domenica 28 luglio 2024

Seneca, Epistulae, 12

 4. Debeo hoc suburbano meo, quod mihi senectus mea quocumque adverteram apparuit. Complectamur illam et amemus; plena <est> voluptatis, si illa scias uti.

«4. Devo questo alla mia casa fuori porta, che la mia vecchiaia mi si è manifestata ovunque mi ero rivolto. Abbracciamola e amiamola, è piena di piacere, se sai usarla».

5. quod in se iucundissimum omnis voluptas habet in finem sui differt.

«5. quello che di più gioioso ha in sé ogni piacere, lo rimanda alla sua fine».

6. “Molestum est” inquis “mortem ante oculos habere.” Primum ista tam seni ante oculos debet esse quam iuveni - non enim citamur ex censu -; deinde nemo tam senex est ut improbe unum diem speret. Unus autem dies gradus vitae est.

«6. “È fastidioso”, dici, “avere davanti agli occhi la morte.” Innanzitutto costei deve essere davanti agli occhi tanto per un vecchio quanto per un giovane – non siamo infatti convocati in base all’età – ; poi nessuno è tanto vecchio da sperare un giorno in più a torto. Un giorno infatti è un gradino della vita».


Fine del libro I

Seneca, Epistulae, 11

  Ingenium et ars


  1. Nulla enim sapientia naturalia corporis aut animi vitia ponuntur: quidquid infixum et ingenitum est lenitur arte, non vincitur.

    «1. Da nessuna sapienza sono deposti i difetti naturali del corpo e dello spirito: qualsiasi cosa sia radicata in profondità e congenita è attenuata da una conoscenza tecnica, non vinta».

    10. Elige eum cuius tibi placuit et vita et oratio et ipse animum ante se ferens vultus; illum tibi semper ostende vel custodem vel exemplum. Opus est, inquam, aliquo ad quem mores nostri se ipsi exigant: nisi ad regulam prava non corriges.

    «10. Scegli quello di cui ti siano piaciute la vita e le parole e il volto stesso che presenta davanti a sé l’animo; mostralo sempre a te stesso vuoi come tutore vuoi come esempio. C’è bisogno, dico, di qualcuno su cui i nostri costumi si regolino: non correggerai i difetti se non secondo una regola».

sabato 27 luglio 2024

La storia monumentale

Nietzsche1 distingue tre approcci alla storia: «In tre riguardi al vivente occorre la storia: essa gli occorre in quanto è attivo e ha aspirazioni, in quanto preserva e venera, in quanto soffre e ha bisogno di liberazione. A questi tre rapporti corrispondono tre specie di storia, in quanto sia permesso distinguere una specie di storia monumentale, una specie antiquaria e una specie critica… La storia occorre innanzitutto all’attivo e al potente, a colui che combatte una grande battaglia, che ha bisogno di modelli, maestri e consolatori, e che non può trovarli fra i suoi compagni e nel presente… usa la storia come mezzo contro la rassegnazione… Il suo comandamento suona: ciò che una volta poté esistere oltre e adempiere in modo più bello l’idea «uomo», deve anche esistere in eterno, per poter fare ciò in eterno. Che i grandi momenti della lotta degli individui formino una catena, che attraverso essi si formi lungo i millenni la cresta montuosa dell’umanità, che per me le vette di tali momenti da lungo tempo trascorsi siano ancora vive, chiare e grandi – è questo il pensiero fondamentale di una fede nell’umanità che si esprime nell’esigenza di una storia monumentale

La storia monumentale, dunque, è quella che fornisce gli esempi, i paradigmi. È la visione della storia presente già in Plutarco (circa 50-120 d.C.).

Nella Vita di Emilio (1, 1-2, 4) leggiamo: Ἐμοὶ [μὲν] τῆς τῶν βίων ἅψασθαι μὲν γραφῆς συνέβη δι' ἑτέρους, ἐπιμένειν δὲ καὶ φιλοχωρεῖν ἤδη καὶ δι' ἐμαυτόν, ὥσπερ ἐν ἐσόπτρῳ τῇ ἱστορίᾳ πειρώμενον ἁμῶς γέ πως κοσμεῖν καὶ ἀφομοιοῦν πρὸς τὰς ἐκείνων [2] ἀρετὰς τὸν βίον. οὐδὲν γὰρ ἀλλ' ἢ συνδιαιτήσει καὶ συμβιώσει τὸ γινόμενον ἔοικεν, ὅταν ὥσπερ ἐπιξενούμενον ἕκαστον αὐτῶν ἐν μέρει διὰ τῆς ἱστορίας ὑποδεχόμενοι καὶ παραλαμβάνοντες ἀναθεωρῶμεν

'ὅσσος ἔην οἷός τε' 2,

τὰ κυριώτατα καὶ κάλλιστα πρὸς γνῶσιν ἀπὸ τῶν πράξεων λαμβάνοντες.

[3] φεῦ φεῦ, τί τούτου χάρμα μεῖζον ἂν λάβοις 3

καὶ› πρὸς ἐπανόρθωσιν ἠθῶν ἐνεργότερον;, «A me capitò di metter mano alla scrittura delle vite grazie ad altri, ma di insistervi e di frequentarle volentieri ormai anche grazie a me stesso, in quanto cerco di ordinare e abbellire la vita, servendomi della storia come in uno specchio, in base alle virtù di quei personaggi. Ciò che avviene, infatti, assomiglia proprio a una condivisione di dimora e di vita, quando, attraverso la narrazione, ricevendo e accogliendo per così dire ciascuno a turno come un ospite, consideriamo «quanto grande e quale sia2», scegliendo tra le azioni quelle più importanti e quelle belle per la conoscenza. «Oh, quale gioia più grande di questa potresti ricevere?»3 e più efficace per la correzione4 dei caratteri?».

