Docente di greco e latino al Liceo Classico «Marco Minghetti» di Bologna. Scrivo sulla rivista online «Altri Territori»: www.altriterritori.com. Ho pubblicato per Barbera Editore una traduzione dei libri VIII e IX dell’«Etica Nicomachea» di Aristotele (2005)
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domenica 30 novembre 2025
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Docente di greco e latino al liceo classico «Minghetti» di Bologna
Euripide, Baccanti – testo traduzione e commento – Maturità 2026 – 1° stasimo: vv. 386-401 (antistrofe I) – 2°
ἀχαλίνων στομάτων
ἀνόμου τ' ἀφροσύνας
τὸ τέλος δυστυχία·
ὁ δὲ τᾶς ἡσυχίας
βίοτος καὶ τὸ φρονεῖν 390
ἀσάλευτόν τε μένει καὶ
ξυνέχει δώματα· πόρσω
γὰρ ὅμως αἰθέρα ναίον-
τες ὁρῶσιν τὰ βροτῶν οὐρανίδαι.
τὸ σοφὸν δ' οὐ σοφία, 395
τό τε μὴ θνατὰ φρονεῖν.
βραχὺς αἰών· ἐπὶ τούτῳ
δὲ τις ἂν μεγάλα διώκων
τὰ παρόντ' οὐχὶ φέροι. μαι-
νομένων οἵδε τρόποι καὶ 400
κακοβούλων παρ' ἔμοιγε φωτῶν.1
1 386-401: «Di bocche senza freno / e stoltezza senza legge / la fine è sventura; / Invece la vita / della tranquillità e l’essere assennati / rimangono al riparo dai marosi e / e tengono insieme le case; lontano / infatti pur abitando l’etere / comunque vedono le vicende dei mortali i celesti. / Il sapere non è sapienza, / e anche il concepire pensieri non mortali. / Breve la vita; per questo / uno che inseguisse grandi cose / non otterrebbe quelle presenti. Queste / sono le inclinazioni di persone folli / e sconsiderate per quanto mi riguarda».
389-390 – ὁ δὲ τᾶς ἡσυχίας βίοτος: Dioniso è ripetutamente rappresentato come ἥσυχος (435 sqq., 622, 636) in contrapposizione a Penteo, l’eccitabile uomo d’azione (214, 647, 670 sq., 789 sq.). Ma sebbene ἡσυχία sia appropriata per un dio in quanto tale (cfr. Introduzione, cap. III), la religione orgiastica non è, per il nostro modo di pensare, particolarmente ἥσυχον, e si potrebbe essere tentati di individuare un riferimento secondario alla disputa propria di quei tempi di guerra tra pacifismo e inerzia, ἡσυχία e ἀπραγμοσύνη. Euripide sembra fare velate allusioni a questa disputa già nella Medea, messa in scena nel 431, anno dello scoppio della guerra: οἱ δ' ἀφ' ἡσύχου ποδὸς / δύσκλειαν ἐκτήσαντο καὶ ῥαιθυμίαν, «altri ancora per un piede tranquillo / hanno acquisito la cattiva fama di indifferenza» (217-218); χωρὶς γὰρ ἄλλης ἧς ἔχουσιν ἀργίας / φθόνον πρὸς ἀστῶν ἀλφάνουσι δυσμενῆ, «a parte infatti l’altro marchio di indolenza che hanno, / si guadagnano l’invidia malevola da parte dei concittadini» (si sta parlando dei sapienti, 296-297); μηδείς με φαύλην κἀσθενῆ νομιζέτω / μηδ᾽ ἡσυχαίαν, ἀλλὰ θατέρου τρόπου, / βαρεῖαν ἐχθροῖς καὶ φίλοισιν εὐμενῆ· / τῶν γὰρ τοιούτων εὐκλεέστατος βίος, «nessuno mi consideri vile e debole / e neppure tranquilla, ma di carattere opposto, / dura con i nemici e benvola con gli amici: / di tali persone infatti è gloriosissima la vita» (vv. 807-810). Che egli si stia muovendo in questo passo (che, ricordiamo, è stato scritto tra il 408 e il 407, essendo morto Euripide nell’inverno 407/406 ed essendo giunto in Macedonia nel 408: sono gli ultimi anni della guerra del Peloponneso, quando per Atene si sta mettendo male ma la situazione non è ancora definitivamente compromessa), consapevolmente o no, nel medesimo campo di discussione è suggerito non solo dal riferimento a Εἰρήνη (419-420) ma anche da una comparazione coi versi 1320-1322 degli Uccelli di Aristofane, i quali enumerano le potenze che presiedono Νεφελοκοκκυγία «la terra terra delle nuvole e dei cuculi»: Σοφία, Πόθος, ἀμβρόσιαι Χάριτες / τό τε τῆς ἀγανόφρονος Ἡσυχίας / εὐήμερον πρόσωπον, «Sapienza, Desiderio, Grazie fragranti di divinità / e il volto sereno / dell’amabile Tranquillità». Questi sono gli dèi di chi sfinito dalla guerra sogna la pace, ed è difficilmente attribuibile al caso che ricorrano tutti e quattro nel nostro passo. (395 σοφία, 415 Χάριτες e Πόθος, 389 ἡσυχία).
