sabato 1 novembre 2025

Nietzsche, La nascita della tragedia – Spiegazione e commento – CAPITOLO 15 completo

 

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(in aggiornamento)

 


Capitolo 15

L’uomo teoretico


Bisogna ora spiegare come l’influenza di Socrate si sia allargata sulla posterità […] simile a un’ombra che diventa sempre più grande nel sole della sera, e come essa costringa sempre di nuovo a ricreare l’arte.


Prima di riconoscere il primato dei Greci nell’arte, è capitato a noi nei confronti dei Greci quello che capitò agli Ateniesi nei confronti di Socrate. Quasi sempre si è tentato di liberarsi dei Greci perché rispetto a loro tutto il resto era sbiadito e si riduceva a copia mal riuscita, anzi caricatura. Disturbava l’arroganza di un popolo che qualificava gli altri come barbari.


Chi sono costoro […] che pretendono poi fra i popoli la dignità e il privilegio che spetta al genio fra la massa? Purtroppo non si fu così fortunati da trovare il bicchiere di cicuta […] E così ci si vergogna e si ha paura dei Greci; a meno che uno non stimi la verità sopra tutte le cose e non osi anche dirsela, questa verità, che i Greci cioè tengono in mano come aurighi la nostra e qualsiasi cultura, ma quasi sempre cocchi e cavalli sono di qualità troppo scadente e inadeguati alla gloria dei loro aurighi, i quali considerano allora uno scherzo il cacciare tali cavalli in un abisso, che essi stessi superano col salto d’Achille.


La dignità che a Socrate deve essere riconosciuta per la sua posizione di guida va individuata nell’aver incarnato per la prima volta la forma di esistenza dell’uomo teoretico, che è nostro compito comprendere e analizzare. Egli come l’artista prova un infinito appagamento per ciò che esiste: l’artista gode nel disvelamento della verità, rimanendo però con lo sguardo fisso a ciò che rimane soltanto velo.


L’uomo teoretico gode e si appaga nel togliere il velo e trova il suo supremo fine e piacere nel processo di un disvelamento sempre felice […] Non ci sarebbe nessuna scienza, se a essa importasse solo quell’unica dea nuda… In tal caso infatti i suoi seguaci dovrebbero sentirsi come individui che volessero scavare un foro diritto attraverso la terra.


Non basterebbe cioè una vita per giungere dall’altra parte e inoltre i suoi sforzi sarebbero vanificati da chi, di fianco a lui, scavando il suo buco ,colmasse la parte già scavata. Sarebbe allora comprensibile che ci fosse un terzo a scavare altrove. Se però si dimostrasse che questa via diretta non può giungere agli antipodi, nessuno vorrebbe più scavare, se non accontentandosi di trovare intanto qualche pietra preziosa o legge fisica. Così si svela il segreto della scienza, cioè che l’obiettivo non è la verità ma la sua ricerca.


Accanto a questa conoscenza isolata […] sta però una profonda idea illusoria, che venne al mondo per la prima volta nella persona di Socrate, ossia quell’incrollabile fede che il pensiero giunga, seguendo il filo conduttore della causalità, fin nei più profondi abissi dell’essere, e che il pensiero sia in grado non solo di conoscere, ma addirittura di correggere l’essere. Questa sublime illusione metafisica è data alla scienza come istinto e la conduce sempre di nuovo ai suoi limiti, dove deve convertirsi in arte.


Se guardiamo ora a Socrate in questa chiave ci appare come il primo che seguendo l’istinto scientifico seppe non solo vivere, ma persino morire. La figura di Socrate che muore tranquillo in quanto la scienza ha eliminato la paura della morte indica la strada che ha davanti la scienza, quella cioè che porta a giustificare la vita rendendola comprensibile. A tal scopo comunque quando non basta la ragione deve comunque intervenire il mito. Socrate dunque è il mistagogo della scienza. Il μυσταγωγός è colui che inizia ai misteri. Dopo di lui la scienza assume una dimensione universale e grazie a ciò si diffonde in tutta l’umanità una rete di pensiero comune fino ad arrivare all’altissimo vertice del sapere attuale. Se si considera bene tutto ciò non si può evitare di considerare Socrate come il vertice e il cardine della storia universale: tale forza immane , infatti, impiegata al servizio della conoscenza per scopi universali, se fosse assoggettata a fini pratici ed egoistici avrebbe provocato un susseguirsi di guerre con conseguente indebolimento del piacere di vivere, fino al punto da rendere auspicabile il suicidio e addirittura un’etica del genocidio per pietà.


