sabato 31 agosto 2024

Seneca, Epistulae, 29

 

  1. verum… nulli enim nisi audituro dicendum est.

  «1. La verità… infatti a nessuno deve essere detta se non a chi ha intenzione di ascoltare».

  3. Sagittarius non aliquando ferire debet, sed aliquando deerrare; non est ars quae ad effectum casu venit. Sapientia ars est.

  «3. L’arciere deve non colpire nel segno qualche volta, ma smarrirsi qualche volta; non è arte quella che giunge allo scopo per caso. La sapienza è un’arte».

  11. Multo autem ad rem magis pertinet qualis tibi videaris quam aliis; conciliari nisi turpi ratione amor turpium non potest.

  «11. Ma è molto più importante come sembri a te stesso che come sembri agli altri; non ci si può conciliare l’amore delle persone spregevoli se non con sistemi spregevoli».

  12. cum sciam quae via ad istum favorem ferat.

  «12. … dal momento che so quale strada porta a questo favore».

Vico: Repubblica di Platone e feccia di Romolo

 Il titolo mi è stato suggerito da Giambattista Vico, Scienza nuova, Libro primo, sez, II, Degli elementi, Degnità VI:

 «La filosofia considera l'uomo quale dev'essere, e sì non può fruttare ch'a pochissimi, che vogliono vivere nella repubblica di Platone, non rovesciarsi nella feccia di Romolo».

 L’immagine è usata dal filosofo napoletano per contrapporre alla realtà immaginata quella concreta. L’espressione risale a Cicerone, Epistulae ad Atticum, II, 1, 8:

 nam Catonem nostrum non tu amas plus quam ego; sed tamen ille optimo animo utens et summa fide nocet interdum rei publicae; dicit enim tamquam in Platonis πολιτείᾳ, non tamquam in Romuli faece sententiam.

 «infatti il nostro Catone non lo ami più tu che io; ma pur avendo ottimi propositi, tuttavia in perfetta buona fede nuoce talvolta allo stato; egli infatti esprime il suo pensiero come se fosse nella Repubblica di Platone, non invece nella feccia di Romolo».

 Si tratta della medesima contrapposizione che si trova nel Principe di Machiavelli (XV):

 «Ma sendo l'intenzione mia stata scrivere cosa che sia utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare dreto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere. Perché gli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa, per quello che si doverrebbe fare, impara più presto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene che ruini in fra tanti che non sono buoni. Onde è necessario, volendosi uno principe mantenere, imparare a potere essere non buono e usarlo e non usarlo secondo la necessità».

 Anche Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli (Quel che devo agli antichi, 2) prende posizione contro l’approccio idealistico di Platone, contrapponendogli Tucidide (e Machiavelli):

 «Il mio ristoro, la mia predilezione, la mia terapia contro ogni platonismo è stato in ogni tempo, Tucidide. Tucidide, e forse, Il Principe di Machiavelli mi sono particolarmente affini per l'assoluta volontà di non crearsi delle mistificazioni e di vedere la ragione nella realtà – non nella «ragione», e meno ancora nella «morale»… Contro la deplorevole tendenza ad abbellire i Greci, a idealizzarli, che il giovane «educato nei classici» si porta nella vita come ricompensa del suo ammaestramento liceale, non v’è cura così drastica come Tucidide. Lo si deve rivoltare rigo per rigo e decifrare i suoi nascosti pensieri. In lui la cultura dei sofisti, voglio dire la cultura dei realisti giunge alla sua compiuta espressione: questo movimento inestimabile, in mezzo alla frode morale e ideale delle scuole socratiche dilaganti allora da ogni parte. La filosofia greca come décadance dell'istinto greco: Tucidide come il grande compendio, l'ultima rivelazione di quella forte, severa, dura oggettività che era nell'istinto dei Greci più antichi. Il coraggio di fronte alla realtà distingue infine nature come Tucidide e Platone: Platone è un codardo di fronte alla realtà – conseguentemente si rifugia nell'ideale; Tucidide ha il dominio di di conseguenza tiene sotto il suo dominio anche le cose…».

  Il filosofo tedesco in Aurora (168) aveva poi detto precedentemente:

 «Un modello. Che cosa amo in Tucidide, che cosa fa sì che io lo onori più di Platone? Egli gioisce nella maniera più onnicomprensiva e spregiudicata di tutto quanto è tipico negli uomini e negli eventi, e trova che ad ogni tipo compete un quantum di buona ragione: è questa che egli cerca di scoprire. Egli possiede più di Platone una giustizia pratica: non è un denigratore e un detrattore degli uomini che non gli piacciono, o che nella vita gli hanno fatto del male. Al contrario, egli vede nell'intimo di tutte le cose e di tutte le persone qualcosa di grande e lo vede in aggiunta ad esse, in quanto rivolge lo sguardo soltanto ai tipi; che cosa se ne farebbe, poi, l'intera posterità cui egli consacra la sua opera di ciò che non è tipico? Così in lui, pensatore di uomini, giunge alla sua estrema, splendida fioritura quella cultura della più spregiudicata conoscenza del mondo che aveva avuto in Sofocle il suo poeta, in Pericle il suo uomo di stato, in Ippocrate il suo medico, in Democrito il suo scienziato della natura: quella cultura che merita di essere battezzata col nome dei suoi maestri, i Sofisti».

venerdì 30 agosto 2024

Seneca, Epistulae, 28


Sulla mutatio locorum


 1. Animum debes mutare, non caelum… sequentur te quocumque perveneris vitia.

  «[1] Devi cambiare animo, non cielo».

