martedì 21 gennaio 2025

Nietzsche, La nascita della tragedia – Spiegazione e commento – TENTATIVO DI AUTOCRITICA 7

 

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In questo ultimo paragrafo c’è l’autocritica più forte, quella di romanticismo, con particolare riferimento a un brano tratto dal capitolo 18 in cui parla della tragedia come arte della consolazione metafisica per una nuova generazione che crescesse intrepida con l’intenzione di rifiutare le dottrine di mollezza dell’ottimismo:


non sarebbe forse necessario che l'uomo tragico di questa civiltà desiderasse, nell'educare se stesso alla serietà e al coraggio, un'arte nuova, l'arte della consolazione metafisica, la tragedia, come l'Elena che a lui spetta?


Ma bisognerebbe «prima imparare l’arte della consolazione dell'al di qua – dovreste imparare a ridere… forse in seguito, come ridenti, un bel giorno manderete al diavolo ogni consolazione metafisica – con la metafisica avanti! O, per parlare il linguaggio di quel demonio dionisiaco che si chiama Zarathustra:


Elevate i vostri cuori, fratelli, in alto, più in alto! E non dimenticatemi le gambe! Alzate anche le vostre gambe, bravi ballerini, e, meglio ancora: reggetevi, sulla testa!

La corona di colui che ride, questa corona intrecciata di rose: io stesso ho posto sul mio capo questa corona, io stesso ho santificato la mia risata. Non ho trovato alcun altro abbastanza robusto per farlo.

Zarathustra il danzatore, Zarathustra il lieve, che fa cenno con le ali, uno che è pronto a spiccare il volo e intanto ammicca a tutti gli uccelli, disposto e pronto a volare, beato sulla sua levità: –

Zarathustra che dice, che ride la verità, non un impaziente, non un fanatico, uno che ama i salti e gli scarti; io stesso ho posto questa corona sul mio capo!

Questa corona di colui che ride, questa corona intrecciata di rose: a voi, fratelli, getto questa corona! Io ho santificato il riso; uomini superiori, imparatemi – a ridere !».


Con questa autocitazione da Così parlò Zarathustra (parte quarta, Dell’uomo superiore, 17-20 passim) si conclude il tentativo di autocritica che comunque risulta più comprensibile dopo la lettura dell’opera.


A commento del concetto di «arte della consolazione metafisica» a cui contrappone l’arte dell’a consolazione dell’al di qua riporto alcuni passi in cui Nietzsche al filosofo metafisico per eccellenza, Platone, contrappone il realista per eccellenza, Tucidide.


Crepuscolo degli idoli (Quel che devo agli antichi, 2):


Non devo ai Greci assolutamente nessuna impressione di analoga intensità… essi non possono essere per noi quel che sono i Romani… Chi avrebbe mai imparato a scrivere da un greco? Chi lo avrebbe mai imparato senza i Romani? E non mi si opponga Platone… Platone, a quel che mi sembra, sconvolge tutte le forme dello stile, in questo egli è uno dei primi décadents dello stile… Platone è noioso… lo trovo così aberrante da tutti gli istinti fondamentali degli Elleni, così moralizzato, così anticipatamente cristiano… preferirei usare… la dura espressione di «alto ciarlatanismo» o, se è più gradito all’orecchio, di idealismo…  Il mio ristoro, la mia predilezione, la mia terapia contro ogni platonismo è stato in ogni tempo, Tucidide. Tucidide, e forse, Il Principe di Machiavelli mi sono particolarmente affini per l'assoluta volontà di non crearsi delle mistificazioni e di vedere la ragione nella realtà – non nella «ragione», e  meno ancora nella «morale»… Contro la deplorevole tendenza ad abbellire i Greci, a idealizzarli, che il giovane «educato nei classici» si porta nella vita come ricompensa del suo ammaestramento liceale, non v’è cura così drastica come Tucidide. Lo si deve rivoltare rigo per rigo e decifrare i suoi nascosti pensieri. In lui la cultura dei sofisti, voglio dire la cultura dei realisti giunge alla sua compiuta espressione: questo movimento inestimabile, in mezzo alla frode morale e ideale delle scuole socratiche dilaganti allora da ogni parte. La filosofia greca come décadance dell'istinto greco: Tucidide come il grande compendio, l'ultima rivelazione di quella forte, severa, dura oggettività che era nell'istinto dei Greci più antichi. Il coraggio di fronte alla realtà distingue infine nature come Tucidide e Platone: Platone è un codardo di fronte alla realtà – conseguentemente si rifugia nell'ideale; Tucidide ha il dominio di – di conseguenza tiene  sotto il suo dominio anche le cose».