Di fronte a questo pessimismo pratico, Socrate è il prototipo dell’ottimista teorico che… concede al sapere e alla conoscenza la forza di una medicina universale e vede nell’errore il male in sé… Perfino i fatti morali più sublimi… e quella tranquillità dell’anima… che il Greco apollineo chiamava sophrosyne, derivano… dalla dialettica del sapere […] Chi ha sperimentato in sé il piacere di una conoscenza socratica […] non avvertirà da allora in poi nessun pungolo che possa spingere alla vita più fortemente della brama di perfezione della conquista […] Il Socrate di Platone appare allora come il maestro di una forma del tutto nuova di «serenità greca».


La scienza però, spinta dalle sue illusioni, giunge ai limiti della conoscenza dove il suo ottimismo connaturato alla logica naufraga. L’orrore che scaturisce dalla presa di consapevolezza dei limiti della logica rende allora necessaria la conoscenza tragica, che per essere sopportata ha bisogno del balsamo dell’arte.

Mito di Er – Platone, Repubblica, X, 614b-621d – 17° parte

 


μέτρον μὲν οὖν τι τοῦ ὕδατος πᾶσιν ἀναγκαῖον εἶναι πιεῖν, τοὺς δὲ φρονήσει μὴ σῳζομένους πλέον πίνειν τοῦ μέτρου· τὸν δὲ ἀεὶ πιόντα [b] πάντων ἐπιλανθάνεσθαι. ἐπειδὴ δὲ κοιμηθῆναι καὶ μέσας νύκτας γενέσθαι, βροντήν τε καὶ σεισμὸν γενέσθαι, καὶ ἐντεῦθεν ἐξαπίνης ἄλλον ἄλλῃ φέρεσθαι ἄνω εἰς τὴν γένεσιν, ᾄττοντας ὥσπερ ἀστέρας.

Dunque era necessario per tutti bere una certa misura di acqua, ma quelli che non erano preservati da senno bevevano più della misura; chi via via beveva dimenticava tutto. Dopo che si addormentarono e fu mezzanotte, ci fu un tuono e un terremoto, e da là all’improvviso furono portati su alla nascita chi da una parte chi da un’altra, veloci come stelle».

αὐτὸς δὲ τοῦ μὲν ὕδατος κωλυθῆναι πιεῖν· ὅπῃ μέντοι καὶ ὅπως εἰς τὸ σῶμα ἀφίκοιτο, οὐκ εἰδέναι, ἀλλ' ἐξαίφνης ἀναβλέψας ἰδεῖν ἕωθεν αὑτὸν κείμενον ἐπὶ τῇ πυρᾷ.

«Lui (Er) fu impedito dal bere acqua; come poi e in che modo era giunto al corpo non sapeva, ma all’improvviso aprendo gli occhi si vide giacere  al mattino sulla pira».

Nietzsche, La nascita della tragedia – Spiegazione e commento – CAPITOLO 15 – 1° parte

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Capitolo 15

L’uomo teoretico


Bisogna ora spiegare come l’influenza di Socrate si sia allargata sulla posterità […] simile a un’ombra che diventa sempre più grande nel sole della sera, e come essa costringa sempre di nuovo a ricreare l’arte.


Prima di riconoscere il primato dei Greci nell’arte, è capitato a noi nei confronti dei Greci quello che capitò agli Ateniesi nei confronti di Socrate. Quasi sempre si è tentato di liberarsi dei Greci perché rispetto a loro tutto il resto era sbiadito e si riduceva a copia mal riuscita, anzi caricatura. Disturbava l’arroganza di un popolo che qualificava gli altri come barbari.


Chi sono costoro […] che pretendono poi fra i popoli la dignità e il privilegio che spetta al genio fra la massa? Purtroppo non si fu così fortunati da trovare il bicchiere di cicuta […] E così ci si vergogna e si ha paura dei Greci; a meno che uno non stimi la verità sopra tutte le cose e non osi anche dirsela, questa verità, che i Greci cioè tengono in mano come aurighi la nostra e qualsiasi cultura, ma quasi sempre cocchi e cavalli sono di qualità troppo scadente e inadeguati alla gloria dei loro aurighi, i quali considerano allora uno scherzo il cacciare tali cavalli in un abisso, che essi stessi superano col salto d’Achille.