  2. Hoc idem querenti cuidam Socrates ait, 'quid miraris nihil tibi peregrinationes prodesse, cum te circumferas? premit te eadem causa quae expulit'. Quid terrarum iuvare novitas potest? quid cognitio urbium aut locorum? in irritum cedit ista iactatio. Quaeris quare te fuga ista non adiuvet? tecum fugis.

  «2. A un tale che si lamentava per il medesimo motivo Socrate disse: “Perché ti meravigli che i viaggi non ti procurano nessun giovamento, dato che porti in giro te stesso? Ti opprime la medesima causa che ti ha cacciato via”. A che cosa può giovare la novità delle terre? A cosa la conoscenza di città e luoghi? Questa agitazione approda al nulla. Chiedi perché questa fuga non ti aiuta? Fuggi insieme a te stesso».

  4. Cum hac persuasione vivendum est: 'non sum uni angulo natus, patria mea totus hic mundus est’.

  «4. Bisogna vivere con questa convinzione: “non sono nato per un solo angolo, la mia patria è questo modo intero».

  5. Nunc <non> peregrinaris sed erras et ageris ac locum ex loco mutas, cum illud quod quaeris, bene vivere, omni loco positum sit.

  «5. Ora non sei un viaggiatore ma un vagabondo e sei spinto e cambi da un luogo ad un altro, mentre quello che cerchi, vivere bene, si trova in ogni luogo».

lunedì 26 agosto 2024

Seneca, Epistulae, 24


  1. Est sine dubio stultum, quia quandoque sis futurus miser, esse iam miserum.

  «1. È senza dubbio da stolti, siccome un giorno potrai essere infelice, essere già ora infelice1».

 5. Vide quanto acrior sit ad occupanda pericula virtus quam crudelitas ad irroganda.

  «5. Guarda quanto sia più risoluta la virtù a prendere parte ai pericoli che la crudeltà a infliggerli».

  13. non hominibus tantum sed rebus persona demenda est et reddenda facies sua2.

  «13. Non solo agli uomini ma anche alle cose bisogna levare la maschera e restituire il loro aspetto autentico».

  19. non repente nos in mortem incidere sed minutatim procedere3. 20. Cotidie morimur; cotidie enim demitur aliqua pars vitae, et tunc quoque cum crescimus vita decrescit.

 «19. … (che) noi non cadiamo all’improvviso nella morte ma ci avviciniamo a poco a poco. 20. Ogni giorno moriamo; ogni giorno infatti viene tolta una parte della vita, anche allora quando cresciamo la vita decresce».

 25. Vir fortis ac sapiens non fugere debet e vita sed exire; et ante omnia ille quoque vitetur affectus qui multos occupavit, libido moriendi.

  «25. Un uomo forte e sapiente non deve fuggire dalla vita ma uscirne; e prima di tutto sia evitato anche quel sentimento che si impossessò di molti, la brama di morire».

  26. Multi sunt qui non acerbum iudicent vivere sed supervacuum.

  «26. Ci sono molti che giudicano il vivere non amaro ma superfluo».

1 Cfr. Epistulae, 13, 5: Quaedam ergo nos magis torquent quam debent, quaedam ante torquent quam debent, quaedam torquent cum omnino non debeant; aut augemus dolorem aut praecipimus aut fingimus, «Certe cose dunque ci tormentano più di quanto devono, certe ci tormentano prima di quanto devono, certe altre ci tormentano non dovendo affatto; o accresciamo il dolore o lo anticipiamo o lo inventiamo». Tucidide attribuisce un atteggiamento simile agli Ateniesi nelle parole di Pericle (II, 39, 4) καίτοι εἰ ῥᾳθυμίᾳ μᾶλλον ἢ πόνων μελέτῃ καὶ μὴ μετὰ νόμων τὸ πλέον ἢ τρόπων ἀνδρείας ἐθέλομεν κινδυνεύειν, περιγίγνεται ἡμῖν τοῖς τε μέλλουσιν ἀλγεινοῖς μὴ προκάμνειν, «Per altro se preferiamo rischiare con noncuranza più che con esercizio alle fatiche e non con le leggi più che con il vigore dei caratteri, ce ne deriva di non abbatterci in anticipo per i dolori futuri».

2 Cfr. Lucrezio, De rerum natura, III, vv. 55-58: quo magis in dubiis hominem spectare periclis / convenit / adversisque in rebus noscere qui sit; / nam verae voces tum demum pectore ab imo / eliciuntur [et] eripitur persona manet res., «A maggior ragione è necessario osservare luomo nei dubbiosi / pericoli e conoscere chi sia nelle avversità; infatti allora infine le vere voci dal profondo del cuore / erompono e viene strappata la maschera, rimane lessenza».

