικρότητος, «le nature particolarmente grandi sono le meno pure: infatti la precisione in ogni aspetto diventa un rischio di meschinità», perché εἶναί τι χρὴ καὶ παρολιγωρούμενον, «bisogna che ci sia anche una certa trascuratezza»; così come è forse necessario anche τὸ τὰς μὲν ταπεινὰς καὶ μέσας φύσεις διὰ τὸ μηδαμῆ παρακινδυνεύειν μηδὲ ἐφίεσθαι τῶν ἄκρων ἀναμαρτήτους, τὰ δὲ μεγάλα ἐπισφαλῆ δι' αὐτὸ γίνεσθαι τὸ μέγεθος, «il fatto che le nature meschine e mediocri, non correndo mai rischi, senza mai sbagliare, non raggiungano le vette più alte, mentre i grandi talenti siano inclini a scivolare a causa della loro stessa grandezza1».

Segue una riflessione un po’ sconsolata: [3] φύσει πάντα τὰ ἀνθρώπεια ἀπὸ τοῦ χείρονος ἀεὶ μᾶλλον ἐπιγινώσκεται καὶ τῶν μὲν ἁμαρτημάτων ἀνεξάλειπτος ἡ μνήμη παραμένει, τῶν καλῶν δὲ ταχέως ἀπορρεῖ, «per natura tutte le cose umane vengono sempre riconosciute piuttosto nel senso peggiore e il ricordo degli errori permane indelebile, mentre quello delle cose belle scorre via velocemente».

Quindi prosegue con le sue considerazioni su Omero.

[4] παρατεθειμένος δ' οὐκ ὀλίγα καὶ αὐτὸς ἁμαρτήματα καὶ Ὁμήρου καὶ τῶν ἄλλων ὅσοι μέγιστοι, καὶ ἥκιστα τοῖς πταίσμασιν ἀρεσκόμενος, ὅμως δὲ οὐχ ἁμαρτήματα μᾶλλον αὐτὰ ἑκούσια καλῶν ἢ παροράματα δι' ἀμέλειαν εἰκῆ που καὶ ὡς ἔτυχεν ὑπὸ μεγαλοφυΐας ἀνεπιστάτως παρενηνεγμένα, οὐδὲν ἧττον οἶμαι τὰς μείζονας ἀρετάς, εἰ καὶ μὴ ἐν πᾶσι διομαλίζοιεν, τὴν τοῦ πρωτείου ψῆφον μᾶλλον ἀεὶ φέρεσθαι, κἂν εἰ μηδενὸς ἑτέρου, τῆς μεγαλοφροσύνης αὐτῆς ἕνεκα· … ἄπτωτος ὁ Ἀπολλών‹ιος ἐν τοῖς› Ἀργοναύταις ποιητής...

«anche io stesso dopo aver raccolto non pochi errori sia di Omero sia degli altri quanti sono sommi, e non compiacendomi affatto delle loro cadute, tuttavia senza chiamarli errori volontari piuttosto che sviste dovute a noncuranza involontaria e casuale e distrattamente prodotte dalla grandezza del genio, ciò non di meno penso che le qualità maggiori, se anche non si mantengono uguali in tutte le parti, riportino sempre di più il voto più alto, se non altro, per la stessa grandezza di pensiero»… «Apollonio è poeta esente da cadute nelle Argonautiche»...

[5] ἆρ' οὖν Ὅμηρος ἂν μᾶλλον ἢ Ἀπολλώνιος ἐθέλοις γενέσθαι; … καὶ ἐν τραγῳδίᾳ Ἴων ὁ Χῖος ἢ νὴ Δία Σοφοκλῆς; … ὁ δὲ Πίνδαρος καὶ ὁ Σοφοκλῆς ὁτὲ μὲν οἷον πάντα ἐπιφλέγουσι τῇ φορᾷ, σβέννυνται δ' ἀλόγως πολλάκις καὶ πίπτουσιν ἀτυχέστατα.

«Ma vorresti essere Omero piuttosto o Apollonio? e nella tragedia Ione di Chio o Sofocle, per Zeus? Pindaro e Sofocle a volte per così dire infiammano tutto con il loro trasporto, ma spesso si spengono senza ragione e cadono nel modo più infelice».

Interessante la riflessione di Voltaire a proposito dello stile dell’Antico testamento, in particolare a proposito del fiat lux: «Lo stile è qui della massima semplicità, come nel resto dell'opera. Se un oratore, per far conoscere la potenza di Dio, adoperasse questa sola espressione: Egli disse: «Sia fatta la luce, e la luce fu», sarebbe veramente un tratto sublime. Tale è quel passo di un salmo: «Dixit, et facta sunt2». È un tratto che, unico in quel passo e posto per creare una grande immagine, colpisce l'animo e lo rapisce. Ma qui si tratta della narrazione piú semplice. L'autore ebreo non parla della luce diversamente da come parla degli altri oggetti della creazione; ripete egualmente a ogni capitoletto: «e Dio vide che ciò era buono». Tutto è sublime nella creazione, senza dubbio; ma quella della luce non lo è piú di quella dell'erba dei prati: sublime è ciò che si innalza al di sopra del resto, e qui lo stesso stile regna in tutto il capitolo» (Dizionario filosofico. Genesi). Notiamo la medesima concezione di sublime dell’Anonimo, che rifugge la piatta uniformità.

Su quest’ultimo punto si esprime anche Orazio nell’Ars poetica:

31

In uitium ducit culpae fuga, si caret arte.

«evitare un difetto conduce al vizio, se si è privi di arte».

