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Quindi esprime il suo rammarico per aver usato formule schopenhaueriane e kantiane per esprimere concetti nuovi radicalmente in contrasto con lo spirito di Kant e di Schopenhauer.
Riporto due ampi passi, in aggiunta a quello citato da Nietzsche (il passo è sottolineato), in cui Schopenhauer esprime bene il suo pensiero sulla tragedia; Il mondo come volontà e rappresentazione, III, 51:
Come vetta dell’arte poetica […] deve essere considerata, e come tale è riconosciuta, la tragedia. […] la raffigurazione del lato spaventoso della vita […] una significativa allusione alla condizione del mondo e dell'esistenza. È il contrasto della volontà con se stessa che qui, nel grado più alto della sua oggettità, ove si dispiega in tutta la sua pienezza, si presenta sotto spoglie spaventose. Esso si rende visibile nelle sofferenze dell’umanità, prodotte in parte dal caso e dall'errore, che si presentano come le dominatrici del mondo e che, per la loro perfidia, che si spinge sino al punto di avere l'apparenza dell'intenzionalità, vengono personificate nella figura del Destino; […] Una sola e la stessa è la volontà che dappertutto vive e si manifesta, ma le sue manifestazioni fenomeniche si combattono l'una con l'altra e si dilaniano a vicenda. In questo individuo essa si mostra potente, in quell'altro più debole, qui più, là meno in accordo con la riflessione e attenuata dalla luce della conoscenza, sino a che in qualcuno questa conoscenza, purificata ed elevata dal dolore stesso, giunge sino al punto in cui il fenomeno, il velo di Maya, non la inganna piú, e vede con chiarezza attraverso la forma del fenomeno, attraverso il principium individuationis, ed è proprio a questo punto che si estingue l'egoismo che su di esso si fondava, così che i motivi, sinora così potenti, perdono la loro forza, e al loro posto la compiuta conoscenza dell'essenza del mondo, agendo come quietivo della volontà, produce la rassegnazione, la rinuncia non semplicemente alla vita, quanto piuttosto alla volontà di vivere nella sua interezza. Così vediamo nella tragedia le figure più nobili rinunciare infine per sempre, dopo un lungo combattere e soffrire, agli scopi che sino a quel momento avevano perseguito con tanto accanimento e a tutte le gioie della vita, o abbandonare la vita stessa volontariamente e con gioia […] Al contrario, l’esigenza della cosiddetta giustizia poetica si basa sul completo fraintendimento dell'essenza della tragedia, anzi dell’essenza stessa del mondo. […] Il vero senso della tragedia è la comprensione, ben più profonda, che l'eroe non espia i propri peccati personali, bensì il peccato originale, ossia la colpa in cui consiste l'esistenza stessa:
Pues el delito mayor
Del hombre es haber nacido.
(Poiché la più grave colpa dell’uomo
è quella di essere nato).
Il secondo passo è tratto dai Supplementi a Il mondo come volontà e rappresentazione, III, 37:
Il piacere che ci dà la rappresentazione tragica non appartiene al sentimento del bello, bensì a quello del sublime; anzi, è il grado più elevato di quel sentimento. Giacché, come noi alla vista del sublime nella natura ci distogliamo dall’interesse della volontà per assumere un atteggiamento puramente contemplativo, così di fronte alla catastrofe tragica ci distogliamo dalla volontà di vivere come tale. Nella rappresentazione tragica ci vengono infatti presentati il lato terribile della vita, la miseria dell’umanità, il dominio del caso e dell’errore, la caduta del giusto, il trionfo del malvagio: ci vengono dunque messi davanti agli occhi quegli aspetti del mondo che sono in diretto contrasto con la nostra volontà. A questa vista ci sentiamo spinti a distogliere la nostra volontà dalla vita, a non volerla più, a non amarla più. […] Nell'istante della catastrofe tragica si produce in noi, più chiara che mai, la convinzione che la vita è un brutto sogno dal quale ci dobbiamo svegliare. […] Quel che a tutto ciò che è tragico, in qualunque forma si presenti, dà il suo particolare slancio verso il sublime è il cominciare a riconoscere che il mondo, la vita, non sono in grado di dare alcun appagamento autentico, e che quindi non meritano il nostro attaccamento: lo spirito tragico consiste in questo, ed è per questo che esso conduce alla rassegnazione.
