domenica 19 gennaio 2025

Nietzsche, La nascita della tragedia – Spiegazione e commento – TENTATIVO DI AUTOCRITICA 4

 

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Dunque che cosa è dionisiaco?


Una questione fondamentale è il rapporto del Greco col dolore, il suo grado di sensibilità,… la questione se in realtà il suo desiderio sempre più forte di bellezza, di feste, di divertimenti, di culti nuovi non si sia sviluppato dalla mancanza, dalla privazione, dalla melanconia e dal dolore. Posto cioè che proprio questo fosse vero – e Pericle (o Tucidide) ce lo lascia intendere nel grande discorso funebre – da che cosa discenderebbe allora il desiderio opposto, che si manifestò cronologicamente prima, il desiderio del brutto, la buona e dura volontà di pessimismo nel Greco antico, di mito tragico, dell’immagine di tutto il terribile, il malvagio, l’enigmatico, il distruttivo e il fatale che si cela in fondo all’esistenza, –  da che cosa discenderebbe allora la tragedia?


Qui Nietzsche allude al λόγος ἐπιτάφιος pronunciato da Pericle e riportato da Tucidide (II, 35-46); in particolare


φιλοκαλοῦμέν τε γὰρ μετ᾽ εὐτελείας καὶ φιλοσοφοῦμεν ἄνευ μαλακίας

«amiamo il bello con semplicità e la cultura senza mollezza» (40, 1)


Καὶ μὴν καὶ τῶν πόνων πλείστας ἀναπαύλας τῇ γνώμῃ ἐπορισάμεθα, ἀγῶσι μέν γε καὶ θυσίαις διετησίοις νομίζοντες, ἰδίαις δὲ κατασκευαῖς εὐπρεπέσιν, ὧν καθ' ἡμέραν ἡ τέρψις [2] τὸ λυπηρὸν ἐκπλήσσει.


Sullo spirito agonistico dei Greci riflette così Nietzsche (Umano, troppo umano, II, Parte seconda, Il viandante e la sua ombra): «226. Saggezza dei Greci. Poiché il voler vincere e primeggiare è un tratto di natura invincibile, più antico e originario di ogni stima e gioia di uguaglianza, lo Stato greco aveva sanzionato fra gli uguali la gara ginnastica e musica, aveva cioè delimitato un'arena dove quell'impulso doveva scaricarsi senza mettere in pericolo l'ordinamento politico. Con il decadere finale della gara ginnastica e musica, lo Stato greco cadde nell'inquietudine e dissoluzione interna.


Sulla festa come tratto distintivo del mondo pagano: Nietzsche, Scelta di frammenti postumi 1887-1888, trad. it. Alelphi, Milano, 10 [165]: «le feste. Bisogna essere molto grossolani per non sentire la presenza di cristiani e di valori cristiani come un’oppressione, sotto la quale ogni vera atmosfera di festa se ne va al diavolo. Nella festa è compreso: orgoglio, tracotanza, sfrenatezza; la stravaganza; lo scherno per ogni forma di serietà e di perbenismo; una divina affermazione di sé per pienezza e perfezione animale – tutti stati d'animo a cui il cristiano non può onestamente dire di sì.

La festa è paganesimo par excellence».

Ancora Nietzsche in Umano, troppo umano, II, Opinioni e sentenze diverse: «187. Il mondo antico e la gioia. Gli uomini del mondo antico sapevano gioire meglio; noi sappiamo rattristarci meno; quelli  riuscivano a trovare sempre nuovi motivi di sentirsi bene e di celebrare feste, impegnando tutta la loro ricchezza di acume e di riflessione, mentre noi rivolgiamo il nostro spirito all’adempimento di compiti che mirano piuttosto alla liberazione dal dolore, all’eliminazione delle cause di dispiacere. Quanto alle sofferenze dell’esistenza, gli antichi cercavano di dimenticare, o di piegare in qualche modo il sentimento verso il piacevole; sicché a ciò essi cercavano di ovviare con palliativi, mentre noi affrontiamo le cause del soffrire e nel complesso preferiamo agire in senso profilattico. Forse noi stiamo costruendo solo le fondamenta, su cui uomini futuri costruiranno di nuovo anche il tempio della gioia».