267-9

Vitaui denique culpam,

non laudem merui. Vos exemplaria Graeca

nocturna uersate manu, uersate diurna.

«Alla fine ho evitato la colpa, / però non ho meritato la lode. Voi dovete sfogliare i modelli / greci con mano notturna, sfogliateli con mano diurna».

347

Sunt delicta tamen quibus ignouisse uelimus.

«Ci sono tuttavia delle sviste che vorremmo perdonare»

350-353

nec semper feriet quodcumque minabitur arcus.

Verum ubi plura nitent in carmine, non ego paucis

offendar maculis, quas aut incuria fudit,

aut humana parum cauit natura.

«Né l’arco colpirà sempre qualsiasi bersaglio prenderà di mira. / Però quando in una poesia risplendono parecchi pregi, non io /me la prenderò per poche macchie, che la noncuranza si è lasciata sfuggire, / o a cui l’umana natura ha fatto poca attenzione».

357-361

sic mihi, qui multum cessat, fit Choerilus ille,

quem bis terque bonum cum risu miror; et idem

indignor quandoque bonus dormitat Homerus;

uerum operi longo fas est obrepere somnum.

Vt pictura poesis.

«Così per me, chi è molto sciatto, diventa come il famoso Cherilo, / di cui due o tre volte (soltanto) ammiro la bravura, con una risata; e sempre io / mi dispiaccio tutte le volte che il bravo Omero sonnecchia3; del resto per un’opera lunga è consentito scivolare nel sonno. / La poesia è come la pittura».

367-369

hoc tibi dictum

tolle memor, certis medium et tolerabile rebus

recte concedi.

«Questo che ti dico / tienilo a memoria, in certi attività ciò che è mediocre e passabile / è giusto concederlo».

372-373

mediocribus esse poetis

non homines, non di, non concessere columnae.

«Ai poeti essere mediocri / non gli uomini, non gli dèi, non lo concessero le colonne».

Infine al rapporto tra ingenium e ars così Orazio risponde:

408-411

Natura fieret laudabile carmen an arte,

quaesitum est; ego nec studium sine diuite uena

nec rude quid prosit uideo ingenium; alterius sic 410

altera poscit opem res et coniurat amice.

Si è discusso se la poesia risultasse degna di lode / per natura o tecnica; io non vedo a cosa giovino uno studio / senza un ricca vena né un ingegno rozzo; così una cosa / richiede il contributo dell’altra e congiurano amichevolmente».

1 Cfr. Lucano, Bellum civile, I, 81: in se magna ruunt, «le cose grandi crollano su se stesse», dove però la visione è pessimistica.

2 Salmi, XXXIII. 9.

3 La medesima considerazione si triva nel trattato Del sublime (33, 4): παρατεθειμένος δ' οὐκ ὀλίγα καὶ αὐτὸς ἁμαρτήματα καὶ Ὁμήρου καὶ τῶν ἄλλων ὅσοι μέγιστοι, καὶ ἥκιστα τοῖς πταίσμασιν ἀρεσκόμενος, ὅμως δὲ οὐχ ἁμαρτήματα μᾶλλον αὐτὰ ἑκούσια καλῶν ἢ παροράματα δι' ἀμέλειαν εἰκῆ που καὶ ὡς ἔτυχεν ὑπὸ μεγαλοφυΐας ἀνεπιστάτως παρενηνεγμένα, οὐδὲν ἧττον οἶμαι τὰς μείζονας ἀρετάς, εἰ καὶ μὴ ἐν πᾶσι διομαλίζοιεν, τὴν τοῦ πρωτείου ψῆφον μᾶλλον ἀεὶ φέρεσθαι, κἂν εἰ μηδενὸς ἑτέρου, τῆς μεγαλοφροσύνης αὐτῆς ἕνεκα, «anche io stesso dopo aver raccolto non pochi errori sia di Omero sia degli altri quanti sono sommi, e non compiacendomi affatto delle loro cadute, tuttavia senza chiamarli errori volontari piuttosto che sviste dovute a noncuranza involontaria e casuale e distrattamente prodotte dalla grandezza del genio, ciò non di meno penso che le qualità maggiori, se anche non si mantengono uguali in tutte le parti, riportino sempre di più il voto più alto, se non altro, per la stessa grandezza di pensiero».

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Giovanni Ghiselli: Sopravvivenze di latino e pure di greco nell’in...:   Questo è il link per accedere all'incontro online del 19 maggio 2025 nella Biblioteca Ginzburg di Bologna. Presenterò l’Ulisse d...

Le fonti del sublime e la questione omerica nell’Anonimo Del sublime

 

8

(Le fonti del sublime)

Cinque sono le fonti del sublime (ὕψος); le prime due sono innate: τὸ περὶ τὰς νοήσεις ἁδρεπήβολον, «la grandiosità nei pensieri» e τὸ σφοδρὸν καὶ ἐνθουσιαστικὸν πάθος, «il sentimento forte e entusiasta»; le altre dipendono anche da competenze tecniche che si acquisiscono: ἥ τε ποιὰ τῶν σχημάτων πλάσις, «la creatività di figure di una certa qualità», ἡ γενναία φράσις, «una nobile espressione, ἡ ἐν ἀξιώματι καὶ διάρσει σύνθεσις, «la composizione (delle parole) in uno stile dignitoso ed elevato».


