venerdì 21 novembre 2025

Il sapere non è sapienza – Un percorso tra tragedia e filosofia – 3

 

Arriviamo così a definire la σοφία come potenziamento della φύσις, traendo tale espressione ancora da Nietzsche:

La cultura ellenica non divenne un aggregato, grazie a quel responso di Apollo. I greci impararono a poco a poco a organizzare il caos, concentrandosi, secondo linsegnamento delfico, su se stessi, vale a dire sui loro bisogni veri, e lasciando estinguere i bisogni apparenti. Così ripresero possesso di sé; non rimasero a lungo gli eredi sovraccarichi e gli epigoni dellintero Oriente: dopo faticosa lotta con sé stessi, divennero, con linterpretazione pratica di quel responso, coloro che ampliarono e accrebbero il tesoro ereditato, gli anticipatori e i modelli di tutti i popoli civili successivi. È questo il simbolo per ognuno di noi: ognuno deve organizzare il caos dentro di sé, concentrandosi sui suoi bisogni veri [...] ogni ornamento nasconde la cosa ornata1 [...] il concetto della cultura come una nuova e migliorata physis [...] cultura come ununanimità fra vivere, pensare, apparire e volere2.

La cultura come potenziamento della φύσις presuppone dunque lo stretto rapporto con la vita e quindi anche con la natura; in questo senso la critica al sapere che non è sapienza, in quanto non connesso alla realtà, può diventare una critica all’astrazione della metafisica, cioè «l'odio contro il “mondo”, la maledizione delle passioni, la paura della bellezza e della sensualità, un al di là inventato per meglio calunniare l'al di qua»3. A tal proposito Nietzsche individua in Platone il capostipite di tutti i detrattori della vita e individua in Tucidide l’antidoto:

il mio ristoro, la mia predilezione, la mia terapia contro ogni platonismo è stato in ogni tempo, Tucidide. Tucidide, e forse, Il Principe di Machiavelli mi sono particolarmente affini per l'assoluta volontà di non crearsi delle mistificazioni e di vedere la ragione nella realtànon nella «ragione», e meno ancora nella «morale» [...] Il coraggio di fronte alla realtà distingue infine nature come Tucidide e Platone: Platone è un codardo di fronte alla realtà – conseguentemente si rifugia nell'ideale; Tucidide ha il dominio di sédi conseguenza tiene sotto il suo dominio anche le cose4.

Allo stesso tempo però a Platone è riconosciuta da Nietzsche nobiltà di pensiero perché il suo approccio razionale lo distingue dall’«intruglio plebeo»5 ostile alla ragione, quello degli uomini che sono veluti pecora, quae natura prona atque ventri oboedientia finxit, «come le bestie, che la natura ha plasmato prone e obbedienti al ventre»6:

In cinque o sei cervelli comincia forse oggi ad albeggiare il pensiero che anche la fisica sia soltanto una interpretazione del mondo e un ordine imposto ad esso (secondo il nostro modo di vedere! con licenza parlando) e non già una spiegazione del mondo: ma in quanto la fisica si fonda sulla fede nei sensi, essa vale come qualcosa di più e a lungo andare deve acquistare ancora maggior valore, cioè deve valere come spiegazione. Essa ha, dalla sua, la testimonianza degli occhi e delle dita [...] e ciò esercita su un’età dal fondamentale gusto plebeo leffetto di un incantesimo [...] Viceversa, proprio nel recalcitrare allevidenza sensibile consisteva lincantesimo del modo platonico di pensare, il quale era un modo di pensare aristocratico [...] la plebaglia dei sensi, come diceva Platone7.