La dignità che a Socrate deve essere riconosciuta per la sua posizione di guida va individuata nell’aver incarnato per la prima volta la forma di esistenza dell’uomo teoretico, che è nostro compito comprendere e analizzare. Egli come l’artista prova un infinito appagamento per ciò che esiste: l’artista gode nel disvelamento della verità, rimanendo però con lo sguardo fisso a ciò che rimane soltanto velo.


L’uomo teoretico gode e si appaga nel togliere il velo e trova il suo supremo fine e piacere nel processo di un disvelamento sempre felice […] Non ci sarebbe nessuna scienza, se a essa importasse solo quell’unica dea nuda… In tal caso infatti i suoi seguaci dovrebbero sentirsi come individui che volessero scavare un foro diritto attraverso la terra.


Non basterebbe cioè una vita per giungere dall’altra parte e inoltre i suoi sforzi sarebbero vanificati da chi, di fianco a lui, scavando il suo buco ,colmasse la parte già scavata. Sarebbe allora comprensibile che ci fosse un terzo a scavare altrove. Se però si dimostrasse che questa via diretta non può giungere agli antipodi, nessuno vorrebbe più scavare, se non accontentandosi di trovare intanto qualche pietra preziosa o legge fisica. Così si svela il segreto della scienza, cioè che l’obiettivo non è la verità ma la sua ricerca.


Accanto a questa conoscenza isolata […] sta però una profonda idea illusoria, che venne al mondo per la prima volta nella persona di Socrate, ossia quell’incrollabile fede che il pensiero giunga, seguendo il filo conduttore della causalità, fin nei più profondi abissi dell’essere, e che il pensiero sia in grado non solo di conoscere, ma addirittura di correggere l’essere. Questa sublime illusione metafisica è data alla scienza come istinto e la conduce sempre di nuovo ai suoi limiti, dove deve convertirsi in arte.


 

«Personata felicitas», la finta felicità – Seneca, Epistole, 80 e De providentia VI, 4

 

 5. Libera te primum metu mortis (illa nobis iugum inponit), deinde metu paupertatis. 6. Si vis scire quam nihil in illa mali sit, compara inter se pauperum et divitum vultus: saepius pauper et fidelius ridet; nulla sollicitudo in alto est; etiam si qua incidit cura, velut nubes levis transit: horum qui felices vocantur hilaritas ficta est aut gravis et suppurata tristitia, eo quidem gravior quia interdum non licet palam esse miseros, sed inter aerumnas cor ipsum exedentes necesse est agere felicem. 7. Saepius hoc exemplo mihi utendum est, nec enim ullo efficacius exprimitur hic humanae vitae mimus, qui nobis partes quas male agamus adsignat.

 «5. Liberati innanzitutto dalla paura della morte (essa ci impone un giogo), poi dalla paura della povertà. 6. Se vuoi sapere quanto non ci sia nulla di male in essa, confronta tra loro i volti dei poveri e dei ricchi: il povero ride più spesso e più schiettamente; nessuna preoccupazione si trova nel profondo; anche se incappa in qualche affanno, passa come una nuvola leggera: l’allegria di questi che sono chiamati felici è recitata oppure è una tristezza opprimente e che rode, e di certo tanto più opprimente poiché non è possibile ogni tanto essere infelici apertamente, ma divorando il cuore stesso tra le pene si è obbligati a fare la parte del felice. 7. Devo usare più spesso questo esempio, e infatti da nessun altro con più efficacia è rappresentato questo mimo della vita umana, che ci assegna i ruoli che interpretiamo male».

 8. omnium istorum personata felicitas est. Contemnes illos si despoliaveris.

 «8. La felicità di tutti costoro è una maschera1. Li disprezzerai se avrai tolto loro i vestiti».