9

La questione omerica»)

In questo capitolo viene definito il concetto di «sublime» in arte, che è connesso alla prima fonte, la più importante, qui chiamata τὸ μεγαλοφυές, «grandezza d’animo/magnanimità»: ebbene il sublime si configura come μεγαλοφροσύνης ἀπήχημα, «eco di un alto sentire». Perciò, continua, «il nudo pensiero, separato dalla voce, in qualche modo è ammirato di per sé, perché è in sé alto sentire ὡς ἡ τοῦ Αἴαντος ἐν Νέκυια σιωπὴ μέγα καὶ παντός ὑψηλότερον λόγου, «come il silenzio di Aiace nella Νέκυια, grande e più sublime di qualsiasi discorso».

L’episodio si trova in Odissea, XI, 542-564.

Ulisse ha evocato i morti consultare Tiresia e incontra una serie di anime tra cui quella di sua madre e quella di Achille. Però ce n'è una che sta in disparte (543-544):

οἴη δ᾽ Αἴαντος ψυχὴ Τελαμωνιάδαο

νόσφιν ἀφεστήκει, κεχολωμένη εἵνεκα νίκης

«solo l'anima di Aiace Telamonio, restava in disparte, in collera per la vittoria», per il fatto che Ulisse era riuscito a sottrargli con l'inganno le armi di Achille, che dovevano andare in premio al più valoroso dopo Achille. In effetti poi Aiace si suicida perché, come dice nell'omonima tragedia di Sofocle ai vv. 479-80:

ἀλλ' ἢ καλῶς ζῆν ἢ καλῶς τεθνηκέναι

τὸν εὐγενῆ χρή. Πάντ' ἀκήκοας λόγον.

«Ma è necessario che il nobile o viva nella bellezza / o nella bellezza muoia. Hai ascoltato tutto il discorso».

Allora il figlio di Laerte racconta ad Alcinoo che (552):

τὸν μὲν ἐγὼν ἐπέεσσι προσηύδων μειλιχίοισιν

«con parole di miele io mi rivolsi a lui».

Ma (563-564):

ὣς ἐφάμην, ὁ δέ μ᾽ οὐδὲν ἀμείβετο, βῆ δὲ μετ᾽ ἄλλας

ψυχὰς εἰς Ἔρεβος νεκύων κατατεθνηώτων

«Come dissi, quello niente rispose, ma se ne andò nell'Erebo con le altre anime dei cadaveri dei morti».

L’episodio è ripreso da Virgilio nel VI canto dell’Eneide quando la incontra agli inferi e le dice: invitus, regina, tuo de litore cessi, «senza volerlo regina mi sono allontanato dalla tua spiaggia» (v. 460). Quindi Enea cerca di interloquire in qualche modo ma Didone illa solo fixos ocuols aversa tenebat, ella teneva gli occhi fissi al suolo, girata dall'altra parte.

Eliot considera il silenzio di Didone il più espressivo rimprovero di tutta la storia della poesia” e non soltanto uno dei brani più commoventi, ma anche uno dei più civili che si possono incontrare in poesia”.

Del resto i silenzi di Aiace e Didone sono molto significativi e in fondo assimilabili alla parola dell'oracolo di Delfi secondo Eraclito, fr. 120 Diano, ὁ ἄναξ, οὗ τὸ μαντεῖον ἐστι τὸ ἐν Δελφοῖς, οὔτε λέγει οὔτε κρύπτει, ἀλλὰ σημαίνει.

Seneca, Epistole, 94

40. est aliquid quod ex magno viro vel tacente proficias.

«40. C’è qualche vantaggio che si può trarre da un grande uomo anche se tace».

L’Anonimo più avanti disquisisce sulla questione omerica, sostenendo la maggiore antichità dell’Iliade, ma con profondità, intelligenza e bellezza (9, 13): τῆς μὲν Ἰλιάδος γραφομένης ἐν ἀκμῇ πνεύματος ὅλον τὸ σωμάτιον δραματικὸν ὑπεστήσατο καὶ ἐναγώνιον, τῆς δὲ Ὀδυσσείας τὸ πλέον διηγηματικόν, ὅπερ ἴδιον γήρως. ὅθεν ἐν τῇ Ὀδυσσείᾳ παρεικάσαι τις ἂν καταδυομένῳ τὸν Ὅμηρον ἡλίῳ, οὗ δίχα τῆς σφοδρότητος παραμένει τὸ μέγεθος, «essendo stata l’Iliade scritta all’apice dell’ispirazione, il corpo del testo risulta pieno di azione e di combattimenti, quanto all’Odissea invece è per lo più narrativa, cosa che appunto è propria della vecchiaia. Quindi nell’Odissea uno potrebbe paragonare Omero al sole che tramonta, del quale pur senza l’intensità permane la grandezza». Poco prima al paragrafo 11 aveva detto: δείκνυσι δ' ὅμως διὰ τῆς Ὀδυσσείας […] ὅτι μεγάλης φύσεως ὑποφερομένης ἤδη ἴδιόν ἐστιν ἐν γήρᾳ τὸ φιλόμυθον, «Dimostra comunque nel corso dell’Odissea […] che proprio di una grande natura che ormai declina è nella vecchiaia l’amore per il racconto»1.

L’erudito dunque si contrappone al sapiente nell’«impiegare una sterilissima sottigliezza in vane questioncine2», comportamento tipico questo, secondo Seneca3, dei Greci:

Graecorum iste morbus fuit quaerere quem numerum Ulixes remigum habuisset, prior scripta esset Ilias an Odyssia, praeterea an eiusdem esset auctoris, alia deinceps huius notae, quae siue contineas nihil tacitam conscientiam iuuant, siue proferas non doctior uidearis sed molestior.