392 – ξυνέχει δώματα: il coro sta presumibilmente pensando alla spaccatura tra Penteo e la sua famiglia dovuta al suo difetto di φρόνησις.
395 – τὸ σοφὸν δ' οὐ σοφία: è il nucleo centrale della tragedia e il verso più denso; Eric Dodds traduce «cleverness is not wisdom», Gilbert Murray «the world’s Wise are not wise». Qui ancora una volta il coro fa proprio un pensiero espresso nella scena precedente: τὸ σοφὸν ha le medesime implicazioni del v. 203 (οὐδὲν σοφιζόμεσθα τοῖσι δαίμοσιν. / πατρίους παραδοχάς, ἅς θ' ὁμήλικας χρόνῳ / κεκτήμεθ’, οὐδεὶς αὐτὰ καταβαλεῖ λόγος, / οὐδ’ εἰ δι' ἄκρων τὸ σοφὸν ηὕρηται φρενῶν, «noi non abbiamo nessuna capacità intellettuale in confronto agli dèi. / Le tradizioni patrie, quelle che possediamo della stessa età del tempo, / nessun ragionamento le abbatterà, / neanche se il sapere viene trovato attraverso menti acute»); è la falsa sapienza di uomini come Penteo che φρονῶν οὐδὲν φρονεῖ («pur essendo dotato di ragione non ragiona», 332; cfr. 266 sqq., 311 sq.) in contrapposizione alla vera sapienza di una devota accettazione (179 σοφὴν σοφοῦ παρ' ἀνδρός, 186 σὺ γὰρ σοφός).
Questo genere di paradossi sono il prodotto tipico di un’epoca in cui i valori tradizionali stanno rapidamente cambiando nel modo descritto nel famoso passaggio di Tucidide sulla trasvalutazione dei valori (III, 82): siamo nel 427 e lo storiografo descrive il clima favorito dalla guerra civile a Corcira dove ἐπέπεσε πολλὰ καὶ χαλεπὰ κατὰ στάσιν ταῖς πόλεσι, γιγνόμενα μὲν καὶ αἰεὶ ἐσόμενα, ἕως ἂν ἡ αὐτὴ φύσις ἀνθρώπων ᾖ, «piombarono molte e dure sofferenze sulle città a causa della guerra civile, cose che capitano e sempre capiteranno, finché la natura umana è la medesima» in quanto ὁ δὲ πόλεμος … βίαιος διδάσκαλος, «la guerra è maestra di violenza» per gli uomini (2); e uno degli effetti paradossali fu che καὶ τὴν εἰωθυῖαν ἀξίωσιν τῶν ὀνομάτων ἐς τὰ ἔργα ἀντήλλαξαν τῇ δικαιώσει. τόλμα μὲν γὰρ ἀλόγιστος ἀνδρεία φιλέταιρος ἐνομίσθη, μέλλησις δὲ προμηθὴς δειλία εὐπρεπής, τὸ δὲ σῶφρον τοῦ ἀνάνδρου πρόσχημα, καὶ τὸ πρὸς ἅπαν ξυνετὸν ἐπὶ πᾶν ἀργόν, «essi anche il valore abituale delle parole in relazione ai fatti cambiarono, in base al loro arbitrio. L’audacia irrazionale infatti fu considerata coraggio fazioso, il temporeggiare previdente viltà ammantata di decoro, la moderazione un pretesto per coprire la codardia, e l’intelligenza in tutto indolenza in tutto» (3; per quest’ultimo stravolgimento cfr. i versi citati supra della Medea). L’esito di tutto ciò fu che Οὕτω πᾶσα ἰδέα κατέστη κακοτροπίας διὰ τὰς στάσεις τῷ Ἑλληνικῷ, καὶ τὸ εὔηθες, οὗ τὸ γενναῖον πλεῖστον μετέχει, καταγελασθὲν ἠφανίσθη, «Così per il mondo greco a causa delle guerre civili si produsse ogni forma di malizia, e anche la semplicità, di cui la nobiltà per lo più partecipa, derisa svanì» (83, 1).