 1 Lo stesso concetto si trova in De providentia, VI, 4: Isti quos pro felicibus aspicis, si non qua occurrunt sed qua latent uideris, miseri sunt, sordidi turpes, ad similitudinem parietum suorum extrinsecus culti; non est ista solida et sincera felicitas: crusta est et quidem tenuis. Itaque dum illis licet stare et ad arbitrium suum ostendi, nitent et inponunt; cum aliquid incidit quod disturbet ac detegat, tunc apparet quantum altae ac uerae foeditatis alienus splendor absconderit, «4. Questi che tu guardi come fortunati, se li vedi non dal lato con cui si presentano ma da quello che nascondono, sono meschini, squallidi, vergognosi, a somiglianza delle loro pareti belli di fuori; non è questa una felicità solida e autentica: è una patina e pure sottile. E così finché è loro consentito stare dritti e mostrarsi a loro arbitrio, brillano e traggono in inganno; quando capita qualcosa che li sconvolge e scopre, allora appare quanta profonda e reale ripugnanza nascondesse quello splendore posticcio».
 Cfr. SchopenhauerParerga e paralipomena I, Aforismi sulla saggezza della vita. Capitolo quinto: «La maggior parte degli splendori e delle magnificenze è una pura apparenza… tutto ciò è l’insegna, latteggiamento, il geroglifico della gioia… lo scopo consiste semplicemente nel far credere ad altri che là per lappunto ha preso alloggio la gioia: la vera intenzione è di suscitare tale illusione nel cervello altrui».

Mito di Er – Platone, Repubblica, X, 614b-621d – 16° parte

 

ἰδεῖν μὲν γὰρ ψυχὴν ἔφη τήν ποτε Ὀρφέως γενομένην κύκνου βίον αἱρουμένην, μίσει τοῦ γυναικείου γένους διὰ τὸν ὑπ' ἐκείνων θάνατον οὐκ ἐθέλουσαν ἐν γυναικὶ γεννηθεῖσαν γενέσθαι· ἰδεῖν δὲ τὴν Θαμύρου ἀηδόνος ἑλομένην· ἰδεῖν δὲ καὶ κύκνον μεταβάλλοντα εἰς ἀνθρωπίνου βίου αἵρεσιν, καὶ ἄλλα ζῷα μουσικὰ ὡσαύτως.

«Disse, infatti, di aver visto l’anima che un tempo era stata di Orfeo scegliere una vita di cigno, per odio del genere femminile dovuto alla morte per mano di quelle non volendo nascere generata in una donna; vide quella di Tamiri scegliere una vita di usignolo; vide anche un cigno fare la scelta cambiando in una vita umana, e altri animali musici allo stesso modo».

[b] εἰκοστὴν δὲ λαχοῦσαν ψυχὴν ἑλέσθαι λέοντος βίον· εἶναι δὲ τὴν Αἴαντος τοῦ Τελαμωνίου, φεύγουσαν ἄνθρωπον γενέσθαι, μεμνημένην τῆς τῶν ὅπλων κρίσεως. τὴν δ' ἐπὶ τούτῳ Ἀγαμέμνονος· ἔχθρᾳ δὲ καὶ ταύτην τοῦ ἀνθρωπίνου γένους διὰ τὰ πάθη ἀετοῦ διαλλάξαι βίον. ἐν μέσοις δὲ λαχοῦσαν τὴν Ἀταλάντης ψυχήν, κατιδοῦσαν μεγάλας τιμὰς ἀθλητοῦ ἀνδρός, οὐ δύνασθαι παρελθεῖν, ἀλλὰ λαβεῖν.

«C’era poi quella di Aiace Telamonio, che fuggiva dall’essere uomo, ricordandosi del giudizio delle armi; quella dopo questa era di Agamennone: anch’essa per odio della stirpe umana a causa delle sofferenze, fece a cambio con una vita di aquila. Sorteggiata tra quelli a metà l’anima di Atalanta, scorgendo i grandi onori di un atleta, non poté andare oltre ma li prese».


Aiace è un personaggio dell’Ade anche in Odissea, XI, vv. 542-564.

Ulisse ha evocato i morti per consultare Tiresia e incontra una serie di anime tra cui quella di sua madre e quella di Achille. Però ce n'è una che sta in disparte (543-544):


οἴη δ᾽ Αἴαντος ψυχὴ Τελαμωνιάδαο

νόσφιν ἀφεστήκει, κεχολωμένη εἵνεκα νίκης

«solo l'anima di Aiace Telamonio, restava in disparte, in collera per la vittoria»


Il motivo è che Ulisse era riuscito a sottrargli con l'inganno le armi di Achille, che dovevano andare in premio al più valoroso dopo Achille. In effetti poi Aiace si suicida perché, come dice nell'omonima tragedia di Sofocle ai vv. 479-80:


ἀλλ' ἢ καλῶς ζῆν ἢ καλῶς τεθνηκέναι

τὸν εὐγενῆ χρή. Πάντ' ἀκήκοας λόγον.