Il paragrafo si chiude in un crescendo di domande:


Che cosa indica la sintesi di dio e capro nel satiro?[...] L'origine del coro tragico[...] se fu proprio la follia, per usare un'espressione di Platone, a portare sulla Grecia le maggiori benedizioni; e se[...] proprio ai tempi della loro dissoluzione e debolezza, i Greci si fecero sempre più ottimistici[...] non potrebbe essere forse la vittoria dell’ottimismo, il predominio della razionalità, l’utilitarismo pratico e teorico, come la democrazia stessa, di cui esso è contemporaneo, un sintomo di forza declinante?[...] Fu Epicuro un ottimista – proprio in quanto sofferente? – […] Che cosa significa, vista secondo la prospettiva della vita, la morale?


L’allusione a Platone trova riscontro nel Fedro, 244a:


νῦν δὲ τὰ μέγιστα τῶν ἀγαθῶν ἡμῖν γίγνεται διὰ μανίας, θείᾳ μέντοι δόσει διδομένης,

«ora i più grandi tra i beni esistono per noi grazie alla follia, concessa certamente per dono divino».


Si tratta del secondo discorso di Socrate sull’amore che inizia appunto contestando, con la frase citata, chi critica l’amore perché proprio di chi delira. Il concetto si trova anche in Aurora, I, 14:


Significato della follia nella storia della moralità. […] quasi ovunque è la follia che ha aperto la strada al nuovo pensiero, che ha infranto il potere di una venerabile consuetudine e di una superstizione. […] Mentre oggi risulta ancora una volta immediatamente constatabile che invece di un granello di sale è dato al genio un granello drogato di follia, a tutti gli uomini di una volta era molto più vicino il pensiero che, ovunque esista follia, esiste anche un granello di genio e di saggezza qualcosa di «divino», come ci si andava bisbigliando all'orecchio. O piuttosto, come si andava esprimendo con discreta energia. «Mercé la follia i più grandi beni sono venuti alla Grecia», diceva Platone con tutta l'antica umanità.


Quanto all’ottimismo di Epicuro Nietzsche argomenta in modo più disteso in La gaia scienza, V, 370:


Ogni arte, ogni filosofia possono essere considerate come un mezzo di cura e d’aiuto al servizio della vita che cresce e che lotta: esse presuppongono sempre sofferenze e sofferenti. Ma vi sono due specie di sofferenti: quelli che soffrono della sovrabbondanza della vita, i quali, dunque, vogliono un’arte dionisiaca e quindi una visione e una conoscenza tragica della vita – e quelli che soffrono dell’impoverimento della vita, i quali cercano riposo, quiete, placido mare, liberazione da se stessi attraverso l’arte e la conoscenza, ovvero l’ebbrezza, lo spasimo, lo stordimento, la follia. […] Colui che è più ricco di pienezza vitale, il dio e l’uomo dionisiaco, non solo può concedersi lo spettacolo dell’orrore e della precarietà, ma perfino l’azione terribile e ogni lusso di distruzione, di dissolvimento, di negazione; in lui malvagità, assurdità, deformità appaiono in un certo senso permesse in conseguenza di uno straripamento di forze generatrici e fecondanti che può fare di ogni deserto una contrada fertile e ubertosa. Mentre invece il più sofferente, il più depauperato di vita avrebbe soprattutto bisogno di dolcezza, di mansuetudine, di bontà nel pensiero e nell'azione, possibilmente di un dio che fosse veramente un dio di malati, un «salvatore»; gli sarebbe quindi necessaria anche la logica, la comprensibilità concettuale dell’esistenza - è la logica, infatti, a racquietare, a dar fiducia – insomma una certa calda ristrettezza che fugasse ogni paura e un rinserrarsi in ottimistici orizzonti. In tal modo appresi a poco a poco a comprendere Epicuro, l’antitesi di un pessimismo dionisiaco, e parimenti il «cristiano», che in realtà è soltanto una specie d’epicureo e al pari di quello è costituzionalmente romantico.

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