3 Cfr. carpit nos illa, non corripit, «ci prende un po’ alla volta quella (la morte), non ci afferra all’improvviso» (Epistulae, 120, 18).

sabato 24 agosto 2024

Seneca, Epistulae, 23

 

9. male vivunt qui semper vivere incipiunt.

«9. vivono male quelli che sempre cominciano a vivere».


11. quidam ante vivere desierunt quam inciperent.

«11. Certi hanno cessato di vivere prima di incominciare».

Seneca, Epistulae, 22

 

C'è qualcosa di più triste che invecchiare, ed è rimanere bambini1


  14. 'nemo non ita exit e vita tamquam modo intraverit’… Nihil me magis in ista voce delectat quam quod exprobratur senibus infantia.

  «14. Non c’è nessuno che non esca dalla vita così come se vi fosse entrato da poco… Niente mi piace di più in questa sentenza del fatto che rimprovera ai vecchi di essere infantili».

  17. vitae <iactura> laboramus… Nemo quam bene vivat sed quam diu curat, cum omnibus possit contingere ut bene vivant, ut diu nulli.

  «17. Soffriamo per lo spreco della vita… Nessuno si preoccupa di vivere bene ma di vivere a lungo, mentre a tutti può toccare di vivere bene, di vivere a lungo a nessuno».

 1 Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, 25 dicembre 1937.


giovedì 22 agosto 2024

Seneca, Epistulae, 20

La filosofia insegna a fare, non a dire


 2. Aliud propositum est declamantibus et assensionem coronae captantibus, aliud his qui iuvenum et otiosorum aures disputatione varia aut volubili detinent: facere docet philosophia, non dicere, et hoc exigit, ut ad legem suam quisque vivat, ne orationi vita dissentiat vel ipsa inter se vita; <ut> unus sit omnium actio[dissentio]num color [sit]. Maximum hoc est et officium sapientiae et indicium, ut verbis opera concordent, ut ipse ubique par sibi idemque sit. 'Quis hoc praestabit?' Pauci, aliqui tamen. Est enim difficile [hoc]; nec hoc dico, sapientem uno semper iturum gradu, sed una via.

 «2. Diverso è l’obiettivo per coloro che declamano in pubblico e vanno a caccia dell’approvazione dell’uditorio, diverso per questi che intrattengono le orecchie dei giovani e degli oziosi con dissertazioni di vario tipo e scorrevoli: la filosofia insegna a fare, non a dire1, e questo esige, che ciascuno viva secondo la sua legge, che la vita non sia in disaccordo con la parola o la vita stessa con se stessa; che uno solo sia il colore di tutte le nostre azioni. Questo è il più importante dovere e segno della sapienza, che le azioni concordino con le parole, che uno sia ovunque pari e identico a se stesso. “Chi assicurerà ciò?” Pochi, tuttavia alcuni. Non è facile in effetti; e non dico questo, che il sapiente andrà sempre dello stesso passo, ma per la stessa via».

  5. quid est sapientia? semper idem velle atque idem nolle. Licet illam exceptiunculam non adicias, ut rectum sit quod velis; non potest enim cuiquam idem semper placere nisi rectum. [6] Nesciunt ergo homines quid velint nisi illo momento quo volunt; in totum nulli velle aut nolle decretum est; variatur cotidie iudicium et in contrarium vertitur ac plerisque agitur vita per lusum.

  «5. Che cos’è la sapienza? sempre volere la medesima cosa e non volere la medesima cosa. Si può non aggiungere quella piccola eccezione, che sia giusto ciò che vuoi; infatti non può piacere sempre la medesima cosa a qualcuno se non è giusto. 6. Gli uomini dunque non sanno cosa vogliono se non in quel momento in cui lo vogliono2; per nessuno è stabilito una volta per tutte volere o non volere; cambia ogni giorno il giudizio e si volge al contrario e per i più la vita si svolge per gioco».

  13. Nemo nascitur dives; quisquis exit in lucem iussus est lacte et panno esse contentus: ab his initiis nos regna non capiunt.

  «13. Nessuno nasce ricco; chiunque esce alla luce è obbligato ad accontentarsi del latte e di un panno: eppure partiti da questi inizi non ci bastano i regni».


  1 Cfr. Epistulae, 16, 3: Non est philosophia populare artificium nec ostentationi paratum; non in verbis sed in rebus est«La filosofia non è una tecnica per conquistare popolarità né è stata messa a punto per l’ostentazione; non è fatta di parole ma di fatti»; 88, 32: sapientia […] res tradit, non verba, «la sapienza… trasmette cose, non parole»; 108, 35: Sic ista ediscamus ut quae fuerint verba sint opera, «Così dobbiamo imparare queste cose, in modo che quelle che sono state parole siano opere».

  2 L’importanza di sapere ciò che si vuole e di essere in grado di ottenerlo è anche il primo presupposto della felicità, come è detto proprio all’inizio del De vita beata (1): Viuere, Gallio frater, omnes beate uolunt, sed ad peruidendum quid sit quod beatam uitam efficiat caligant […] Proponendum est itaque primum quid sit quod adpetamus; tunc circumspiciendum qua contendere illo celerrime possimus, «Tutti, oh fratello Gallione, vogliono vivere felicemente, ma quanto a vedere chiaramente cosa sia ciò che rende felice la vita felice, hanno come la vista ottenebrata […] E così bisogna porsi davanti agli occhi innanzitutto cosa sia ciò che desideriamo; a quel punto bisogna esaminare con cura per quale via possiamo giungere là con la massima velocità».