«Ma è necessario che il nobile o viva nella bellezza / o nella bellezza muoia. Hai ascoltato tutto il discorso».


Allora il figlio di Laerte racconta ad Alcinoo che (552):


τὸν μὲν ἐγὼν ἐπέεσσι προσηύδων μειλιχίοισιν

«con parole di miele io mi rivolsi a lui».

Ma (563-564):

ὣς ἐφάμην, ὁ δέ μ᾽ οὐδὲν ἀμείβετο, βῆ δὲ μετ᾽ ἄλλας

ψυχὰς εἰς Ἔρεβος νεκύων κατατεθνηώτων

«Come dissi, quello niente rispose, ma se ne andò nell'Erebo con le altre anime dei cadaveri dei morti».


L’episodio è ripreso da Virgilio nel VI canto dell’Eneide quando la incontra agli inferi e le dice: invitus, regina, tuo de litore cessi«senza volerlo regina mi sono allontanato dalla tua spiaggia» (v. 460). Quindi Enea cerca di interloquire in qualche modo ma Didone illa solo fixos ocuols aversa tenebat«ella teneva gli occhi fissi al suolo, girata dall'altra parte». 

L’autore del trattato Sul sublime, al capitolo 9, commenta il passo omerico. Viene definito il concetto di «sublime» in arte, che è connesso alla prima fonte, la più importante, qui chiamata  τὸ μεγαλοφυές«grandezza d’animo/magnanimità»: ebbene il sublime si configura come μεγαλοφροσύνης ἀπήχημα«eco di un alto sentire». Perciò, continua, «il nudo pensiero, separato dalla voce, in qualche modo è ammirato di per sé, perché è in sé alto sentire ὡς ἡ τοῦ Αἴαντος ἐν Νέκυια σιωπὴ μέγα καὶ παντός ὑψηλότερον λόγου«come il silenzio di Aiace nella Νέκυια, grande e più sublime di qualsiasi discorso».

Nietzsche, La nascita della tragedia – Spiegazione e commento – CAPITOLO 14 completo

 


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Capitolo 14

L’occhio di ciclope


Immaginiamo ora l’unico grande occhio di Ciclope di Socrate puntato sulla tragedia, quell’occhio in cui non arse mai la dolce follia dell’entusiasmo artistico – immaginiamo come a quell’occhio fosse interdetto di guardare con pieno diletto negli abissi dionisiaci – che cosa propriamente doveva scorgere nella «sublime e celebratissima» arte tragica, come Platone la chiama? Qualcosa di assolutamente irrazionale.


Nel dramma satiresco di Euripide Ciclope i satiri che compongono il coro si lamentano dell’assenza di Dioniso, misconosciuto da Polifemo.

Quanto alla follia dell’entusiasmo artistico si tratta del già citato passo di Platone, Fedro, 244a:


νῦν δὲ τὰ μέγιστα τῶν ἀγαθῶν ἡμῖν γίγνεται διὰ μανίας, θείᾳ μέντοι δόσει διδομένης,

«ora i più grandi tra i beni esistono per noi grazie alla follia, concessa certamente per dono divino».


Platone aveva così definito la poesia tragica (Gorgia, 502b):


ἡ σεμνὴ αὕτη καὶ θαυμαστή, ἡ τῆς τραγῳδίας ποίησις.

«Questa poesia solenne e meravigliosa, la poesia della tragedia».


Noi sappiamo che l’unico genere d’arte per lui comprensibile era la favola esopica, con cui si può dire la verità attraverso un’immagine ad un intelletto pigro; la tragedia del resto, oltre a rivolgersi a chi ha poco intelletto, non dice nemmeno la verità. La annovera tra le arti lusingatrici, come Platone nel passo del Gorgia che continua quello precedente (502b-c):


ΣΩ. πότερόν ἐστιν αὐτῆς τὸ ἐπιχείρημα καὶ ἡ σπουδή, ὡς σοὶ δοκεῖ, χαρίζεσθαι τοῖς θεαταῖς μόνον, ἢ καὶ διαμάχεσθαι, ἐάν τι αὐτοῖς ἡδὺ μὲν ᾖ καὶ κεχαρισμένον, πονηρὸν δέ, ὅπως τοῦτο μὲν μὴ ἐρεῖ, εἰ δέ τι τυγχάνει ἀηδὲς καὶ ὠφέλιμον, τοῦτο δὲ καὶ λέξει καὶ ᾄσεται, ἐάντε χαίρωσιν ἐάντε μή; ποτέρως σοι δοκεῖ παρεσκευάσθαι ἡ τῶν τραγῳδιῶν ποίησις;