Per ulteriori approfondimenti rimando al mio articolo τὸ σοφὸν δ’ οὐ σοφία, «il sapere non è sapienza» - un percorso tra tragedia e filosofia.
p.s.
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Euripide, Baccanti – testo traduzione e commento – Maturità 2026 – 1° stasimo: vv. 386-401 (antistrofe I) – 1°
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τες ὁρῶσιν τὰ βροτῶν οὐρανίδαι.
τὸ σοφὸν δ' οὐ σοφία, 395
τό τε μὴ θνατὰ φρονεῖν.
βραχὺς αἰών· ἐπὶ τούτῳ
δὲ τις ἂν μεγάλα διώκων
τὰ παρόντ' οὐχὶ φέροι. μαι-
νομένων οἵδε τρόποι καὶ 400
κακοβούλων παρ' ἔμοιγε φωτῶν.1
1 386-401: «Di bocche senza freno / e stoltezza senza legge / la fine è sventura; / Invece la vita / della tranquillità e l’essere assennati / rimangono al riparo dai marosi e / e tengono insieme le case; lontano / infatti pur abitando l’etere / comunque vedono le vicende dei mortali i celesti. / Il sapere non è sapienza, / e anche il concepire pensieri non mortali. / Breve la vita; per questo / uno che inseguisse grandi cose / non otterrebbe quelle presenti. Queste / sono le inclinazioni di persone folli / e sconsiderate per quanto mi riguarda».
389-390 – ὁ δὲ τᾶς ἡσυχίας βίοτος: Dioniso è ripetutamente rappresentato come ἥσυχος (435 sqq., 622, 636) in contrapposizione a Penteo, l’eccitabile uomo d’azione (214, 647, 670 sq., 789 sq.). Ma sebbene ἡσυχία sia appropriata per un dio in quanto tale (cfr. Introduzione, cap. III), la religione orgiastica non è, per il nostro modo di pensare, particolarmente ἥσυχον, e si potrebbe essere tentati di individuare un riferimento secondario alla disputa propria di quei tempi di guerra tra pacifismo e inerzia, ἡσυχία e ἀπραγμοσύνη. Euripide sembra fare velate allusioni a questa disputa già nella Medea, messa in scena nel 431, anno dello scoppio della guerra: οἱ δ' ἀφ' ἡσύχου ποδὸς / δύσκλειαν ἐκτήσαντο καὶ ῥαιθυμίαν, «altri ancora per un piede tranquillo / hanno acquisito la cattiva fama di indifferenza» (217-218); χωρὶς γὰρ ἄλλης ἧς ἔχουσιν ἀργίας / φθόνον πρὸς ἀστῶν ἀλφάνουσι δυσμενῆ, «a parte infatti l’altro marchio di indolenza che hanno, / si guadagnano l’invidia malevola da parte dei concittadini» (si sta parlando dei sapienti, 296-297); μηδείς με φαύλην κἀσθενῆ νομιζέτω / μηδ᾽ ἡσυχαίαν, ἀλλὰ θατέρου τρόπου, / βαρεῖαν ἐχθροῖς καὶ φίλοισιν εὐμενῆ· / τῶν γὰρ τοιούτων εὐκλεέστατος βίος, «nessuno mi consideri vile e debole / e neppure tranquilla, ma di carattere opposto, / dura con i nemici e benvola con gli amici: / di tali persone infatti è gloriosissima la vita» (vv. 807-810). Che egli si stia muovendo in questo passo (che, ricordiamo, è stato scritto tra il 408 e il 407, essendo morto Euripide nell’inverno 407/406 ed essendo giunto in Macedonia nel 408: sono gli ultimi anni della guerra del Peloponneso, quando per Atene si sta mettendo male ma la situazione non è ancora definitivamente compromessa), consapevolmente o no, nel medesimo campo di discussione è suggerito non solo dal riferimento a Εἰρήνη (419-420) ma anche da una comparazione coi versi 1320-1322 degli Uccelli di Aristofane, i quali enumerano le potenze che presiedono Νεφελοκοκκυγία «la terra terra delle nuvole e dei cuculi»: Σοφία, Πόθος, ἀμβρόσιαι Χάριτες / τό τε τῆς ἀγανόφρονος Ἡσυχίας / εὐήμερον πρόσωπον, «Sapienza, Desiderio, Grazie fragranti di divinità / e il volto sereno / dell’amabile Tranquillità». Questi sono gli dèi di chi sfinito dalla guerra sogna la pace, ed è difficilmente attribuibile al caso che ricorrano tutti e quattro nel nostro passo.