Fu una malattia tipica dei Greci questa di ricercare quale numero di rematori avesse avuto Ulisse, se fosse stata scritta prima l’Iliade o l’Odissea, inoltre se fossero del medesimo autore, e altre cose di questo genere, che se tieni per te non giovano in nulla al semplice fatto di conoscerle, se le presenti ad altri non sembrerai più dotto ma più noioso.

Già Aristotele aveva distinto i due poemi su basi simili (Poetica, 1459b):

τῶν ποιημάτων ἑκάτερον συνέστηκεν ἡ μὲν Ἰλιὰς ἁπλοῦν καὶ παθητικόν, ἡ δὲ Ὀδύσσεια πεπλεγμένον (ἀναγνώρισις γὰρ διόλου) καὶ ἠθική, «ciascuno dei due poemi risulta, l’Iliade, semplice e appassionato, l’Odissea invece, complesso (c’è riconoscimento infatti ovunque) e di caratteri».

1 Interessante un’osservazione di Baudelaire sul dandy, che sfrutta la stessa immagine: «II dandismo fa la sua comparsa specialmente nelle epoche di transizione in cui la democrazia non ha ancora tutto il potere, e l'aristocrazia è solo in parte vacillante e svilita. Nel disordine di tali epoche uomini declassati, disgustati, disoccupati, ma tutti ricchi di una forza naturale, possono concepire il progetto di costituire una nuova specie di aristocrazia, tanto più difficile da distruggere in quanto fondata sulle facoltà più preziose, più indistruttibili, e sui doni celesti che né il lavoro né il danaro possono concedere. Il dandismo l'ultimo bagliore di eroismo nei tempi della decadenza; e il tipo del dandy, incontrato dal viaggiatore nell'America del nord, non intacca in alcun modo la nostra idea; perché niente impedisce di supporre che le tribù che noi chiamiamo selvagge, siano i resti di grandi civiltà scomparse. Il dandismo è un sole al tramonto; come l’astro che declina, è superbo, senza calore e pieno di malinconia» (Il pittore della vita moderna, IX - Il dandy, in Scritti sull’arte, Einaudi, 1981).

2 Hoc est sapientia, hoc est sapere, non disputatiunculis inanibus subtilitatem vanissimam agitare, «questo è la sapienza, questo è essere sapienti [occuparsi cioè ri rafforzare lo spirito], non impiegare una sterilissima sottigliezza in vane questioncine», (Seneca, Epistulae, 117, 25).

3 De brevitate vitae, 13, 2.

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lunedì 12 maggio 2025

I circoli della mente e quelli dell’universo – Platone, Timeo, 47a-c; 90b-d

 

I circoli della mente e quelli dell’universo

Nei due passi che seguono Platone, dopo aver sostenuto che l’universo è una creazione del Demiurgo ed è bello in quanto ne riflette la bontà, prosegue affermando che lo scopo della vista è proprio quello di di osservare la bellezza e la regolarità del cielo; chi poi ha un’attitudine filosofica deve correggere i giri viziosi della propria mente imitando quelli corretti dell’universo. Vediamo i due brani:

47a-c

ὄψις δὴ κατὰ τὸν ἐμὸν λόγον αἰτία τῆς μεγίστης ὠφελίας γέγονεν ἡμῖν, ὅτι τῶν νῦν λόγων περὶ τοῦ παντὸς λεγομένων οὐδεὶς ἄν ποτε ἐρρήθη μήτε ἄστρα μήτε ἥλιον μήτε οὐρανὸν ἰδόντων. νῦν δ' ἡμέρα τε καὶ νὺξ ὀφθεῖσαι μῆνές τε καὶ ἐνιαυτῶν περίοδοι καὶ ἰσημερίαι καὶ τροπαὶ μεμηχάνηνται μὲν ἀριθμόν, χρόνου δὲ ἔννοιαν περί τε τῆς τοῦ παντὸς φύσεως ζήτησιν ἔδοσαν· ἐξ ὧν [b] ἐπορισάμεθα φιλοσοφίας γένος, οὗ μεῖζον ἀγαθὸν οὔτ' ἦλθεν οὔτε ἥξει ποτὲ τῷ θνητῷ γένει δωρηθὲν ἐκ θεῶν. λέγω δὴ τοῦτο ὀμμάτων μέγιστον ἀγαθόν· […] ἀλλὰ τούτου λεγέσθω παρ' ἡμῶν αὕτη ἐπὶ ταῦτα αἰτία, θεὸν ἡμῖν ἀνευρεῖν δωρήσασθαί τε ὄψιν, ἵνα τὰς ἐν οὐρανῷ τοῦ νοῦ κατιδόντες περιόδους χρησαίμεθα ἐπὶ τὰς περιφορὰς τὰς τῆς παρ' ἡμῖν διανοήσεως, συγγενεῖς [c] ἐκείναις οὔσας, ἀταράκτοις τεταραγμένας, ἐκμαθόντες δὲ καὶ λογισμῶν κατὰ φύσιν ὀρθότητος μετασχόντες, μιμούμενοι τὰς τοῦ θεοῦ πάντως ἀπλανεῖς οὔσας, τὰς ἐν ἡμῖν πεπλανημένας καταστησαίμεθα.