Nietzsche individua in Socrate l’origine plebea della filosofia platonica, in seguito nobilitata dal discepolo:

V’è qualcosa della morale platonica, che non appartiene propriamente a Platone, ma che pure si trova nella sua filosofia, si potrebbe dire, malgrado Platone stesso: vale a dire il socratismo, per cui egli era veramente troppo aristocratico. «Nessuno vuol fare del male a se stesso, perciò ogni azione cattiva è involontaria. Il malvagio, infatti, cagiona del male a se stesso: non lo farebbe se sapesse che il male è male. Conseguentemente il malvagio è cattivo soltanto per un suo errore: se lo si libera da questo errore, lo si rende necessariamente buono». Questo tipo di conclusione odora di plebaglia, la quale in colui che agisce con malvagità vede soltanto le conseguenze dolorose [...] Platone non ha lesinato i suoi sforzi per interpretare il principio del suo maestro in modo da trovarci dentro qualcosa di raffinato e di aristocratico, soprattutto se stesso8.


1 Cfr. Platone, Repubblica, V, 457a, ἀποδυτέον δὴ ταῖς τῶν φυλάκων γυναιξίν, ἐπείπερ ἀρετὴν ἀντὶ ἱματίων ἀμφιέσονται, «devono spogliarsi pertanto le donne dei guardiani, perché appunto indosseranno virtù al posto di vestiti». Cfr. anche Seneca, Epistulae, 66, 2: Errare mihi visus est qui dixit: «gratior et pulchro veniens e corpore virtus» (Virgilio, Eneide, V, 344). Non enim ullo honestamento eget: ipsa magnum sui decus est et corpus suum consecrat. «Mi sembra che abbia sbagliato Virgilio che disse: ed è più gradita la virtù se viene da un bel corpo. Non ha bisogno infatti di alcun ornamento: essa stessa è da sola ornamento di se stessa e consacra il proprio corpo». La citazione di Seneca è imprecisa: quella corretta dice in corpore.

2 Sull’utilità e il danno della storia per la vita, 10.

3 Nietzsche, La nascita della tragedia, Tentativo di autocritica, 5.

4 Nietzsche, Crepuscolo degli idoli, Quel che devo agli antichi, 2. Cfr. anche Ecce homo, La nascita della tragedia, 3: «La conoscenza, il dire sì alla realtà, è una necessità per il forte, così come lo è per il debole, per ispirazione della debolezza, la viltà e la fuga dalla realtà – l’ideale”».

5 Nietzsche, Così parlo Zarathustra, Parte quarta, Colloquio con i re, 1: «Davvero, è meglio vivere in mezzo a eremiti e caprai che insieme alla nostra plebe dorata falsa imbellettata, - anche se si chiama buona società’, - anche se si chiama nobiltà’ […] Un contadino sano, rozzo, astuto, testardo, tenace rimane, oggi, per me ancora il migliore e il preferito degli uomini: questa è, oggi, la specie più nobile. Il contadino, oggi, è il migliore; e la specie contadina dovrebbe dominare! Ma è il regno della plebe, non mi lascio più ingannare. Plebe, però, vuol dire: intruglio. Intruglio plebeo: lì è tutto mescolato alla rinfusa».

6 Sallustio, Bellum Catilinae, 1.

7 Al di là del bene e del male, Dei pregiudizi dei filosofi, 14. Il passo a cui si riferisce si trova in Leggi, 689a-b: ταύτην τὴν διαφωνίαν λύπης τε καὶ ἡδονῆς πρὸς τὴν κατὰ λόγον δόξαν ἀμαθίαν φημὶ εἶναι τὴν ἐσχάτην, μεγίστην δέ, ὅτι τοῦ πλήθους ἐστὶ τῆς ψυχῆς· [b] τὸ γὰρ λυπούμενον καὶ ἡδόμενον αὐτῆς ὅπερ δῆμός τε καὶ πλῆθος πόλεώς ἐστιν, «questa dissonanza di dolore e piacere in relazione allopinione secondo ragione io la dico ignoranza estrema e grandissima, in quanto è della maggior parte dellanima; infatti la parte che soffre e prova piacere è, di essa, ciò che popolo e massa sono della città».

8 Al di là del bene e del male, Per la storia naturale della morale, 190.


p.s.

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