Il medesimo stato d’animo è descritto da Machiavelli nell’epistola al Vettori: «Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio [19]; e in sull'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui huomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro humanità mi rispondono; e non sento per quattro hore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro»

Tornando a Plutarco, poco dopo aggiunge: ἡμεῖς δὲ τῇ περὶ τὴν ἱστορίαν διατριβῇ καὶ τῆς γραφῆς τῇ συνηθείᾳ παρασκευάζομεν ἑαυτούς, τὰς τῶν ἀρίστων καὶ δοκιμωτάτων μνήμας ὑποδεχομένους ἀεὶ ταῖς ψυχαῖς, εἴ τι φαῦλον ἢ κακόηθες ἢ ἀγεννὲς αἱ τῶν συνόντων ἐξ ἀνάγκης ὁμιλίαι προσβάλλουσιν, ἐκκρούειν καὶ διωθεῖσθαι, πρὸς τὰ κάλλιστα τῶν [6] παραδειγμάτων ἵλεω καὶ πρᾳεῖαν ἀποστρέφοντες τὴν διάνοιαν, «Noi, invece, grazie allo studio della storia e alla consuetudine con la scrittura, ci disponiamo, nell’accogliere via via negli animi i ricordi degli uomini migliori e più famosi, a respingere e rigettare, se mai i rapporti inevitabili con chi si frequenta arrecano qualcosa di mediocre o cattivo o ignobile, rivolgendo il propizio e mite a quelli più belli tra gli esempi».

Tra i Romani presenta una visione simile Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.), nella praefatio alla sua storia: Hoc illud est praecipue in cognitione rerum salubre ac frugiferum, omnis te exempli documenta in inlustri posita monumento intueri; inde tibi tuaeque rei publicae quod imitere capias, inde foedum inceptu foedum exitu quod vites, «Questa è quella cosa particolarmente salutare e fruttuosa nella conoscenza della storia, che tu osservi gli insegnamenti di ogni esempio posti in luminosi monumenti; di là puoi prendere ciò che tu debba imitare per te e per il tuo stato, di là ciò che tu debba evitare in quanto turpe all’inizio e turpe alla fine».

Interessante anche la posizione di Schopenhauer5, la cui riflessione però risulta più pessimista: “L’influenza dell’esempio, che tuttavia è maggiore di quello della dottrina… Prima di tutto, l’esempio agisce o frenando o stimolando… l’uomo, di regola, ha troppo poca facoltà di giudizio, spesso anche troppo poca conoscenza, per esplorare da sé la sua strada, perciò ricalca volentieri le orme degli altri. Sicché ognuno sarà tanto più aperto all’influenza dell’esempio quanto più gli mancheranno quelle due capacità… l’esempio agisce come mezzo che promuove la comparsa di qualità del carattere, buone e cattive; ma esso non le crea, perciò vale anche qui la sentenza di Seneca: «velle non discitur6»”.


1 Sull’utilità e il danno della storia per la vita, cap. 2.

2 Iliade, XXIV, 630.

3 Sofocle, fr. 636 R.

4 Cfr. Polibio, I, 1, 1: μηδεμίαν ἑτοιμοτέραν εἶναι τοῖς ἀνθρώποις διόρθωσιν τῆς τῶν προγεγενημένων πράξεων ἐπιστήμης, «non c’è nessuna correzione più a portata di mano per gli uomini della conoscenza dei fatti accaduti».

5 Parerga e paralipomena II, cap. 8, Sull’etica, 119.

6 Epistulae, 81, 13. Cfr. anche Epistulae, 6.

Seneca, Epistulae, 9

Utile e sapienza

  

6. si vis amari, ama.

  «6. Se vuoi essere amato, ama».

  14. Volo tibi Chrysippi quoque distinctionem indicare. Ait sapientem nulla re egere, et tamen multis illi rebus opus esse: 'contra stulto nulla re opus est - nulla enim re uti scit1 - sed omnibus eget'. Sapienti et manibus et oculis et multis ad cotidianum usum necessariis opus est, eget nulla re; egere enim necessitatis est, nihil necesse sapienti est.

  «14. Voglio indicarti anche la distinzione di Crisippo. Dice che il sapiente non manca di nessuna cosa, e tuttavia ha bisogno di molte cose: “al contrario lo stolto non ha bisogno di nessuna cosa – infatti non sa usare nessuna cosa – però manca di tutte”. Il sapiente ha bisogno sia di mani sia di occhi sia di molte cose necessarie all’uso quotidiano, non manca di nessuna cosa; mancare di qualcosa infatti è proprio della necessità, niente è necessario per il sapiente».”

  15. Summum bonum extrinsecus instrumenta non quaerit; domi colitur, ex se totum est; incipit fortunae esse subiectum si quam partem sui foris quaerit.

  «15. Il sommo bene non richiede strumenti provenienti dall’esterno; si coltiva in casa, dipende tutto da se stesso; comincia a essere sottomesso alla sorte se cerca una qualche parte al di fuori di sé»2.

  22. Non est autem quod verearis ne ad indignum res tanta perveniat: nisi sapienti sua non placent; omnis stultitia laborat fastidio sui.