In Aurora, 168 si esprime così:


Un modello. Che cosa amo in Tucidide, che cosa fa sì che io lo onori più di Platone? Egli gioisce nella maniera più onnicomprensiva e spregiudicata di tutto quanto è tipico negli uomini e negli eventi, e trova che ad ogni tipo compete un quantum di buona ragione: è questa che  egli cerca di scoprire. Egli possiede più di Platone una giustizia pratica: non è un denigratore e un detrattore degli uomini che non gli piacciono, o che nella vita gli hanno fatto del male. Al contrario, egli vede nell'intimo di tutte le cose e di tutte le persone qualcosa di grande e lo vede in aggiunta ad esse, in quanto rivolge lo sguardo soltanto ai tipi; che cosa se ne farebbe, poi, l'intera posterità cui egli consacra la sua opera di ciò che non è tipico? Così in lui, pensatore di uomini, giunge alla sua estrema, splendida fioritura quella cultura della più spregiudicata conoscenza del mondo  che aveva avuto in Sofocle il suo poeta, in Pericle il suo uomo di stato, in Ippocrate il suo medico, in Democrito il suo scienziato della natura: quella cultura che merita di essere battezzata col nome dei suoi maestri, i Sofisti». Più avanti: «Onorare la realtà. Così Platone rifuggì dalla realtà e volle contemplare le cose solo nelle esangui immagini del pensiero; egli era tutto senso e sapeva con quale facilità i marosi del senso seppellivano la sua ragione».


Di Tucidide Nietzsche apprezza particolarmente anche lo stile, accostato a quello di Tacito (Umano, troppo umano II, Il viandante e la sua ombra, 144):


Lo stile dell'immortalità. Tanto Tucidide quanto Tacito – entrambi hanno pensato, nel redigere le loro opere, a una durata immortale di esse: lo si potrebbe indovinare, se non lo si sapesse altrimenti, già dal loro stile. L'uno credette di dare durevolezza ai suoi pensieri salandoli, l'altro condensandoli a forza di cuocerli; e nessuno dei due, sembra, ha fatto male i suoi conti».


Allo stesso tempo però a Platone è riconosciuta da Nietzsche nobiltà di pensiero perché il suo approccio razionale lo distingue dall’«intruglio plebeo»1 ostile alla ragione, quello degli uomini che sono veluti pecora, quae natura prona atque ventri oboedientia finxit, «come le bestie, che la natura ha plasmato prone e obbedienti al ventre» (Sallustio, Bellum Catilinae, 1):


In cinque o sei cervelli comincia forse oggi ad albeggiare il pensiero che anche la fisica sia soltanto una interpretazione del mondo e un ordine imposto ad esso (secondo il nostro modo di vedere! – con licenza parlando) e non già una spiegazione del mondo: ma in quanto la fisica si fonda sulla fede nei sensi, essa vale come qualcosa  di  più e a lungo andare deve acquistare ancora maggior valore, cioè deve valere come spiegazione. Essa ha, dalla sua, la testimonianza degli occhi e delle dita [...] e ciò esercita su un’età dal fondamentale gusto plebeo l’effetto di un incantesimo [...] Viceversa, proprio nel recalcitrare all’evidenza sensibile consisteva l’incantesimo del modo platonico di pensare, il quale era un modo di pensare aristocratico [...] la plebaglia dei sensi, come diceva Platone (Al di là del bene e del male, Dei pregiudizi dei filosofi, 14). 

 Il passo a cui si riferisce si trova in Leggi, 689a-b: ταύτην τὴν διαφωνίαν λύπης τε καὶ ἡδονῆς πρὸς τὴν κατὰ λόγον δόξαν ἀμαθίαν φημὶ εἶναι τὴν ἐσχάτην, μεγίστην δέ, ὅτι τοῦ πλήθους ἐστὶ τῆς ψυχῆς· [b] τὸ γὰρ λυπούμενον καὶ ἡδόμενον αὐτῆς ὅπερ δῆμός τε καὶ πλῆθος πόλεώς ἐστιν, «questa dissonanza di dolore e piacere in relazione all’opinione secondo ragione io la dico ignoranza estrema e grandissima, in quanto è della maggior parte dell’anima; infatti la parte che soffre e prova piacere è, di essa, ciò che popolo e massa sono della città».


Nietzsche individua in Socrate l’origine plebea della filosofia platonica, in seguito nobilitata dal discepolo:


V’è qualcosa della morale platonica, che non appartiene propriamente a Platone, ma che pure si trova nella sua filosofia, si potrebbe dire, malgrado Platone stesso: vale a dire il socratismo, per cui egli era veramente troppo aristocratico. «Nessuno vuol fare del male a se stesso, perciò ogni azione cattiva è involontaria. Il malvagio, infatti, cagiona del male a se stesso: non lo farebbe se sapesse che il male è male. Conseguentemente il malvagio è cattivo soltanto per un suo errore: se lo si libera da questo errore, lo si rende necessariamente buono». Questo tipo di conclusione odora di plebaglia, la quale in colui che agisce con malvagità vede soltanto le conseguenze dolorose [...] Platone non ha lesinato i suoi sforzi per interpretare il principio del suo maestro in modo da trovarci dentro qualcosa di raffinato e di aristocratico, soprattutto se stesso (Al di là del bene e del male, Per la storia naturale della morale, 190).

 1 Nietzsche, Così parlo Zarathustra, Parte quarta, Colloquio con i re, 1: «Davvero, è meglio vivere in mezzo a eremiti e caprai che insieme alla nostra plebe dorata falsa imbellettata, - anche se si chiama buona società’, - anche se si chiama nobiltà’ […] Un contadino sano, rozzo, astuto, testardo, tenace rimane, oggi, per me ancora il migliore e il preferito degli uomini: questa è, oggi, la specie più nobile. Il contadino, oggi, è il migliore; e la specie contadina dovrebbe dominare! Ma è il regno della plebe, – non mi lascio più ingannare. Plebe, però, vuol dire: intruglio. Intruglio plebeo: lì è tutto mescolato alla rinfusa».

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