Seneca, Epistulae, 19

Un’espressione attuale... 


2. In freto viximus, moriamur in portu.

«2. Abbiamo vissuto tra i flutti, almeno moriamo in porto».

martedì 20 agosto 2024

Seneca, Epistulae, 17

La frugalità è una povertà volontaria 


4. Facile est pascere paucos ventres et bene institutos et nihil aliud desiderantes quam impleri: parvo fames constat, magno fastidium. Paupertas contenta est desideriis instantibus satis facere: quid est ergo quare hanc recuses contubernalem cuius mores sanus dives imitatur? [5] Si vis vacare animo, aut pauper sis oportet aut pauperi similis. Non potest studium salutare fieri sine frugalitatis cura; frugalitas autem paupertas voluntaria est.

«4. È facile pascere pochi ventri e per giunta ben istruiti e che non desiderano niente altro che essere saziati; la fame costa poco, la nausea molto. La povertà si accontenta di soddisfare i desideri impellenti: che ragione c’è dunque per cui dovresti rifiutare questa compagna i cui costumi un ricco che sia sano imita? Se vuoi dedicare il tuo tempo allo spirito, o bisogna che tu sia povero o simile a un povero. Non può risultare salutare lo studio senza cura della frugalità; la frugalità del resto è una povertà volontaria».


10. Repraesentat opes sapientia, quas cuicumque fecit supervacuas dedit.

«10. La sapienza produce immediatamente ricchezze, che diede a chiunque le ha rese del tutto superflue».


11. Poteram hoc loco epistulam claudere, nisi te male instituissem. Reges Parthos non potest quisquam salutare sine munere; tibi valedicere non licet gratis.

«11. Avrei potuto chiudere la lettera a questo punto, se non ti avessi educato male. Nessuno può salutare i Parti senza un dono; da te non è consentito congedarsi gratis».


L’ultima frase allude all’abitudine di Seneca di congedarsi con un precetto o una bella frase, che, nel caso di questa epistola come di molte altre, è di Epicuro:


11. multis parasse divitias non finis miseriarum fuit sed mutatio.

«per molti essersi procurati le ricchezze ha significato non la fine della miseria ma un cambiamento».

domenica 18 agosto 2024

Seneca, Epistulae, 16

 La filosofia trasmette cose, non parole


 [1] Quod liquet firmandum et altius cotidiana meditatione figendum est: plus operis est in eo ut proposita custodias quam ut honesta proponas. Perseverandum est et assiduo studio robur addendum, donec bona mens sit quod bona voluntas est.

 «1. Ciò che è chiaro deve essere rafforzato e fissato bene in profondità con una quotidiana meditazione: ci vuole più impegno nel mantenere i propositi che nel proporsi cose oneste1. Bisogna insistere e aggiungere forza d’animo con applicazione assidua, finché la buona mente sia ciò che è la buona volontà».

 [3] Non est philosophia populare artificium nec ostentationi paratum; non in verbis sed in rebus est.

 «3. La filosofia non è una tecnica per conquistare popolarità né è stata messa a punto per l’ostentazione; non è fatta di parole ma di fatti2».

 7. Istuc quoque ab Epicuro dictum est: 'si ad naturam vives, numquam eris pauper; si ad opiniones, numquam eris dives'. [8] Exiguum natura desiderat, opinio immensum.

 «7. Questo pure è stato detto da Epicuro: “se vivrai secondo natura3, non sarai mai povero, se vivrai secondo l’opinione, non sarai mai ricco”. 8. La natura desidera il poco, l’opinione lo smisurato».

 [9] Naturalia desideria finita sunt: ex falsa opinione nascentia ubi desinant non habent; nullus enim terminus falso est. Via eunti aliquid extremum est: error immensus est. Retrahe ergo te a vanis, et cum voles scire quod petes, utrum naturalem habeat an caecam cupiditatem, considera num possit alicubi consistere: si longe progresso semper aliquid longius restat, scito id naturale non esse.

 «9. I desideri naturali sono finiti: quelli che nascono da una falsa opinione non hanno dove avere un termine; infatti non c’è nessun limite per ciò che è falso. Per chi va per una via c’è un punto finale: l’errare è senza limiti. Sottraiti dunque alle cose vane, e quando vorrai sapere ciò che cercherai, se abbia un desiderio naturale o cieco, rifletti se può fermarsi da qualche parte: se una volta che ti sei spinto lontano resta qualcosa di ancora più lontano, sappi che ciò non è naturale4».