  «22. Non è però il caso di temere che una cosa così grande giunga a uno indegno: le proprie cose non piacciono se non al sapiente3; ogni stupidità soffre del disgusto di sé».

  1 Anche Vico (Principi di scienza nuova, Libro primo, Sezione II, Degli elementi, CXIV) associa la sapienza all’utilità: «L'equità naturale della ragion umana tutta spiegata è una pratica della sapienza nelle faccende dell'utilità, poiché «sapienza», nell'ampiezza sua, altro non è che scienza di far uso delle cose qual esse hanno in natura».
  Cfr. Senofonte, Economico, 1, 10-11; il problema posto è se le ricchezze siano un bene e Socrate risponde a Critobulo facendo la distinzione tra κεκτῆσθαι (possedere) e χρῆσθαι (usare), per cui ci vuole ἐπιστήμη (scienza, appunto): Ταὐτὰ ἄρα ὄντα τῷ μὲν ἐπισταμένῳ χρῆσθαι αὐτῶν ἑκάστοις χρήματά ἐστι, τῷ δὲ μὴ ἐπισταμένῳ οὐ χρήματα· ὥσπερ γε αὐλοὶ τῷ μὲν ἐπισταμένῳ ἀξίως λόγου αὐλεῖν χρήματά εἰσι, τῷ δὲ μὴ ἐπισταμένῳ οὐδὲν μᾶλλον ἢ ἄχρηστοι λίθοι, εἰ μὴ ἀποδιδοῖτό γε αὐτούς. τοῦτ' ἄρα φαίνεται ἡμῖν, ἀποδιδομένοις μὲν οἱ αὐλοὶ χρήματα, μὴ ἀποδιδομένοις δὲ ἀλλὰ κεκτημένοις οὔ, τοῖς μὴ ἐπισταμένοις αὐτοῖς χρῆσθαι. «le medesime cose che sono beni utili per chi sa fare uso di ciascuno di essi, per chi non ne sa fare uso sono beni inutili; come i flauti per chi sa suonarli in modo degno di considerazione sono beni utili, per chi non lo saa fare invece sono niente più che sassi inutili, a meno che non li venda. Questo dunque ci è chiaro: per coloro che non sanno usarli, i flauti sono beni utili se li vendono, ma se li possiedono senza venderli no».
  Le ricchezze dunque sono utili solo in relazione all’uso che si è in grado di farne, come risulta anche da Tucidide II, 40, 1: πλούτῳ τε ἔργου μᾶλλον καιρῷ ἢ λόγου κόμπῳ χρώμεθα, usiamo la ricchezza più come occasione di agire che come vanteria di parole».

  2 Un concetto simile è applicato da Platone alla memoria nel Fedro, in particolare nel mito di Theuth (675): ὦ τεχνικώτατε Θεύθ, ἄλλος μὲν τεκεῖν δυνατὸς τὰ τέχνης, ἄλλος δὲ κρῖναι τίν᾽ ἔχει μοῖραν βλάβης τε καὶ ὠφελίας τοῖς μέλλουσι χρῆσθαι: καὶ νῦν σύ, πατὴρ ὢν γραμμάτων, δι᾽ εὔνοιαν τοὐναντίον εἶπες ἢ δύναται. τοῦτο γὰρ τῶν μαθόντων λήθην μὲν ἐν ψυχαῖς παρέξει μνήμης ἀμελετησίᾳ, ἅτε διὰ πίστιν γραφῆς ἔξωθεν ὑπ᾽ ἀλλοτρίων τύπων, οὐκ ἔνδοθεν αὐτοὺς ὑφ᾽ αὑτῶν ἀναμιμνῃσκομένους: οὔκουν μνήμης ἀλλὰ ὑπομνήσεως φάρμακον ηὗρες. σοφίας δὲ τοῖς μαθηταῖς δόξαν, οὐκ ἀλήθειαν πορίζεις: πολυήκοοι γάρ σοι γενόμενοι ἄνευ διδαχῆς πολυγνώμονες εἶναι δόξουσιν, ἀγνώμονες ὡς ἐπὶ τὸ πλῆθος ὄντες, καὶ χαλεποὶ συνεῖναι, δοξόσοφοι γεγονότες ἀντὶ σοφῶν. «Oh tecnicissimo Theuth, uno è capace di partorire i ritrovati della tecnica, un altro di giudicare quale parte ha di danno e di vantaggio per quelli che hanno intenzione di farne uso: e tu, sicome sei padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di ciò di cui è capace. Questa cosa infatti procurerà oblio nelle anime di chi l’ha appresa per trascuratezza della memoria, in quanto per fiducia nella scrittura da fuori a partire da modelli estranei, non da dentro essi stessi da se stessi ricordamo: non dunque un farmaco della memoria hai trovato ma del ricordo. Offri ai discepoli apparenza di sapienza, non verità; infatti divenuti tuoi ascoltatori, senza insegnamento crederanno di essere molto sapienti, essendo invece per lo più ignoranti, e difficili da frequentare, essendo divenuti apparentemente sapienti invece che sapienti».

  3 Cioè: solo il sapiente gode delle sue cose, lo stolto al contrario è infastidito da se stesso.

Seneca, Epistulae, 8

Posterorum negotium ago


L’epistola 8 riprende il tema della 7, spostando l’attenzione dal negativo al positivo. Il risultato è la conciliazione della vita ritirata con i principi della filosofia stoica che impongono al sapiente di vivere nel mondo ed essere utile.