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Seneca, Epistulae, 11 – Ingenium et ars
Ingenium et ars
1. Nulla enim sapientia naturalia corporis aut animi vitia ponuntur: quidquid infixum et ingenitum est lenitur arte, non vincitur.
«1. Da nessuna sapienza sono deposti i difetti naturali del corpo e dello spirito: qualsiasi cosa sia radicata in profondità e congenita è attenuata da una conoscenza tecnica, non vinta».
10. Elige eum cuius tibi placuit et vita et oratio et ipse animum ante se ferens vultus; illum tibi semper ostende vel custodem vel exemplum. Opus est, inquam, aliquo ad quem mores nostri se ipsi exigant: nisi ad regulam prava non corriges.
«10. Scegli quello di cui ti siano piaciute la vita e le parole e il volto stesso che presenta davanti a sé l’animo; mostralo sempre a te stesso vuoi come tutore vuoi come esempio. C’è bisogno, dico, di qualcuno su cui i nostri costumi si regolino: non correggerai i difetti se non secondo una regola».
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Euripide, Baccanti – testo traduzione e commento – Maturità 2026 – 1° stasimo: vv. 370-385 (strofe I)
Ὁσία πότνα θεῶν, 370
Ὁσία δ' ἃ κατὰ γᾶν
χρυσέαν πτέρυγα φέρεις,
τάδε Πενθέως ἀίεις;
ἀίεις οὐχ ὁσίαν
ὕβριν ἐς τὸν Βρόμιον, τὸν 375
Σεμέλας, τὸν παρὰ καλλι-
στεφάνοις εὐφροσύναις δαί-
μονα πρῶτον μακάρων; ὃς τάδ' ἔχει,
θιασεύειν τε χοροῖς
μετά τ' αὐλοῦ γελάσαι 380
ἀποπαῦσαί τε μερίμνας,
ὁπόταν βότρυος ἔλθῃ
γάνος ἐν δαιτὶ θεῶν, κισ-
σοφόροις δ' ἐν θαλίαις ἀν-
δράσι κρατὴρ ὕπνον ἀμφιβάλλῃ.1 385
1 370-385: «Santità signora degli dèi, / Santità, che per la terra / porti l’ala d’oro, / senti queste parole di Penteo? / Senti il non santo / oltraggio a Bromio, il figlio / di Semele, che alle allegre / feste coronate di fiori / è la prima divinità tra i beati? E questo è ciò che gli appartiene: / partecipare alle danze del tiaso / e ridere insieme al flauto / e far cessare gli affanni, / quando giunga la gioia / del grappolo nel banchetto degli dèi, / e nelle feste coronate di edera / il cratere avvolga gli uomini nel sonno».
– Ὁσία o ὁσιότης si può definire come lo scrupolo, specialmente nelle questioni religiose, che mantiene un uomo dentro i limiti di ciò che è permesso (ὅσιον), come emerge in Platone, Gorgia, 507b περὶ μὲν ἀνθρώπους τὰ προσήκοντα πράττων δίκαι' ἂν πράττοι, περὶ δὲ θεοὺς ὅσια, «chi compisse i propri doveri nei confronti degli uomini agirebbe giustamente, nei confronti degli dèi santamente». In questo senso è in contrapposizione a οὐχ ὅσια ὕβρις del v. 375. Abbiamo detto che Penteo è descritto come il tipico tiranno della tragedia, il cui tratto principale è appunto la ὕβρις, in primis contro gli dèi, come dice il coro dell’Edipo re di Sofocle (vv. 873-882): ὕβρις φυτεύει τύραννον: ὕβρις, εἰ / πολλῶν ὑπερπλησθῇ μάταν, / ἃ μὴ 'πίκαιρα μηδὲ συμφέροντα, / ἀκρότατον εἰσαναβᾶσ᾽ / ἀπότομον ὤρουσεν εἰς ἀνάγκαν, / ἔνθ᾽ οὐ ποδὶ χρησίμῳ / χρῆται. τὸ καλῶς δ᾽ ἔχον / πόλει πάλαισμα μήποτε λῦ- / σαι θεὸν αἰτοῦμαι. / θεὸν οὐ λήξω ποτὲ προστάταν ἴσχων, «la prepotenza genera il tiranno, la prepotenza, se / si è riempita invano di molti orpelli, / che non sono opportuni e non convengono / salita su altissimi fastigi / precipita nella necessità scoscesa / dove non si avvale di valido piede. / la gara benefica / per la città / prego il dio di non dissolverla mai. / Non cesserò mai di avere il dio come patrono». – ἀνδράσι: principalmente in contrapposizione a θεῶν: ma in aggiunta qui il coro dà una risposta alle accuse di Penteo per cui i riti delle donne erano accompagnai da ebbrezza. – ἔλθῃ: congiuntivo aoristo di ἔρχομαι.