 1 L’importanza di sapere ciò che si vuole e di essere in grado di ottenerlo è anche il primo presupposto della felicità, come è detto proprio all’inizio del De vita beata (1): Viuere, Gallio frater, omnes beate uolunt, sed ad peruidendum quid sit quod beatam uitam efficiat caligant […] Proponendum est itaque primum quid sit quod adpetamus; tunc circumspiciendum qua contendere illo celerrime possimus, «Tutti, oh fratello Gallione, vogliono vivere felicemente, ma quanto a vedere chiaramente cosa sia ciò che rende felice la vita felice, hanno come la vista ottenebrata […] E così bisogna porsi davanti agli occhi innanzitutto cosa sia ciò che desideriamo; a quel punto bisogna esaminare con cura per quale via possiamo giungere là con la massima velocità».

2 Cfr. Epistulae, 20, 2: facere docet philosophia, non dicere […] Maximum hoc est et officium sapientiae et indicium, ut verbis opera concordent, «la filosofia insegna a fare, non a dire […] Questo è il più importante dovere e segno della sapienza, che le azioni concordino con le parole»; 88, 32: sapientia […] res tradit, non verba, «la sapienza… trasmette cose, non parole»; 108, 35: Sic ista ediscamus ut quae fuerint verba sint opera, «Così dobbiamo imparare queste cose, in modo che quelle che sono state parole siano opere».

3 Cfr. Epistulae, I, 3, 6: Cum rerum natura delibera: illa dicet tibi et diem fecisse se et noctem, «Prendi le decisioni in accordo con la natura: ella ti dirà che ha fatto sia il giorno sia la notte».

4 Cfr. Epistulae, 2, 6: non qui parum habet, sed qui plus cupit, pauper est, «è povero non chi ha poco, ma chi brama di più».

Seneca, De vita beata, 1

Sulla felicità


  Viuere, Gallio frater, omnes beate uolunt, sed ad peruidendum quid sit quod beatam uitam efficiat caligant; adeoque non est facile consequi beatam uitam ut eo quisque ab ea longius recedat quo ad illam concitatius fertur, si uia lapsus est; quae ubi in contrarium ducit, ipsa uelocitas maioris interualli causa fit.

  «Tutti, oh fratello Gallione, vogliono vivere felicemente, ma quanto a vedere chiaramente cosa sia ciò che rende felice la vita felice, hanno come la vista ottenebrata; e a tal punto non è facile raggiungere la vita felice che tanto più ciascuno si allontana da essa quanto più freneticamente si dirige verso quella, se ha sbagliato strada».

 Proponendum est itaque primum quid sit quod adpetamus; tunc circumspiciendum qua contendere illo celerrime possimus, intellecturi in ipso itinere, si modo rectum erit, quantum cotidie profligetur quantoque propius ab eo simus ad quod nos cupiditas naturalis inpellit.

  E così bisogna porsi davanti agli occhi innanzitutto cosa sia ciò che desideriamo; a quel punto bisogna esaminare con cura per quale via possiamo giungere là con la massima velocità, essendo destinati a capire proprio lungo il percorso, ammesso che sia giusto, quanto ogni giorno progredisca e quanto più vicino siamo a ciò verso cui ci spinge la brama naturale».

  Quam diu quidem passim uagamur non ducem secuti sed fremitum et clamorem dissonum in diuersa uocantium, conteretur uita inter errores breuis, etiam si dies noctesque bonae menti laboremus.

  Di certo finché vaghiamo qua e là seguendo non una guida ma il brusío e le grida dissonanti di quelli che ci chiamano in direzioni opposte, la vita si consumerà e tra gli errori sarà breve, anche se ci sforzassimo giorno e notte per una buona mente».

  Decernatur itaque et quo tendamus et qua, non sine perito aliquo1 cui explorata sint ea in quae procedimus, quoniam quidem non eadem hic quae in ceteris peregrinationibus condicio est: in illis comprensus aliquis limes et interrogati incolae non patiuntur errare at hic tritissima quaeque uia et celeberrima maxime decipit.

 «Si stabilisca dunque sia dove tendere sia per dove, non senza una persona esperta per cui siano stati esplorati quei campi verso cui procediamo, perché certamente qui la condizione non è la medesima che negli altri viaggi: in quelli un sentiero riconosciuto e gli abitanti interrogati non consentono di sbagliare strada, mentre qui tutte le vie più sono battute e frequentate più traggono in inganno».

 Nihil ergo magis praestandum est quam ne pecorum ritu sequamur antecedentium gregem2, pergentes non quo eundum est sed quo itur. Atqui nulla res nos maioribus malis inplicat quam quod ad rumorem componimur, optima rati ea quae magno adsensu recepta sunt3, quodque exempla nobis pro bonis multa sunt nec ad rationem sed ad similitudinem uiuimus. Inde ista tanta coaceruatio aliorum super alios ruentium.

  «Niente dunque dobbiamo assicurarci tanto quanto non seguire al modo delle pecore il gregge di chi ci precede, dirigendoci non dove bisogna andare ma dove si va4. E nessuna cosa ci avviluppa in mali maggiori del fatto di regolarci in base al “si dice”, considerando ottime quelle cose che sono accettate con grande consenso, e del fatto che disponiamo di molti esempi considerati buoni e viviamo non secondo ragione ma per imitazione».

  Quod in strage hominum magna euenit, cum ipse se populus premit - nemo ita cadit ut non et alium in se adtrahat, primique exitio sequentibus sunt - hoc in omni uita accidere uideas licet.