1. 'Tu me' inquis 'vitare turbam iubes, secedere et conscientia esse contentum? ubi illa praecepta vestra quae imperant in actu mori?' Quid? ego tibi videor inertiam suadere? In hoc me recondidi et fores clusi, ut prodesse pluribus possem.

«1. “Tu” dici “mi ordini di evitare la folla, ritirami in disparte e di essere contento della mia coscienza? dove sono quei vostri precetti che comandano di morire nell’azione?” Cosa? Ti sembra che io ti induca all’inerzia? Per questo io mi sono nascosto e ho chiuso le porte, per poter giovare a una quantità maggiore di persone».

2. Secessi non tantum ab hominibus sed a rebus, et in primis a meis rebus: posterorum negotium ago.

«2. Mi sono allontanato non tanto dagli uomini ma dagli impegni, e soprattutto dai miei impegni: faccio l’interesse dei posteri».

venerdì 26 luglio 2024

Seneca, Epistulae, 7

Odi profanum vulgus, et arceo
«Odio il volgo profano, e lo tengo lontano»

(Orazio, Odi, III, 1, 1)


[2] Nihil vero tam damnosum bonis moribus quam in aliquo spectaculo desidere; tunc enim per voluptatem facilius vitia subrepunt. [3] Quid me existimas dicere? Avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior? immo vero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui.

«2. Niente però è tanto nocivo per i buoni costumi quanto soffermarsi ad assistere a qualche spettacolo; allora infatti attraverso il piacere i vizi si insinuano più facilmente. 3. Cosa credi che io dica? Torno a casa più avido, più ambizioso, più depravato? Anzi addirittura più crudele e più inumano, poiché sono stato tra gli uomini».

[8] Recede in te ipse quantum potes; cum his versare qui te meliorem facturi sunt, illos admitte quos tu potes facere meliores. Mutuo ista fiunt, et homines dum docent discunt.

«8. Ritirati in te stesso per quanto puoi; frequenta questi che ti renderanno migliore, accogli quelli che tu puoi rendere migliori. Queste cose avvengono con reciproco vantaggio, e gli uomini mentre insegnano imparano». 


Queste frasi di Seneca si possono commentare per contrasto con altre di tono contrario, alcune dello stesso Seneca, raccolte nel post intitolato «Umanesimo».

L’epistola è quella famosa in cui il filosofo di Cordova condanna i circenses.

Umanesimo

Di seguito alcune affermazioni di umanesimo.

Sofocle, Antigone, 523

Οὔτοι συνέχθειν, ἀλλὰ συμφιλεῖν ἔφυν.

«Sono nata per condividere non certo l’odio, ma l’amore».

Qui Antigone risponde alle accuse di Creonte, suo zio e re di Tebe, che sostiene che è giusto onorare Eteocle, che ha combattuto per difendere la patria; Polinice invece, che ha rivolto le armi contro Tebe, deve essere lasciato insepolto preda degli uccelli. Antigone, con il verso citato, si ribella a questa logica dell’odio.


Sofocle, Edipo a Colono, 567-68

ἔξοιδ’ ἀνὴρ ὢν χὤτι τῆς ἐς αὔριον
οὐδὲν πλέον μοι σοῦ μέτεστιν ἡμέρας.

«So di essere un uomo e che il giorno di / domani non appartiene affatto più a me che a te».

In questa tragedia, l’ultima del poeta di Colono, Edipo, ormai vecchio e prossimo alla morte, giunge ad Atene, nel demo di Colono; quando Teseo gli offre umanamente aiuto, Edipo gli chiede perché soccorre l’uomo che si è macchiato delle infamie più vergognose. I versi citati sono la risposta di Teseo.


Seneca, Epistulae,  95

51. Magna scilicet laus est si homo mansuetus homini est.

«51. È davvero un grande merito se l’uomo è mite con l’uomo».

52. Natura nos cognatos edidit… Illa aequum iustumque composuit; ex illius constitutione miserius est nocere quam laedi; ex illius imperio paratae sint iuvandis manus.

«52. La natura ci ha messi al mondo fratelli… Quella ha organizzato equità e giustizia; secondo la sua costituzione è fonte di maggiore infelicità nuocere piuttosto che essere offesi; per suo comando le mani siano a disposizione di chi ha bisogno di aiuto».

53. Ille versus et in pectore et in ore sit: homo sum, humani nihil a me alienum puto1.

«53. Sia nel cuore sia in bocca ci sia quel famoso verso: “homo sum, humani nihil a me alienum puto1.


Menandro, Fr. 761

ὡς χαρίεν ἔστ' ἄνθρωπος, ὅταν ἄνθρωπος ᾖ.

«Che cosa graziosa è l’uomo, quando è veramente uomo».

 

1 Terenzio, Heauton timorumenos, 77: «sono un essere umano, niente di umano considero a me estraneo». Sono le parole che Cremete rivolge al suo vicino di casa affranto, dopo avergli mostrato interesse per la sua sofferenza; Menedemo, il vicino, gli aveva risposto di farsi gli affari suoi: Chreme, tantumne ab re tuast oti tibi / aliena ut cures ea quae nil ad te attinent?, «Cremete, hai tanto tempo libero dai tuoi affari / da preoccuparti di ciò che non ti riguarda affatto?» (vv. 75-76).

giovedì 25 luglio 2024

Seneca, Epistulae, 6

Homines dum docent discunt

4. …in hoc aliquid gaudeo discere, ut doceam; nec me ulla res delectabit, licet sit eximia et salutaris, quam mihi uni sciturus sum. Si cum hac exceptione detur sapientia, ut illam inclusam teneam nec enuntiem, reiciam: nullius boni sine socio iucunda possessio est.