«La vista, secondo la mia opinione, è stata causa per noi del più grande vantaggio, poiché dei ragionamenti che ora si fanno sull’universo nessuno sarebbe mai stato fatto senza aver visto le stelle e il sole e il cielo. Ora però il dì e la notte, essendo stati visti, e i mesi e il volgere degli anni e gli equinozi e i solstizi hanno elaborato il numero, e ci hanno dotato del concetto di tempo e della ricerca sulla natura dell’universo; e grazie a queste cose ci siamo procurati il genere della filosofia, della quale bene maggiore né è giunto né mai giungerà alla stirpe mortale, in quanto donato dagli dèi. Dico appunto che questo degli occhi è il bene più grande; […] ma di ciò sia detta da noi questa come causa a tale proposito, che un dio trovò e ci donò la vista, affinché osservando i rivolgimenti della mente nel cielo ce ne servissimo per i circoli del pensiero presso di noi, dato che questi sono connaturati a quelli, irregolari a regolari, poi imparando e partecipando della correttezza dei ragionamenti secondo natura e imitando i rivolgimenti della divinità che non errano in nessun modo, potessimo riordinare quelli che in noi errano».

90b-d

τῷ δὲ περὶ φιλομαθίαν καὶ περὶ τὰς ἀληθεῖς φρονήσεις ἐσπουδακότι καὶ ταῦτα μάλιστα τῶν αὑτοῦ γεγυμνασμένῳ [c] φρονεῖν μὲν ἀθάνατα καὶ θεῖα, ἄνπερ ἀληθείας ἐφάπτηται, πᾶσα ἀνάγκη που, […] ἅτε δὲ ἀεὶ θεραπεύοντα τὸ θεῖον ἔχοντά τε αὐτὸν εὖ κεκοσμημένον τὸν δαίμονα σύνοικον ἑαυτῷ, διαφερόντως εὐδαίμονα εἶναι. θεραπεία δὲ δὴ παντὶ παντὸς μία, τὰς οἰκείας ἑκάστῳ τροφὰς καὶ κινήσεις ἀποδιδόναι. τῷ δ' ἐν ἡμῖν θείῳ συγγενεῖς εἰσιν κινήσεις αἱ τοῦ παντὸς διανοήσεις [d] καὶ περιφοραί· ταύταις δὴ συνεπόμενον ἕκαστον δεῖ, τὰς περὶ τὴν γένεσιν ἐν τῇ κεφαλῇ διεφθαρμένας ἡμῶν περιόδους ἐξορθοῦντα διὰ τὸ καταμανθάνειν τὰς τοῦ παντὸς ἁρμονίας τε καὶ περιφοράς, τῷ κατανοουμένῳ τὸ κατανοοῦν ἐξομοιῶσαι κατὰ τὴν ἀρχαίαν φύσιν.

«Per chi si è dedicato con zelo all’amore dell’apprendimento e ai veri pensieri e più di tutte le proprie attitudini queste ha esercitato, [c] è del tutto necessario in qualche modo che concepisca pensieri immortali e divini, qualora appunto abbia colto la verità, […] e che, curandosi del divino e avendo tenuto egli ben ordinato l’elemento divino che convive con lui, sia straordinariamente felice. E la cura di tutto è per tutti una sola, attribuire a ciascun elemento i nutrimenti e i movimenti che gli sono propri. Connaturati all’elemento divino che è in noi sono i movimenti e i pensieri e i circoli dell’universo: seguendo questi bisogna che ciascuno, correggendo i nostri rivolgimenti corrotti alla nascita nella testa, grazie all’apprendimento delle armonie e dei circoli dell’universo, renda simile, secondo la natura originaria, ciò che pensa a ciò che è pensato».

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La prova cosmologica: se il mondo è bello c’è un artefice buono – Platone, Timeo, 28b-29a

 

La prova cosmologica:
se il mondo è bello c’è un artefice buono


28b-29a

ὁ δὴ πᾶς οὐρανὸς – ἢ κόσμος ἢ καὶ ἄλλο ὅτι ποτὲ ὀνομαζόμενος μάλιστ᾽ ἂν δέχοιτο, τοῦθ᾽ ἡμῖν ὠνομάσθω – σκεπτέον δ' οὖν περὶ αὐτοῦ πρῶτον […] πότερον ἦν ἀεί, γενέσεως ἀρχὴν ἔχων οὐδεμίαν, ἢ γέγονεν, ἀπ' ἀρχῆς τινος ἀρξάμενος. γέγονεν· ὁρατὸς γὰρ ἁπτός τέ ἐστιν καὶ σῶμα ἔχων. […] τῷ δ' αὖ γενομένῳ φαμὲν ὑπ' αἰτίου τινὸς ἀνάγκην εἶναι γενέσθαι. […] [29] [a] […] εἰ μὲν δὴ καλός ἐστιν ὅδε ὁ κόσμος ὅ τε δημιουργὸς ἀγαθός, δῆλον ὡς πρὸς τὸ ἀίδιον ἔβλεπεν· εἰ δὲ ὃ μηδ' εἰπεῖν τινι θέμις, πρὸς γεγονός. παντὶ δὴ σαφὲς ὅτι πρὸς τὸ ἀίδιον· ὁ μὲν γὰρ κάλλιστος τῶν γεγονότων, ὁ δ' ἄριστος τῶν αἰτίων.

«Pertanto tutto il cielo – o cosmo o se c’è un altro nome con cui magari preferirebbe in particolare essere chiamato, chiamiamolo così – bisogna esaminare appunto su questo innanzitutto […] se c’era sempre, non avendo nessun principio di nascita, oppure se è nato, cominciando da un qualche principio. È nato: è visibile infatti e tangibile e ha un corpo. […] E per ciò che è nato diciamo che è necessario che sia nato da una qualche causa. […] [29] [a] […] Se pertanto questo mondo è bello e l’artefice è buono, è chiaro che guardò al modello eterno: se invece no, cosa che nemmeno è lecito dire ad alcuno, a guardato a quello nato. Dunque è chiaro ad ognuno che ha guardato a quello eterno: uno infatti è il più bello dei nati, l’altro la migliore delle cause».