  «Ciò che succede in una grande strage di uomini, quando la folla si schiaccia da sola – nessuno cade così da non trascinare su di sé anche un altro, e i primi sono causa di morte per quelli che seguono – questo puoi verlo accadere in tutti i momenti della vita».

  Nemo sibi tantummodo errat, sed alieni erroris et causa et auctor est; nocet enim adplicari antecedentibus et, dum unusquisque mauult credere quam iudicare, numquam de uita iudicatur, semper creditur, uersatque nos et praecipitat traditus per manus error. Alienis perimus exemplis: sanabimur, [si] separemur modo a coetu.

  «Nessuno erra soltanto per sé, ma è causa e fonte dell’errore altrui; nuoce infatti appoggiarsi a coloro che ci precedono e, finché ciascuno preferisce credere piuttosto che giudicare, mai si esprime un giudizio sulla vita, sempre si crede, e ci tormenta e fa precipitare l’errore tramandato di mano in mano. Periamo a causa degli esempi altrui: guariremo, basta che ci separiamo dalla folla»5.

  Nunc uero stat contra rationem defensor mali sui populus. Itaque id euenit quod in comitiis, in quibus eos factos esse praetores idem qui fecere mirantur, cum se mobilis fauor circumegit: eadem probamus, eadem reprehendimus; hic exitus est omnis iudicii in quo secundum plures datur.

  «Ora però la gente si erge contro la ragione, difendendo il proprio male. E così succede lo stesso che nei comizi, in cui i medesimi che li hanno eletti si tupiscono che quelli siano diventati pretori, quando il volubile favore popolare si è capovolto: approviamo e biasimiamo le medesime cose; questo è il risultato di ogni giudizio in cui si dà un’opinione in base ai più».


  Si può commentare questo brano citando un’epistola (80, 5-7) in cui descrive la condizione di chi ha fallito nella ricerca della felicità, ma si sente costretto a simularla:

 5. Libera te primum metu mortis (illa nobis iugum inponit), deinde metu paupertatis. 6. Si vis scire quam nihil in illa mali sit, compara inter se pauperum et divitum vultus: saepius pauper et fidelius ridet; nulla sollicitudo in alto est; etiam si qua incidit cura, velut nubes levis transit: horum qui felices vocantur hilaritas ficta est aut gravis et suppurata tristitia, eo quidem gravior quia interdum non licet palam esse miseros, sed inter aerumnas cor ipsum exedentes necesse est agere felicem. 7. Saepius hoc exemplo mihi utendum est, nec enim ullo efficacius exprimitur hic humanae vitae mimus, qui nobis partes quas male agamus adsignat.

  «5. Liberati innanzitutto dalla paura della morte (essa ci impone un giogo), poi dalla paura della povertà. 6. Se vuoi sapere quanto non ci sia nulla di male in essa, confronta tra loro i volti dei poveri e dei ricchi: il povero ride più spesso e più schiettamente; nessuna preoccupazione si trova nel profondo; anche se incappa in qualche affanno, passa come una nuvola leggera: l’allegria di questi che sono chiamati felici è recitata oppure è una tristezza opprimente e che rode, e di certo tanto più opprimente poiché non è possibile ogni tanto essere infelici apertamente, ma divorando il cuore stesso tra le pene si è obbligati a fare la parte del felice. 7. Devo usare più spesso questo esempio, e infatti da nessun altro con più efficacia è rappresentato questo mimo della vita umana, che ci assegna i ruoli che interpretiamo male».

  8. omnium istorum personata felicitas est. Contemnes illos si despoliaveris.

  «8. La felicità di tutti costoro è una mascchera6. Li disprezzerai se avrai tolto loro i costumi».

  1 Il riferimento, come prima ducem, è all’importanza di un maestro che ci guidi nei momenti cruciali della vita. Cfr. Epistulae, 94, 52: nonne apparet opus esse nobis aliquo advocato qui contra populi praecepta praecipiat?, «Non è forse evidente che abbiamo bisogno di un qualche difensore che che ci dia insegnamenti contrari a quelli della massa?»; e poco dopo (55): Sit ergo aliquis custos et aurem subinde pervellat abigatque rumores et reclamet populis laudantibus, «Ci sia dunque un guardiano e ci tiri di quando in quando le orecchie e tenga lontani i luoghi comuni e alzi la voce contro le lodi della folla».
  Anche Platone sente questa come un’esigenza fondamentale, in paricolare nel «mito di Er» che si trova alla fine della Repubblica (): ἔνθα δή, ὡς ἔοικεν, ὦ φίλε Γλαύκων, ὁ πᾶς κίνδυνος ἀνθρώπῳ, καὶ διὰ ταῦτα μάλιστα ἐπιμελητέον ὅπως ἕκαστος ἡμῶν τῶν ἄλλων μαθημάτων ἀμελήσας τούτου τοῦ μαθήματος καὶ ζητητὴς καὶ μαθητὴς ἔσται, ἐάν ποθεν οἷός τ᾽ ᾖ μαθεῖν καὶ ἐξευρεῖν τίς αὐτὸν ποιήσει δυνατὸν καὶ ἐπιστήμονα, βίον καὶ χρηστὸν καὶ πονηρὸν διαγιγνώσκοντα, τὸν βελτίω ἐκ τῶν δυνατῶν ἀεὶ πανταχοῦ αἱρεῖσθαι, «Qui, pertanto, oh caro Glaucone, c’è tutto il rischio per un uomo, e per questo bisogna fare la massima attenzione che ciascuno di noi, trascurando gli altri apprendimenti, sia ricercatore e studioso di questo apprendimento, cioè se mai sia in grado di capire e trovare chi lo renderà capace e sapiente, distinguendo una vita buona e cattiva, nel scegliere sempre in ogni circostanza quella migliore tra le possibili». Il contesto è quello delle anime che si accingono a sciegliere la vita futura in cui si reincarneranno; è dunque una raccomandazione alla responsabilità.