«4. …in questo provo piacere ad imparare qualcosa, nell’insegnarlo; e  non mi diletterà nessuna cosa, sia pure eccezionale e vantaggiosa, che sono destinato a conoscere per me solo. Se fosse concessa con questa condizione, di tenerla chiusa dentro e di non divulgarla, la rifiuterei [1]: di nessun bene è allegro il possesso senza un compagno».

5. Plus tamen tibi et viva vox et convictus quam oratio proderit; in rem praesentem venias oportet, primum quia homines amplius oculis quam auribus credunt, deinde quia longum iter est per praecepta, breve et efficax per exempla.

«5. Tuttavia ti gioverà di più sia la viva voce sia la convivenza che un discorso organizzato; è opportuno che ti presenti di persona, primo perché gli uomini credono di più algli occhi che alle orecchie, poi perché lunga è la strada attraverso i precetti, breve ed efficace attraverso gli esempi [2]».

6. Platon et Aristoteles et omnis in diversum itura sapientium turba plus ex moribus quam ex verbis Socratis traxit;

«6. Platone e Aristotele tutta la massa dei filosofi che sarebbe andata in direzioni opposte trasse di più dai costumi che dalle parole di Socrate».

Sul valore dell’esempio nella storia vedi il post «La storia monumentale».

[1] Si ricorda di queste parole Montaigne (Essais, III, 9 – pag. 1833 ed. Bompiani): «Nessun piacere ha gusto per me senza comunicazione (Nul plaisir n'a goûte pour moi sans communication). Non mi viene una sola bella idea nell'anima senza che mi dispiaccia di averla prodotta da solo, e di non avere a chi offrirla». Poi cita il passo di Seneca e aggiunge un brano di Cicerone (De officiis, I, 43/153): si contigerit ea vita sapienti, ut omnium rerum affluentibus copiis [quamvis] omnia, quae cognitione digna sint, summo otio secum ipse consideret et contempletur, tamen si solitudo tanta sit, ut hominem videre non possit, excedat e vita, «se al sapiente toccasse una vita tale che, affluendo grandi quantità di ogni bene, tutte le cose che sono degne di conoscenza potesse considerarle e contemplarle tra sé e sé in massima pace, ciò nonostante, se la solitudine fosse così grande da non poter vedere anima viva, si ritirerebbe dalla vita». Della frase di Montaigne si ricorda infine Pascal (Pensieri inediti, IX) commentandola così: «segno della stima che l’uomo ha dell’uomo».

[2] Cfr. Schopenhauer (1788-1860), Parerga e paralipomena II, cap. 8, Sull’etica, 119: «L’influenza dell’esempio, che tuttavia è maggiore di quello della dottrina… Prima di tutto, l’esempio agisce o frenando o stimolando… l’uomo, di regola, ha troppo poca facoltà di giudizio, spesso anche troppo poca conoscenza, per esplorare da sé la sua strada, perciò ricalca volentieri le orme degli altri. Sicché ognuno sarà tanto più aperto all’influenza dell’esempio quanto più gli mancheranno quelle due capacità… l’esempio agisce come mezzo che promuove la comparsa di qualità del carattere, buone e cattive; ma esso non le crea, perciò vale anche qui la sentenza di Seneca: “velle non discitur” (Epistulae, 81, 13)».

Seneca, Epistulae, 5

La filosofia richiede frugalità, non tormento


3. Id agamus ut meliorem vitam sequamur quam vulgus, non ut contrariam: alioquin quos emendari volumus fugamus a nobis et avertimus; illud quoque efficimus, ut nihil imitari velint nostri, dum timent ne imitanda sint omnia.

«3. Facciamo in modo di seguire una vita migliore del volgo, non una contraria: altrimenti quelli che vogliamo correggere li facciamo scappare da noi e li allontaniamo; produciamo anche quell’effetto, che non vogliono imitare niente di noi, finché temono che tutti i comportamenti debbano essere imitati».

5. Quemadmodum desiderare delicatas res luxuriae est, ita usitatas et non magno parabiles fugere dementiae. Frugalitatem exigit philosophia, non poenam; potest autem esse non incompta frugalitas.

«5. Come desiderare le raffinatezze è segno di mollezza, così evitare i cibi soliti e procurabili con una spesa non grande lo è di follia. La filosofia richiede frugalità, non tormento; del resto la frugalità può essere non sciatta».

6. 'Quid ergo? eadem faciemus quae ceteri? nihil inter nos et illos intererit?' Plurimum: dissimiles esse nos vulgo sciat qui inspexerit propius; qui domum intraverit nos potius miretur quam supellectilem nostram. Magnus ille est qui fictilibus sic utitur quemadmodum argento, nec ille minor est qui sic argento utitur quemadmodum fictilibus; infirmi animi est pati non posse divitias.

«6. “E quindi? Faremo le medesime cose degli altri? Non ci sarà nessuna differenza tra noi e quelli?” Moltissima: chi ci guardasse più da vicino sappia che noi siamo diversi dal volgo; chi entrerà in casa nostra ammiri noi piuttosto che i nostri mobili. Grande è quello che usa stoviglie di coccio come argenteria, e non è da meno quello che usa l’argenteria come stoviglie di coccio; è segno di un animo debole non  essere in grado di sopportare la ricchezza».


mercoledì 24 luglio 2024

Seneca, Epistulae, 3

Questa epistola esprime alcune considerazioni sul rapporto tra amici; la riflessione più significativa, di carattere generale, si trova alla fine.