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domenica 11 maggio 2025

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Giovanni Ghiselli: Sopravvivenze di latino e pure di greco nell’in...: Per queste etimologie   cfr. W. Skeat, A conse etymological dictionary of English language, Oxford At The Clarendon Press.     D...

Epicuro – Epistola a Meneceo (sulla felicità), 133-134 – conclusione

 



 [133] Ἐπεὶ τίνα νομίζεις εἶναι κρείττονα τοῦ καὶ περὶ θεῶν ὅσια δοξάζοντος καὶ περὶ θανάτου διὰ παντὸς ἀφόβως ἔχοντος καὶ τὸ τῆς φύσεως ἐπιλελογισμένου τέλος καὶ τὸ μὲν τῶν ἀγαθῶν πέρας ὡς ἔστιν εὐσυμπλήρωτόν τε καὶ εὐπόριστον διαλαμβάνοντος, τὸ δὲ τῶν κακῶν ὡς ἢ χρόνους ἢ πόνους ἔχει βραχεῖς;

«133. Giacché chi consideri migliore di colui che ha opinioni pie sugli dei e intorno alla morte ha sempre una disposizione impavida e che ha considerato il fine della natura e capisce che il limite dei beni è di facile raggiungimento e accesso, mentre quello dei mali ha tempi o sofferenze brevi?»

  τὴν δὲ ὑπό τινων δεσπότιν εἰσαγομένην πάντων ἀγγέλλοντος ..... ‹ὧν ἃ μὲν κατ' ἀνάγκην ἐστίν,› ἃ δὲ ἀπὸ τύχης, ἃ δὲ παρ' ἡμᾶς, διὰ τὸ τὴν μὲν ἀνάγκην ἀνυπεύθυνον εἶναι, τὴν δὲ τύχην ἄστατον ὁρᾶν, τὸ δὲ παρ' ἡμᾶς ἀδέσποτον, ᾧ καὶ τὸ μεμπτὸν καὶ τὸ ἐναντίον παρακολουθεῖν πέφυκεν.

«E proclamando il potere addotto da alcuni su tutte le cose … delle quali alcune sono per necessità, altre per caso, altre ancora dipendono da noi, per il fatto di vedere che la necessità non rende conto, il caso è instabile, ciò che dipende da noi è libero e da ciò può seguire sia biasimo sia il contrario».

  [134] ἐπεὶ κρεῖττον ἦν τῷ περὶ θεῶν μύθῳ κατακολουθεῖν ἢ τῇ τῶν φυσικῶν εἱμαρμένῃ δουλεύειν· ὁ μὲν γὰρ ἐλπίδα παραιτήσεως ὑπογράφει θεῶν διὰ τιμῆς, ἡ δὲ ἀπαραίτητον ἔχει τὴν ἀνάγκην.

«134. Giacché sarebbe stato meglio seguire i miti sugli dei piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici: gli uni infatti presuppongono una speranza di perdono attraverso gli onori, l'altro invece ha necessità implacabile».

  τὴν δὲ τύχην οὔτε θεόν, ὡς οἱ πολλοὶ νομίζουσιν, ὑπολαμβάνων, ‑ οὐθὲν γὰρ ἀτάκτως θεῷ πράττεται ‑ οὔτε ἀβέβαιον αἰτίαν, ‹οὐκ› οἴεται μὲν γὰρ ἀγαθὸν ἢ κακὸν ἐκ ταύτης πρὸς τὸ μακαρίως ζῆν ἀνθρώποις δίδοσθαι, ἀρχὰς μέντοι μεγάλων ἀγαθῶν ἢ κακῶν ὑπὸ ταύτης χορηγεῖσθαι·

«Non reputando il caso né una divinità, come i più pensano – infatti niente è compiuto dal dio senza ordine – né una causa incerta, non ritiene che agli uomini derivino da questo il bene e il male per il vivere beatamente, anche se ritiene che gli inizi di grandi beni o mali siano istituiti da questo».

 [135] κρεῖττον εἶναι νομίζει εὐλογίστως ἀτυχεῖν ἢ ἀλογίστως εὐτυχεῖν· βέλτιον γὰρ ἐν ταῖς πράξεσι τὸ καλῶς κριθὲν ‹μὴ ὀρθωθῆναι ἢ τὸ μὴ καλῶς κριθὲν› ὀρθωθῆναι διὰ ταύτην.

«135. Egli considera che sia meglio essere sfortunati razionalmente che essere fortunati irrazionalmente: infatti nelle azioni è meglio che ciò che è stato ben giudicato non abbia successo piuttosto che ciò che non è stato ben giudicato abbia successo grazie a questo (il caso)».

  Ταῦτα οὖν καὶ τὰ τούτοις συγγενῆ μελέτα πρὸς σεαυτὸν ἡμέρας καὶ νυκτὸς ‹καὶ› πρὸς τὸν ὅμοιον σεαυτῷ, καὶ οὐδέποτε οὔθ' ὕπαρ οὔτ' ὄναρ διαταραχθήσῃ, ζήσῃ δὲ ὡς θεὸς ἐν ἀνθρώποις. οὐθὲν γὰρ ἔοικε θνητῷ ζῴῳ ζῶν ἄνθρωπος ἐν ἀθανάτοις ἀγαθοῖς.