So. Sua cura e intenzione, secondo te, è solamente compiacere gli spettatori, o anche sforzarsi, se qualcosa risulti per loro piacevole e gradito, qualcos’altro penoso, di non dirlo, ma se qualcosa si trovi ad essere spiacevole e utile, questo lo dirà e lo canterà, sia che ne godano, sia che no? In quale dei due modi ti sembra strutturata?

ΚΑΛ. Δῆλον δὴ τοῦτό γε, ὦ Σώκρατες, ὅτι πρὸς τὴν [c] ἡδονὴν μᾶλλον ὥρμηται καὶ τὸ χαρίζεσθαι τοῖς θεαταῖς.

Call. Ma questo almeno è chiaro, o Socrate, che è indirizzata piuttosto al piacere e a compiacere gli spettatori.

ΣΩ. Οὐκοῦν τὸ τοιοῦτον, ὦ Καλλίκλεις, ἔφαμεν νυνδὴ κολακείαν εἶναι;

ΚΑΛ. Πάνυ γε.

«So. Non dicvamo dunque una cosa del genere, o Callicle, poco fa, che è adulazione?

Call. Certamente».


Dunque bisogna astenersene e lo pretendeva anche dai suoi discepoli, al punto che Platone dovette bruciare le sue poesie giovanili. Che Platone in gioventù si fosse dedicato alla tragedia risulta da Diogene Laerzio, III, 5:


μέλλων ἀγωνιεῖσθαι τραγῳδίᾳ πρὸ τοῦ Διονυσιακοῦ θεάτρου Σωκράτους ἀκούσας κατέφλεξε τὰ ποιήματα.

«Quando stava per gareggiare nella tragedia davanti al teatro di Dioniso, dopo aver ascoltato Socrate, bruciò i versi».


Anche quando le massime socratiche trovarono resistenza, furono tuttavia abbastanza forti da spingere la poesia su posizioni nuove. Un esempio è Platone,


egli, che nel condannare la tragedia e l’arte in genere non rimase certo indietro all’ingenuo cinismo del suo maestro, dovette tuttavia creare per assoluta necessità artistica una forma d’arte che è intimamente affine proprio alle forme d’arte vigenti da lui rigettate.


Abbiamo già visto nel Gorgia citato poco fa il disprezzo che Platone prova per la tragedia. Altri giudizi negativi si trovano in Repubblica, V, 475d:


οἵ τε φιλήκοοι ἀτοπώτατοί τινές εἰσιν ὥς γ᾽ ἐν φιλοσόφοις τιθέναι, οἳ πρὸς μὲν λόγους καὶ τοιαύτην διατριβὴν ἑκόντες οὐκ ἂν ἐθέλοιεν ἐλθεῖν, ὥσπερ δὲ ἀπομεμισθωκότες τὰ ὦτα ἐπακοῦσαι πάντων χορῶν περιθέουσι τοῖς Διονυσίοις οὔτε τῶν κατὰ πόλεις οὔτε τῶν κατὰ κώμας ἀπολειπόμενοι.

«E gli amanti dell'ascolto sono dei tipi stranissimi da porre tra i filosofi, essi che non vorrebbero andare volontariamente verso discorsi e occupazioni del genere, mentre, come se avessero dato in affitto le orecchie, corrono in giro ad ascoltare tutti i cori alle Dionisie, non mancando né a quelle di città né a quelle di campagna».


Interessante anche la considerazione che si trova in Leggi 701a, dove se la prende con lo strapotere dei teatri:


τὰ θέατρα ἐξ ἀφώνων φωνήεντ' ἐγένοντο, ὡς ἐπαΐοντα ἐν μούσαις τό τε καλὸν καὶ μή, καὶ ἀντὶ ἀριστοκρατίας ἐν αὐτῇ θεατροκρατία τις πονηρὰ γέγονεν.

«i teatri da silenziosi sono diventati risonanti di voci, come se comprendessero ciò che è bello e ciò che non lo è nelle opere poetiche, si è prodotta al posto di un’aristocrazia del gusto una maligna teatrocrazia».