Ammetto che nelle rappresentazioni tragiche degli antichi questo spirito di rassegnazione si presenta solo di rado e solo di rado viene espresso direttamente. […] Come l'impassibilità stoica si distingue radicalmente dalla rassegnazione cristiana per il fatto che insegna solo a sopportare serenamente e ad attendere con rassegnazione il male inevitabile e necessario, mentre il cristianesimo insegna a rinunciare e ad abbandonare il volere, allo stesso modo gli eroi tragici dell'antichità si mostrano costantemente sottomessi ai colpi inevitabili del destino, mentre la tragedia cristiana mostra una rinuncia alla volontà di vivere nella sua interezza, un abbandono gioioso del mondo, nella consapevolezza della sua vanità e della sua nullità. Ma io sono anche pienamente convinto che la rappresentazione tragica moderna stia più in alto di quella antica, Shakespeare è molto più grande di Sofocle; a confronto della Ifigenia di Goethe si potrebbe trovare quella di Euripide quasi rozza e volgare. Le Baccanti di Euripide sono un pasticcio indegno a favore dei sacerdoti pagani. Diversi testi teatrali dell’antichità non hanno affatto una tendenza tragica, come l’Alcesti e l’Ifigenia in Tauride di Euripide; alcuni hanno dei motivi repellenti o addirittura ripugnanti, come l’Antigone e il Filottete. Quasi tutti mostrano il genere umano sotto il dominio orribile del caso e dell'errore, ma non la rassegnazione che esso produce e che da esso redime. Tutto questo perché gli antichi non erano ancora giunti al vertice e al fine della rappresentazione tragica, anzi, nemmeno della concezione della vita in generale.
Se dunque gli antichi rappresentano poco lo spirito di rassegnazione, l'abbandono della volontà di vivere, come disposizione d'animo dei loro eroi tragici, tuttavia la tendenza e l'effetto peculiari della rappresentazione tragica restano sempre quelli di ridestare quello spirito nello spettatore e di suscitare in lui, anche se solo temporaneamente, quella disposizione d'animo. […] Se la tendenza della rappresentazione tragica non fosse questa elevazione al di sopra di tutti i fini e di tutti i beni della vita; se non fosse questo distogliere da essa e dalle sue seduzioni e quell'indirizzare, che ne consegue, verso un'esistenza di tutt'altro genere, sebbene quest'ultima sia per noi totalmente inconcepibile; se così non fosse, ripeto, come sarebbe allora in generale possibile che la rappresentazione del lato terribile della vita, che ci viene messo davanti agli occhi sotto la luce più viva, possa produrre in noi un effetto benefico e procurarci un godimento elevato? Paura e compassione, suscitare le quali costituisce per Aristotele il fine ultimo della rappresentazione tragica, in se stesse non appartengono veramente alle sensazioni piacevoli: non possono perciò essere scopo, bensì solo mezzo. L’invito a rinunciare alla volontà di vivere resta dunque ciò a cui la rappresentazione tragica tende davvero, il fine ultimo della messa in scena intenzionale dei dolori dell’umanità.
Ma quando scrive questa seconda prefazione Nietzsche si rende conto della distanza che lo separava dal maestro: «oh, quanto diversamente parlava Dioniso a me!». Ma la cosa peggiore è quella «di aver riposto speranze là dove non c'era nulla da sperare […] in un popolo che ama il bere e onora l'oscurità come virtù».
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