  2 La metafora del gregge è utilizzata anche da Platone nel Politico, 276b-c, in relazione al governo della comunità: ΞΕ. Ἐπιμέλεια δέ γε ἀνθρωπίνης συμπάσης κοινωνίας οὐδεμία ἂν ἐθελήσειεν ἑτέρα μᾶλλον καὶ προτέρα τῆς βασιλικῆς [c] φάναι καὶ κατὰ πάντων ἀνθρώπων ἀρχῆς εἶναι τέχνη. «Straniero di Elea. Ma nessuna altra arte può pretendere di definirsi, di più e prima di quella regia, cura di tutta quanta la comunità umana e arte di governo su tutti gli uomini». ΝΕ. ΣΩ. Λέγεις ὀρθῶς. «Socrate il giovane. Dici bene». ΞΕ. Μετὰ ταῦτα δέ γε, ὦ Σώκρατες, ἆρ' ἐννοοῦμεν ὅτι πρὸς αὐτῷ δὴ τῷ τέλει συχνὸν αὖ διημαρτάνετο; «Str. Dopo di che, oh Socrate, non notiamo che proprio alla fine è stato commesso un grosso errore?». ΝΕ. ΣΩ. Τὸ ποῖον; «Socr. g. Quale?» ΞΕ. Τόδε, ὡς ἄρ' εἰ καὶ διενοήθημεν ὅτι μάλιστα τῆς δίποδος ἀγέλης εἶναί τινα θρεπτικὴν τέχνην, οὐδέν τι μᾶλλον ἡμᾶς ἔδει βασιλικὴν αὐτὴν εὐθὺς καὶ πολιτικὴν ὡς ἀποτετελεσμένην προσαγορεύειν. «Str. Questo, che dunque se anche avessimo creduto in massimo grado che esiste una certa arte di allevare il gregge bipede, per nessuna ragione avremmo dovuto chiamarla subito regia e politica, come se fosse perfetta».

  3 Un concetto analogo si trova in Cicerone, Tusc., II, 63: Sed tamen hoc evenit, ut in vulgus insipientium opinio valeat honestatis, cum ipsam videre non possint. Itaque fama et multitudinis iudicio moventur, cum id honestum putent quod a plerisque laudetur. Te autem, si in oculis sis multitudinis, tamen eius iudicio stare nolim nec, quod illa putet, idem putare pulcherrimum. Tuo tibi iudicio est utendum; tibi si recta probanti placebis, tum non modo tete viceris, quod paulo ante praecipiebam, sed omnes et omnia. Hoc igitur tibi propone, amplitudinem animi et quasi quandam exaggerationem quam altissimam animi, quae maxime eminet contemnendis et despiciendis doloribus, unam esse omnium rem pulcherrimam, eoque pulchriorem, si vacet populo neque plausum captans se tamen ipsa delectet. Quin etiam mihi quidem laudabiliora videntur omnia, quae sine venditatione et sine populo teste fiunt, non quo fugiendus sit (omnia enim bene facta in luce se collocari volunt), sed tamen nullum theatrum virtuti conscientia maius est, « «Ma tuttavia accade questo, che nel volgo degli ignoranti ha valore lopinione dellonestà, dato che non sono in grado di vedere lonestà in sé. E così sono influenzati dalle dicerie e dal giudizio della moltitudine, poiché ritengono onesto ciò che dai più è lodato. Quanto a te poi, se fossi davanti agli occhi della moltitudine, tuttavia non vorrei che ti attenessi al suo giudizio, né che considerassi bellissimo la medesima cosa che quella considera tale. Tu devi usare il tuo giudizio; se piacerai a te stesso quando riconosci il giusto, allora non solo avrai vinto te stesso, cosa che insegnavo poco fa, ma tutti e tutto. Questo quindi proponiti, che la grandezza danimo e per così dire una certa elevazione la più alta possibile dellanimo, che soprattutto si innalza nel considerare con indifferenza e disprezzo i dolori, è l’unica cosa più bella di tutte, e tanto più bella, se è libera dalla massa e, pur non cercando lapplauso, tuttavia tra diletto essa stessa da se stessa. Anzi, a me sembrano certamente più lodevoli tutte quelle cose che avvengono senza ostentazione e senza la massa come testimone, non perché sia da fuggire (infatti tutte le cose ben fatte vogliono essere collocate nella luce), ma tuttavia nessun teatro è più grande per la virtù della coscienza».