«Dunque medita giorno e notte queste cose e quelle affini a queste tra te e te e con chi è simile a te, e non sarai mai turbato né da sveglio né nel sonno, ma vivrai come un dio tra gli uomini. Infatti in niente assomiglia a un essere mortale un uomo che vive tra beni mortali».

 La lettera completa con traduzione si trova nella sezione «Pagine».


Giovanni Ghiselli: Attenti alle truffe mediatiche!

Giovanni Ghiselli: Attenti alle truffe mediatiche!:   Hanno tentato contro di me una truffa mediatica che voglio denunciare. Tale diffusione del male mi toglie il sonno. Nel campo della ...

giovedì 8 maggio 2025

Simulazione II prova Minghetti – Maturità 2025

 

[3] Nam generari et nasci a principibus fortuitum, nec ultra aestimatur: adoptandi iudicium integrum et, si uelis eligere, consensu monstratur.

«[3] Infatti essere generati e nascere da principi è frutto del caso, e non si fanno valutazioni oltre a ciò: la decisione di adottare è esente da vizi e, se si vuole scegliere, è indicata dal consenso generale.

[4] Sit ante oculos Nero quem longa Caesarum serie tumentem non Vindex cum inermi prouincia aut ego cum una legione, sed sua immanitas, sua luxuria ceruicibus publicis depulerunt; neque erat adhuc damnati principis exemplum.

[4] Sia davanti agli occhi Nerone, che, gonfio d’orgoglio per una lunga serie di Cesari, non Vindice con una provincia disarmata o io con una sola legione, ma la sua mostruosità, la sua lussuria scrollarono dalle spalle dello stato; né fino ad ora c’era l’esempio di un principe condannato.

[5] Nos bello et ab aestimantibus adsciti cum inuidia quamuis egregii erimus.

[5] Noi chiamati al potere dalla guerra e da chi ci stimava convivremo, per quanto straordinari, con l’invidia.

[6] Ne tamen territus fueris si duae legiones in hoc concussi orbis motu nondum quiescunt: ne ipse quidem ad securas res accessi, et audita adoptione desinam uideri senex, quod nunc mihi unum obicitur.

[6] Tuttavia non essere spaventato se due legioni non si sono ancora messe tranquille in questo sconvolgimento del mondo a soqquadro: neppure io stesso mi sono accostato a situazioni senza pericolo, e, una volta diffusa la voce dell’adozione, cesserò di sembrare vecchio, che è l’unica cosa che ora mi viene rinfacciata.

[7] Nero a pessimo quoque semper desiderabitur: mihi ac tibi prouidendum est ne etiam a bonis desideretur.

[7] Nerone sarà sempre rimpianto da tutti i peggiori: da parte mia e tua bisogna provvedere che non sia rimpianto anche dai buoni.

[8] Monere diutius neque temporis huius, et impletum est omne consilium si te bene elegi.

[8] Né ammonire più a lungo è appropriato a questo momento, e ogni ogni piano è adempiuto se ti ho scelto bene.

[9] Vtilissimus idem ac breuissimus bonarum malarumque rerum dilectus est, cogitare quid aut uolueris sub alio principe aut nolueris; neque enim hic, ut gentibus quae regnantur, certa dominorum domus et ceteri serui, sed imperaturus es hominibus qui nec totam seruitutem pati possunt nec totam libertatem».

[9] La più utile e allo stesso tempo più breve distinzione tra il bene e il male è pensare cosa o vorresti o non vorresti sotto un principe diverso; né qui, come invece per popoli retti da un re, c’è una casata certa di dominanti e gli altri sono schiavi, ma sei destinato a comandare su uomini che non possono sopportare né una completa schiavitù né una completa libertà».

Giovanni Ghiselli: Le menzogne diffuse secondo ordinanza.

Giovanni Ghiselli: Le menzogne diffuse secondo ordinanza.: Nel quotidiano “la Repubblica” di oggi c’è un articolo di Michele Serra intitolato “Se le parole Valgono zero” (pagina 12) Personalm...

La storia monumentale – Nietzsche Plutarco Polibio Livio

 

Nietzsche1 distingue tre approcci alla storia: «In tre riguardi al vivente occorre la storia: essa gli occorre in quanto è attivo e ha aspirazioni, in quanto preserva e venera, in quanto soffre e ha bisogno di liberazione. A questi tre rapporti corrispondono tre specie di storia, in quanto sia permesso distinguere una specie di storia monumentale, una specie antiquaria e una specie critica… La storia occorre innanzitutto all’attivo e al potente, a colui che combatte una grande battaglia, che ha bisogno di modelli, maestri e consolatori, e che non può trovarli fra i suoi compagni e nel presente… usa la storia come mezzo contro la rassegnazione… Il suo comandamento suona: ciò che una volta poté esistere oltre e adempiere in modo più bello l’idea «uomo», deve anche esistere in eterno, per poter fare ciò in eterno. Che i grandi momenti della lotta degli individui formino una catena, che attraverso essi si formi lungo i millenni la cresta montuosa dell’umanità, che per me le vette di tali momenti da lungo tempo trascorsi siano ancora vive, chiare e grandi – è questo il pensiero fondamentale di una fede nell’umanità che si esprime nell’esigenza di una storia monumentale

La storia monumentale, dunque, è quella che fornisce gli esempi, i paradigmi. È la visione della storia presente già in Plutarco (circa 50-120 d.C.).