6. Cum rerum natura delibera: illa dicet tibi et diem fecisse se et noctem.

«Prendi le decisioni in accordo con la natura: ella ti dirà che ha fatto sia il giorno sia la notte».


Cfr. Epistulae, 16, 7-8: 'si ad naturam vives, numquam eris pauper; si ad opiniones, numquam eris dives'. Exiguum natura desiderat, opinio immensum, «“se vivrai secondo natura, non sarai mai povero, se vivrai secondo l’opinione, non sarai mai ricco”. La natura desidera il poco, l’opinione lo smisurato»;  ed Euripide, Fenicie, 535-538:  κεῖνο κάλλιον, τέκνον, / Ἰσότητα τιμᾶν, ἣ φίλους ἀεὶ φίλοις / πόλεις τε / πόλεσι συμμάχους τε συμμάχοις / συνδεῖ· «quello è più bello, figlio, / onorare l’Uguaglianza, che gli amici sempre agli amici / e le città alle città e gli alleati agli alleati / lega». Si tratta di Giocasta che rivolgendosi al figlio Eteocle cerca di convincerlo a rinunciare alla tirannide, adducendo anche la seguente argomentazione (vv. 546-549): εἶθ' ἥλιος μὲν νύξ τε δουλεύει μέτροις, / σὺ δ' οὐκ ἀνέξηι δωμάτων ἔχων ἴσον; / [...] / τί τὴν τυραννίδ', ἀδικίαν εὐδαίμονα, / τιμᾶις ὑπέρφευ καὶ μέγ' ἥγησαι τόδε; «se anche il sole e la notte si sottomettono alla misura, / tu non accetterai di avere una parte uguale della casa? […] perché la tirannide, un’ingiustizia felice, / onori straordinariamente e pensi che ciò sia grande?».


Mutatio locorum

Quello del cambiamento dei luoghi come falso rimedio al malessere spirituale  è un tema caro a Seneca, che lo declina variamente nelle Epistulae. Possiamo individuarne l’origine in Orazio:


Orazio, Epistulae, I, XI, 22-29

Tu quamcumque deus tibi fortunaverit horam / grata sume manu neu dulcia differ in annum, / ut quocumque loco fueris vixisse libenter / te dicas; nam si ratio et prudentia curas, / non locus effusi late maris arbiter aufert, / caelum non animum mutant qui trans mare currunt. / strenua nos exercet inertia: navibus atque / quadrigis petimus bene vivere. quod petis hic est, / est Vlubris, animus si te non deficit aequus, «Tu qualunque ora un dio ti abbia reso felice / prendila con mano grata e non rimandare i piaceri di anno in anno, / così da poter dire, in qualunque luogo tu sia stato di aver vissuto / volentieri; infatti se ragione e saggezza rimuovono le ansie, / non un luogo che domina un ampia distesa di mare, / mutano il cielo non l’animo quelli che corrono oltre il mare. / Ci fa soffrire uno smanioso torpore: con navi e con / quadrighe cerchiamo di vivere bene. Ciò che cerchi è qui, / a Ulubra, se non ti manca un animo equilibrato».


Di seguito alcuni passi tratti dalle Epistulae di Seneca:

Seneca, Epistulae, 2

[1] Ex iis quae mihi scribis et ex iis quae audio bonam spem de te concipio: non discurris nec locorum mutationibus inquietaris. Aegri animi ista iactatio est: primum argumentum compositae mentis existimo posse consistere et secum morari… [2] Nusquam est qui ubique est. Vitam in peregrinatione exigentibus hoc evenit, ut multa hospitia habeant, nullas amicitias; idem accidat necesse est iis qui nullius se ingenio familiariter applicant sed omnia cursim et properantes transmittunt, «[1] Dalle cose che mi scrivi e da quelle che sento concepisco una buona speranza su di te: non corri qua e là e non sei turbato dal cambiamento dei luoghi. È propria di un animo ammalato questa agitazione: considero come primo segno di una mente ben ordinata essere capaci di stare fermi e indugiare con se stessi… [2] Non è da nessuna parte colui che è dappertutto. A coloro che passano la vita in viaggio capita questo, di avere molti rapporti di ospitalità, nessuna amicizia; la medesima cosa accade necessariamente a coloro che non si applicano intimamente all’ingegno di nessuno ma oltrepassano tutto di corsa e frettolosi».


Seneca, Epistulae, 28

[1] Animum debes mutare, non caelum… [2] Quaeris quare te fuga ista non adiuvet? tecum fugis… [5] Nunc <non> peregrinaris sed erras et ageris ac locum ex loco mutas, cum illud quod quaeris, bene vivere, omni loco positum sit. «[1] Devi cambiare animo, non cielo… [2] Chiedi perché questa fuga non ti aiuta? Fuggi insieme a te stesso… [5] Ora non sei un viaggiatore ma un vagabondo e sei spinto e cambi da un luogo ad un altro, mentre quello che cerchi, vivere bene, si trova in ogni luogo».


Seneca, Epistulae, 69, 1

Mutare te loca et aliunde alio transilire nolo, primum quia tam frequens migratio instabilis animi est: coalescere otio non potest nisi desit circumspicere et errare. Ut animum possis continere, primum corporis tui fugam siste.