  4 Nietzsche considera tale disposizione gregaria tipica del vanitoso, che in fondo è uno schiavo (Al di là del bene e del male, Capitolo nono, Che cos’è aristocratico, 261): La vanità fa parte di quelle cose che sono forse le più difficili a capire per un uomo nobilePer lui il problema è quello di immaginarsi degli esseri che cercano di destare una buona opinione di sé, quale essi stessi non hanno e dunque neppure «meritano» – per credere poi essi stessi a questa buona opinione Il vanitoso si rallegra di ogni buona opinione che sente sul suo contoallo stesso modo con cui si dispiace di ogni cattiva opinione: egli infatti si assoggetta a entrambe, si sente assoggettato e esse, per quellantichissimo istinto di soggezione che prorompe in lui. – C’è «lo schiavo» nel sangue del vanitoso».

  5 Cfr. Epistulae, 94, 54: Nemo errat uni sibi, sed dementiam spargit in proximos accipitque invicemDum facit quisque peiorem, factus est; didicit deteriora, dein docuit, «Nessuno erra solo per se stesso, ma semina follia sul prossimo e la riceve a sua voltaMentre ciascuno rende un altro peggiore, è diventato tale; impara cose più brutte, poi le insegna».

  6 Cfr. Schopenhauer, Parerga e paralipomena I, Aforismi sulla saggezza della vita. Capitolo quinto: «La maggior parte degli splendori e delle magnificenze è una pura apparenzatutto ciò è l’insegna, latteggiamento, il geroglifico della gioialo scopo consiste semplicemente nel far credere ad altri che là per lappunto ha preso alloggio la gioia: la vera intenzione è di suscitare tale illusione nel cervello altrui».

sabato 17 agosto 2024

Aggiornamento (Seneca, Epistulae, 9)

 Ho aggiunto una nota a Epistulae, 9, 14.

Volo tibi Chrysippi quoque distinctionem indicare. Ait sapientem nulla re egere, et tamen multis illi rebus opus esse: 'contra stulto nulla re opus est - nulla enim re uti scit1 - sed omnibus eget'. Sapienti et manibus et oculis et multis ad cotidianum usum necessariis opus est, eget nulla re; egere enim necessitatis est, nihil necesse sapienti est.

«Voglio indicarti anche la distinzione di Crisippo. Dice che il sapiente non manca di nessuna cosa, e tuttavia ha bisogno di molte cose: “al contrario lo stolto non ha bisogno di nessuna cosa – infatti non sa usare nessuna cosa – però manca di tutte”. Il sapiente ha bisogno sia di mani sia di occhi sia di molte cose necessarie all’uso quotidiano, non manca di nessuna cosa; mancare di qualcosa infatti è proprio della necessità, niente è necessario per il sapiente».”

  1 Anche Vico (Principi di scienza nuova, Libro primo, Sezione II, Degli elementi, CXIV) associa la sapienza all’utilità: « L'equità naturale della ragion umana tutta spiegata è una pratica della sapienza nelle faccende dell'utilità, poiché «sapienza», nell'ampiezza sua, altro non è che scienza di far uso delle cose qual esse hanno in natura».
  Cfr. Senofonte, Economico, 1, 10-11; il problema posto è se le ricchezze siano un bene e Socrate risponde a Critobulo facendo la distinzione tra κεκτῆσθαι (possedere) e χρῆσθαι (usare), per cui ci vuole ἐπιστήμη (scienza, appunto): Ταὐτὰ ἄρα ὄντα τῷ μὲν ἐπισταμένῳ χρῆσθαι αὐτῶν ἑκάστοις χρήματά ἐστι, τῷ δὲ μὴ ἐπισταμένῳ οὐ χρήματα· ὥσπερ γε αὐλοὶ τῷ μὲν ἐπισταμένῳ ἀξίως λόγου αὐλεῖν χρήματά εἰσι, τῷ δὲ μὴ ἐπισταμένῳ οὐδὲν μᾶλλον ἢ ἄχρηστοι λίθοι, εἰ μὴ ἀποδιδοῖτό γε αὐτούς. τοῦτ' ἄρα φαίνεται ἡμῖν, ἀποδιδομένοις μὲν οἱ αὐλοὶ χρήματα, μὴ ἀποδιδομένοις δὲ ἀλλὰ κεκτημένοις οὔ, τοῖς μὴ ἐπισταμένοις αὐτοῖς χρῆσθαι. «le medesime cose che sono beni utili per chi sa fare uso di ciascuno di essi, per chi non ne sa fare uso sono beni inutili; come i flauti per chi sa suonarli in modo degno di considerazione sono beni utili, per chi non lo saa fare invece sono niente più che sassi inutili, a meno che non li venda. Questo dunque ci è chiaro: per coloro che non sanno usarli, i flauti sono beni utili se li vendono, ma se li possiedono senza venderli no».
  Le ricchezze dunque sono utili solo in relazione all’uso che si è in grado di farne, come risulta anche da Tucidide II, 40, 1: πλούτῳ τε ἔργου μᾶλλον καιρῷ ἢ λόγου κόμπῳ χρώμεθα, usiamo la ricchezza più come occasione di agire che come vanteria di parole».

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