Nella Vita di Emilio (1, 1-2, 4) leggiamo: Ἐμοὶ [μὲν] τῆς τῶν βίων ἅψασθαι μὲν γραφῆς συνέβη δι' ἑτέρους, ἐπιμένειν δὲ καὶ φιλοχωρεῖν ἤδη καὶ δι' ἐμαυτόν, ὥσπερ ἐν ἐσόπτρῳ τῇ ἱστορίᾳ πειρώμενον ἁμῶς γέ πως κοσμεῖν καὶ ἀφομοιοῦν πρὸς τὰς ἐκείνων [2] ἀρετὰς τὸν βίον. οὐδὲν γὰρ ἀλλ' ἢ συνδιαιτήσει καὶ συμβιώσει τὸ γινόμενον ἔοικεν, ὅταν ὥσπερ ἐπιξενούμενον ἕκαστον αὐτῶν ἐν μέρει διὰ τῆς ἱστορίας ὑποδεχόμενοι καὶ παραλαμβάνοντες ἀναθεωρῶμεν

'ὅσσος ἔην οἷός τε' 2,

τὰ κυριώτατα καὶ κάλλιστα πρὸς γνῶσιν ἀπὸ τῶν πράξεων λαμβάνοντες.

[3] φεῦ φεῦ, τί τούτου χάρμα μεῖζον ἂν λάβοις 3

καὶ› πρὸς ἐπανόρθωσιν ἠθῶν ἐνεργότερον;, «A me capitò di metter mano alla scrittura delle vite grazie ad altri, ma di insistervi e di frequentarle volentieri ormai anche grazie a me stesso, in quanto cerco di ordinare e abbellire la vita, servendomi della storia come in uno specchio, in base alle virtù di quei personaggi. Ciò che avviene, infatti, assomiglia proprio a una condivisione di dimora e di vita, quando, attraverso la narrazione, ricevendo e accogliendo per così dire ciascuno a turno come un ospite, consideriamo «quanto grande e quale sia2», scegliendo tra le azioni quelle più importanti e quelle belle per la conoscenza. «Oh, quale gioia più grande di questa potresti ricevere?»3 e più efficace per la correzione4 dei caratteri?».

Il medesimo stato d’animo è descritto da Machiavelli nell’epistola al Vettori: «Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio [19]; e in sull'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro»

Tornando a Plutarco, poco dopo aggiunge: ἡμεῖς δὲ τῇ περὶ τὴν ἱστορίαν διατριβῇ καὶ τῆς γραφῆς τῇ συνηθείᾳ παρασκευάζομεν ἑαυτούς, τὰς τῶν ἀρίστων καὶ δοκιμωτάτων μνήμας ὑποδεχομένους ἀεὶ ταῖς ψυχαῖς, εἴ τι φαῦλον ἢ κακόηθες ἢ ἀγεννὲς αἱ τῶν συνόντων ἐξ ἀνάγκης ὁμιλίαι προσβάλλουσιν, ἐκκρούειν καὶ διωθεῖσθαι, πρὸς τὰ κάλλιστα τῶν [6] παραδειγμάτων ἵλεω καὶ πρᾳεῖαν ἀποστρέφοντες τὴν διάνοιαν, «Noi, invece, grazie allo studio della storia e alla consuetudine con la scrittura, ci disponiamo, nell’accogliere via via negli animi i ricordi degli uomini migliori e più famosi, a respingere e rigettare, se mai i rapporti inevitabili con chi si frequenta arrecano qualcosa di mediocre o cattivo o ignobile, rivolgendo il propizio e mite a quelli più belli tra gli esempi».

Tra i Romani presenta una visione simile Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.), nella praefatio alla sua storia: Hoc illud est praecipue in cognitione rerum salubre ac frugiferum, omnis te exempli documenta in inlustri posita monumento intueri; inde tibi tuaeque rei publicae quod imitere capias, inde foedum inceptu foedum exitu quod vites, «Questa è quella cosa particolarmente salutare e fruttuosa nella conoscenza della storia, che tu osservi gli insegnamenti di ogni esempio posti in luminosi monumenti; di là puoi prendere ciò che tu debba imitare per te e per il tuo stato, di là ciò che tu debba evitare in quanto turpe all’inizio e turpe alla fine».

Interessante anche la posizione di Schopenhauer5, la cui riflessione però risulta più pessimista: “L’influenza dell’esempio, che tuttavia è maggiore di quello della dottrina… Prima di tutto, l’esempio agisce o frenando o stimolando… l’uomo, di regola, ha troppo poca facoltà di giudizio, spesso anche troppo poca conoscenza, per esplorare da sé la sua strada, perciò ricalca volentieri le orme degli altri. Sicché ognuno sarà tanto più aperto all’influenza dell’esempio quanto più gli mancheranno quelle due capacità… l’esempio agisce come mezzo che promuove la comparsa di qualità del carattere, buone e cattive; ma esso non le crea, perciò vale anche qui la sentenza di Seneca: «velle non discitur6»”.


1 Sull’utilità e il danno della storia per la vita, cap. 2.

2 Iliade, XXIV, 630.

3 Sofoclefr. 636 R.

4 Cfr. Polibio, I, 1, 1: μηδεμίαν ἑτοιμοτέραν εἶναι τοῖς ἀνθρώποις διόρθωσιν τῆς τῶν προγεγενημένων πράξεων ἐπιστήμης, «non c’è nessuna correzione più a portata di mano per gli uomini della conoscenza dei fatti accaduti».

5 Parerga e paralipomena IIcap. 8, Sull’etica, 119.

6 Epistulae, 81, 13. Cfr. anche Epistulae, 6.