«Non voglio che tu muti i luoghi e salti da un posto all’altro, innanzitutto perché uno spostamento tanto frequente è proprio di un animo instabile: non può rinforzarsi nell’ozio se non ha smesso di guardarsi continuamente intorno e errare. Affinché tu possa tenere al suo posto l’animo, interrompi la fuga del tuo corpo».

Diversamente la pensa Ovidio, che raccomanda invece il cambiamento dei luoghi testimoni di un amore ormai concluso:

Ovidio, Remedia amoris, 725-26:

Et loca saepe nocent; fugito loca conscia vestri
Concubitus; causas illa doloris habent.

«Anche i luoghi spesso nuocciono; fuggi i luoghi testimoni del vostro / amplesso; quelli sono motivo di dolore». 

martedì 23 luglio 2024

Seneca, Epistulae, 2

 [1] Ex iis quae mihi scribis et ex iis quae audio bonam spem de te concipio: non discurris nec locorum mutationibus inquietaris. Aegri animi ista iactatio est: primum argumentum compositae mentis existimo posse consistere et secum morari.

«Da quello che mi scrivi e da quello che sento concepisco una buona speranza su di te: non corri qua e là né sei turbato dai mutamenti di luoghi. È propria di un animo ammalato questa agitazione: il primo indizio di una mente ordinata è di poter stare ferma e indugiare con se stessa».

[2] Illud autem vide, ne ista lectio auctorum multorum et omnis generis voluminum habeat aliquid vagum et instabile. Certis ingeniis immorari et innutriri oportet, si velis aliquid trahere quod in animo fideliter sedeat. Nusquam est qui ubique est. Vitam in peregrinatione exigentibus hoc evenit, ut multa hospitia habeant, nullas amicitias; idem accidat necesse est iis qui nullius se ingenio familiariter applicant sed omnia cursim et properantes transmittunt.

«Bada invece a quello, che questa lettura di molti autori e di ogni genere di volumi non abbia qualcosa di incostante e instabile. È opportuno insistere con certi ingegni e nutrirsene, se vuoi trarre qualcosa che risieda stabilmente nell’animo. Non è da nessuna parte chi è dappertutto. A coloro che passano la vita in viaggio capita questo, che hanno molti vincoli di ospitalità, nessuna amicizia; lo stesso accade necessariamente a coloro che non si applicano intimamente all’ingegno di nessuno ma oltrepassano tutto di corsa e in fretta».

[3] Non prodest cibus nec corpori accedit qui statim sumptus emittitur; nihil aeque sanitatem impedit quam remediorum crebra mutatio; non venit vulnus ad cicatricem in quo medicamenta temptantur; non convalescit planta quae saepe transfertur; nihil tam utile est ut in transitu prosit. Distringit librorum multitudo; itaque cum legere non possis quantum habueris, satis est habere quantum legas.

«Non giova né giunge al corpo il cibo che viene rimesso appena assunto; nulla impedisce la salute allo stesso modo del frequente cambiamento dei rimedi; non arriva alla cicatrice la ferita in cui si sperimentano medicamenti; non si rafforza la pianta che spesso è trapiantata; niente è tanto utile da giovare di passaggio. Distrae la moltitudine dei libri; e così non potendo leggere quanto possiedi, è sufficiente possedere quanto puoi leggere».

[4] 'Sed modo' inquis 'hunc librum evolvere volo, modo illum.' Fastidientis stomachi est multa degustare; quae ubi varia sunt et diversa, inquinant non alunt. Probatos itaque semper lege, et si quando ad alios deverti libuerit, ad priores redi. Aliquid cotidie adversus paupertatem, aliquid adversus mortem auxili compara, nec minus adversus ceteras pestes; et cum multa percurreris, unum excerpe quod illo die concoquas.

«“Ma” tu dici “ora voglio sfogliare questo libro, ora quello”. È proprio di uno stomaco nauseato assaggiare molte cose; e quando queste sono varie e opposte tra loro, intossicano, non nutrono. Procurati ogni giorno qualche aiuto contro la povertà, qualche aiuto contro la morte, e non meno con le altre catastrofi; e dopo aver scorso molte cose, estrapolane una che quel giorno tu possa digerire».

[5] Hoc ipse quoque facio; ex pluribus quae legi aliquid apprehendo. Hodiernum hoc est quod apud Epicurum nanctus sum - soleo enim et in aliena castra transire, non tamquam transfuga, sed tamquam explorator -: 'honesta' inquit 'res est laeta paupertas’.

«Io stesso pure faccio questo; dalle parecchie cose che ho letto mi impossesso di una. Questo è quello di oggi che ho attinto da Epicuro – sono solito infatti passare anche nell’accampamento degli altri, non come un fuggiasco, ma come una spia – : “è cosa onorevole” dice “una povertà lieta”».

[6] Illa vero non est paupertas, si laeta est; non qui parum habet, sed qui plus cupit, pauper est. Quid enim refert quantum illi in arca, quantum in horreis iaceat, quantum pascat aut feneret, si alieno imminet, si non acquisita sed acquirenda computat? Quis sit divitiarum modus quaeris? primus habere quod necesse est, proximus quod sat est. Vale.

«Quella però non è povertà, se è lieta; è povero non chi ha poco, ma chi brama di più 1. Che importanza ha infatti quanto egli abbia nel forziere, quanto si trovi nel granaio, quanto bestiame abbia o denaro presti, se è proteso sui beni altrui, se conta non ciò che ha raggiunto ma ciò che deve raggiungere? Tu chiedi quale sia la misura della ricchezza? Primo possedere ciò che è necessario, poi ciò che è sufficiente. Sta’ bene».