La critica di Platone all’arte precedente era sostanzialmente di essere imitazione di un’imitazione. Tale teoria è enunciata all’inizio del X libro della repubblica. Questa era dunque la cosa da evitare assolutamente: da qui il tentativo di trascendere la realtà e rappresentare l’dea che vi sta alla base. In questo modo però torna alle sue origini di poeta, dove Sofocle e tutta l’arte antica protestavano contro quel rimprovero. Se la tragedia aveva assorbito e fuso insieme i precedenti generi, analogamente fa il dialogo platonico, a metà tra narrazione, lirica, dramma, fra prosa e poesia. 


Il dialogo platonico fu per così dire la barca su cui la poesia antica naufraga si salvò con tutte le sue creature… ha fornito a tutta la posterità il modello del romanzo: questo si può definire come una favola esopica infinitamente sviluppata, in cui la poesia vive rispetto alla filosofia dialettica in un rapporto gerarchico simile a quello in cui per molti secoli la stessa filosofia ha vissuto rispetto alla teologia, come ancilla.


Qui il pensiero filosofico sovrasta l’arte; la tendenza apollinea si è ridotta a schematismo logico, come in Euripide quella dionisiaca si è ridotta a passione naturalistica.


Socrate, l’eroe dialettico del dramma platonico, ci ricorda la natura affine dell’eroe euripideo, che deve difendere le sue azioni con ragioni e controragioni.


Senza la sfumatura negativa, è su questa linea anche Bruno Snell (La cultura greca e le origini del pensiero occidentale, Aristofane e l'estetica, pp. 185-6):


Euripide porta la coscienza morale a una nuova crisi... Così al posto del conflitto drammatico abbiamo discussioni di uomini per i quali la vita stessa è diventata oggetto di dubbio. E così dalla tragedia si passa al dialogo filosofico-morale. Se la tragedia più tarda porta alla riflessione astrattamente razionale degli oggetti che rappresentava una volta in figure vive, essa non fa che seguire una legge storica dello spirito greco; anche le altre grandi forme di poesia hanno aperto la via all'osservazione scientifica. L'epopea porta alla storia; la poesia teogonia e cosmogonia sfocia nella filosofia naturale ionica che ricerca l'ἀρχή, la ragione e il principio delle cose; dalla poesia lirica si sviluppano i problemi riguardanti lo spirito e il significato delle cose. Così la tragedia preannunzia la filosofia attica, il cui interesse principale è rivolto all'azione umana, al bene. I dialoghi di Platone riprendono le discussioni dei personaggi della tragedia.

Il fatto è che nella dialettica è insito un elemento ottimistico che può esprimersi solo nella fredda chiarezza e consapevolezza. Tale elemento, una volta penetrato nella tragedia, erode a poco a poco lo spazio del dionisiaco fino al salto mortale nel dramma borghese.


«La virtù è il sapere; si pecca solo per ignoranza; il virtuoso è felice»; in queste tre forme fondamentali di ottimismo sta la morte della tragedia. Giacché ora l’eroe virtuoso deve essere un dialettico, ora ci deve essere tra la virtù e il sapere, la fede e la morale un legame necessario e visibile, ora la soluzione trascendentale della giustizia di Eschilo è abbassata al superficiale e sfrontato principio della «giustizia poetica», col suo solito deus ex machina.


Che fine fa il coro? Viene percepito come un relitto antiquato, una cosa fortuita, di cui si può fare a meno. Ma si è visto che proprio dal coro nasce la tragedia. Già in Sofocle c’è qualche perplessità, segno che già con lui era cominciata l’agonia della tragedia: non gli affida più la parte principale, ma lo integra nell’azione degli attori, come se fosse trasferito dall’orchestra sulla scena. Con ciò viene annientata la sua essenza, sebbene Aristotele mostri proprio su questo punto il suo gradimento (Poetica, 1456a):


καὶ τὸν χορὸν δὲ ἕνα δεῖ ὑπολαμβάνειν τῶν ὑποκριτῶν, καὶ μόριον εἶναι τοῦ ὅλου καὶ συναγωνίζεσθαι μὴ ὥσπερ Εὐριπίδῃ ἀλλ' ὥσπερ Σοφοκλεῖ.