1 Si può accostare questo pensiero a quello di La Rochefoucauld, Massime, 48: La félicité est dans le goût et non pas dans les choses; et c'est par avoir ce qu'on aime qu'on est heureux, et non par avoir ce que les autres trouvent aimable, «La felicità sta nel gusto e non nelle cose; ed è per il possesso di ciò che si ama che si è felici, e non per quello di ciò che gli altri trovano amabile».

lunedì 22 luglio 2024

Seneca, Epistulae, 1

Comincio oggi la pubblicazione delle Epistulae di Seneca con una mia traduzione.

La prima è dedicata al valore del tempo.

Di questa e della prossima fornisco testo e traduzione integrali; delle seguenti i passi più significativi.


[1] Ita fac, mi Lucili: vindica te tibi, et tempus quod adhuc aut auferebatur aut subripiebatur aut excidebat collige et serva. Persuade tibi hoc sic esse ut scribo: quaedam tempora eripiuntur nobis, quaedam subducuntur, quaedam effluunt. Turpissima tamen est iactura quae per neglegentiam fit. Et si volueris attendere, magna pars vitae elabitur male agentibus, maxima nihil agentibus, tota vita aliud agentibus.

«Fa' così, mio Lucilio: rivendica te a te stesso, e il tempo che fino ad ora veniva rubato o sottratto o si perdeva raccoglilo e conservalo. Persuaditi che ciò è così come scrivo: certi momenti ci vengono strappati, certi portati via a nostra insaputa, certi scorrono via. Vergognosissima tuttavia è la perdita che avviene per trascuratezza. E se volessi fare attenzione, una gran parte della vita scivola via per chi fa le cose male, la massima per chi non fa niente, la vita intera per chi fa altro».

[2] Quem mihi dabis qui aliquod pretium tempori ponat, qui diem aestimet, qui intellegat se cotidie mori? In hoc enim fallimur, quod mortem prospicimus: magna pars eius iam praeterit; quidquid aetatis retro est mors tenet. Fac ergo, mi Lucili, quod facere te scribis, omnes horas complectere; sic fiet ut minus ex crastino pendeas, si hodierno manum inieceris.

«Chi mi darai che attribuisca un qualche valore al tempo, che stimi preziosa la giornata, che capisca che muore ogni giorno? In questo infatti ci inganniamo, nel fatto che vediamo la morte davanti a noi: gran parte di essa è ormai alle spalle; tutta la parte di vita che è dietro la contiene la morte. Fa' dunque, mio Lucilio, ciò che scrivi che in effetti fai, abbraccia tutte le ore; così accadrà che tu dipenda meno dal domani, se metti le mani sull’oggi».

[3] Dum differtur vita transcurrit. Omnia, Lucili, aliena sunt, tempus tantum nostrum est; in huius rei unius fugacis ac lubricae possessionem natura nos misit, ex qua expellit quicumque vult. Et tanta stultitia mortalium est ut quae minima et vilissima sunt, certe reparabilia, imputari sibi cum impetravere patiantur, nemo se iudicet quicquam debere qui tempus accepit, cum interim hoc unum est quod ne gratus quidem potest reddere.

«Mentre viene rimandata la vita trascorre. Tutte le cose, Lucilio, appartengono ad altri, solo il tempo appartiene a noi; la natura ci ha messo nel possesso di questa unica cosa fugace e scivolosa, possesso da cui ci espelle chiunque lo voglia. E così grande è la stoltezza dei mortali che i beni più piccoli e meno preziosi, certamente recuperabili, lasciano che vengano messi loro in conto, una volta ottenuti, ma non giudica di essere in debito di qualcosa nessuno che ha ricevuto del tempo, quando invece questa è l'unica cosa che neppure una persona grata può restituire».

[4] Interrogabis fortasse quid ego faciam qui tibi ista praecipio. Fatebor ingenue: quod apud luxuriosum sed diligentem evenit, ratio mihi constat impensae. Non possum dicere nihil perdere, sed quid perdam et quare et quemadmodum dicam; causas paupertatis meae reddam. Sed evenit mihi quod plerisque non suo vitio ad inopiam redactis: omnes ignoscunt, nemo succurrit.

«Chiederai forse che cosa faccio io che ti insegno queste cose. Lo confesserò francamente: ciò che capita a uno dedito al lusso ma oculato, mi torna il conto della spesa. Non posso dire di non perdere niente, però potrei dire che cosa perdo e perché e in che modo; posso rendere ragione della mia povertà. Però mi capita ciò che (capita) alla maggior parte di quelli ridotti in povertà non per proprio difetto: tutti li perdonano, nessuno li soccorre».

[5] Quid ergo est? non puto pauperem cui quantulumcumque superest sat est; tu tamen malo serves tua, et bono tempore incipies. Nam ut visum est maioribus nostris, 'sera parsimonia in fundo est'; non enim tantum minimum in imo sed pessimum remanet. Vale.

«E dunque? Non considero povero quello per cui è sufficiente ciò che rimane, per quanto sia poco; quanto a te, tuttavia, preferisco che conservi il tuo, e che cominci in tempo utile. Infatti come è sembrato giusto ai nostri antenati, “tardiva è la parsimonia alla fine”; sul fondo infatti non rimane solo la parte minore ma la peggiore. Sta' bene».


alessandro veronesi

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