«E bisogna considerare il coro come uno degli attori, e che sia una parte dell’insieme e che partecipi all’azione, non come per Euripide ma come per Sofocle».


Riprendo a questo punto la fine del saggio di Snell (La cultura greca e le origini del pensiero occidentale, Aristofane e l'estetica, p. 189) per riabilitare il nome bistrattato molto da Nietzsche, ma anche un po’ da Aristotele:


Goethe, che non era animato da nessun risentimento contro lo spirito... si è fortemente adirato che Schlegel... trovasse da ridire contro Euripide. «Un poeta, – diceva a Eckermann – che Aristotele esaltava, Menandro ammirava e alla cui morte Sofocle e l'intera città di Atene vestirono a lutto, doveva pur valere qualcosa. Quando un uomo dei nostri tempi come Schlegel vuole rilevare dei difetti in questo grande dell'antichità, non dovrebbe farlo altrimenti che in ginocchio». E per finire, riporteremo ancora la parola di Goethe scritta nel suo diario alcuni mesi prima della morte: «Non finisco di meravigliarmi come l’élite  dei filologi non comprenda i suoi meriti e secondo la bella usanza tradizionale lo subordini ai suoi predecessori seguendo l'esempio di quel pagliaccio di Aristofane... Ma c'è forse una nazione che abbia avuto dopo di lui un drammaturgo che sia appena degno di porgergli le pantofole?».


La musica quindi è cacciata dalla dialettica distruggendo l’essenza della tragedia che è interpretabile esclusivamente


come una manifestazione e raffigurazione di stati dionisiaci, come simbolizzazione visibile della musica, come il mondo di sogno di un’ebbrezza dionisiaca.


Se dunque già prima di Socrate dobbiamo supporre una tendenza antidionisiaca, tuttavia solo con Socrate essa esplode in tutta la sua forza: tale forza non possiamo considerarla solo negativa, data la caratura del personaggio; dunque dobbiamo chiederci se il rapporto tra Socrate e arte sia esclusivamente antitetico oppure se sia possibile concepire un Socrate artistico.


Quel logico dispotico ebbe cioè talvolta di fronte all’arte il senso di una lacuna… Molto spesso gli veniva in sogno, come racconta in carcere ai suoi amici, sempre una stessa apparizione, che diceva sempre la stessa cosa: «Socrate, datti alla musica!».


Lo spunto viene dal Fedone, 60e-61b:


πολλάκις μοι φοιτῶν τὸ αὐτὸ ἐνύπνιον ἐν τῷ παρελθόντι βίῳ, ἄλλοτ' ἐν ἄλλῃ ὄψει φαινόμενον, τὰ αὐτὰ δὲ λέγον, "Ὦ Σώκρατες," ἔφη, "μουσικὴν ποίει καὶ ἐργάζου.» […] ἔδοξε χρῆναι […] μὴ ἀπειθῆσαι αὐτῷ ἀλλὰ ποιεῖν […] ἐννοήσας ὅτι τὸν ποιητὴν δέοι, εἴπερ μέλλοι ποιητὴς εἶναι, ποιεῖν μύθους ἀλλ' οὐ λόγους, καὶ αὐτὸς οὐκ ἦ μυθολογικός, διὰ ταῦτα δὴ οὓς προχείρους εἶχον μύθους καὶ ἠπιστάμην τοὺς Αἰσώπου, τούτων ἐποίησα οἷς πρώτοις ἐνέτυχον.

«Ripresentandosi spesso a me il medesimo sogno nlla vita precedente, che si mostrava una volta in una forma un'altra volta in un'altra forma, che diceva le medesime cose, "Socrate", diceva, "componi musica ed eseguila!» […] Mi parve che fosse necessario […] non disobbedirgli ma comporre […] Riflettendo sul fatto che bisognava che il poeta, se ha intenzione di essere poeta, compone miti e non ragionamenti, e io stesso non ero portato per i miti, per queste ragioni i miti che avevo a portata di mano e conoscevo, quelli di Esopo, di questi ha fatto poesie, nei quali per primi mi sono imbattuto».


Queste parole di Socrate, pronunciate in un sogno, sono l’unico segno di perplessità di Socrate sui limiti della logica; dovette chiedersi se ciò che non comprendeva doveva per forza essere assurdo:


Forse esiste un regno della sapienza da cui il logico è bandito? Forse l’arte è addirittura un correlativo e supplemento necessario della scienza?