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Euripide, Baccanti – testo traduzione e commento – Maturità 2026 – 1° stasimo: introduzione (2)
Le idee portanti della scena tra Cadmo e Tiresia accolte nel canto e viene loro data espressione emotiva. Prendendo lo spunto dalla ῥῆσις di Tiresia e dimenticando la parte orientale della propria natura il Coro celebra questa volta non il misterioso dio dell’estasi ma il Dioniso che il δῆμος ateniese conosceva, il geniale dio del vino delle feste attiche: i versi 376-385 esprimono liricamente ciò che Tiresia nei versi 272-285 aveva già espresso teologicamente e la stanza conclusiva ritorna su questo tema , presentando la vita religiosa come vita di pietà, gioia e umiltà. La parola chiave è εὐφροσύνη (377), la letizia che è anche buon senso (cfr. εὖ φρονοῦμεν, «abbiamo senno» del v. 196); si contrappone alla ἀφροσύνη, «stoltezza» di uomini come Penteo (387), e il concetto è riassunto in εὐαίωνα, «felice» (v. 426). Opposto a questo atteggiamento “eudemonistico” è quello dei μαινόμενοι καὶ κακόβουλοι φῶτες, «le persone folli e sconsiderate (vv. 399-401), che sono denunciati per lo più negli stessi termini che il vecchio indovino ha applicato a Penteo: questo aveva una εὔτροχονς γλῶσσα, «lingua svelta» (268), quelli hanno ἀχάλινα στόματα, «bocche senza freno» (386); egli era θύραζε τῶν νόμων, «fuori dalle norme» (331), essi sono ἄνομοι, «senza legge» (387); egli era pieno di falsa saggezza (311-312 μηδ', ἢν δοκῇς μέν, ἡ δὲ δόξα σου νοσῇ, / φρονεῖν δόκει τι, «e non credere che, se hai un’opinione, ma è un’opinione malata, / di avere una qualche intelligenza»; 322 νῦν γὰρ πέτῃ τε καὶ φρονῶν οὐδὲν φρονεῖς, «ora infatti voli a vuoto e pur essendo dotato di ragione non ragioni») e così sono questi (395 τὸ σοφὸν δ' οὐ σοφία, «il sapere non è sapienza»).
Si potrebbe essere tentati di andare più a fondo e scovare in certe frasi di questo canto la voce personale di Euripide stesso: vedi ai vv. 389-390, 402-416, 424-426, 430-433. Ma mentre ci sono temi qui che sembrano aver avuto un significato speciale per il poeta nei suoi ultimi anni, c’è poco o nulla che con la sua irrilevanza drammatica ci induca a guardare a ciò come al suo personale pensiero. E bisognerebbe ricordare che i cori di Euripide di solito esprimono uno stato d’animo più che una convinzione.
p.s.
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Seneca, Epistulae, 9 – Si vis amari, ama
Utile e sapienza
6. Si vis amari, ama.
«6. Se vuoi essere amato, ama».
14. Volo tibi Chrysippi quoque distinctionem indicare. Ait sapientem nulla re egere, et tamen multis illi rebus opus esse: 'contra stulto nulla re opus est - nulla enim re uti scit1 - sed omnibus eget'. Sapienti et manibus et oculis et multis ad cotidianum usum necessariis opus est, eget nulla re; egere enim necessitatis est, nihil necesse sapienti est.
«14. Voglio indicarti anche la distinzione di Crisippo. Dice che il sapiente non manca di nessuna cosa, e tuttavia ha bisogno di molte cose: “al contrario lo stolto non ha bisogno di nessuna cosa – infatti non sa usare nessuna cosa – però manca di tutte”. Il sapiente ha bisogno sia di mani sia di occhi sia di molte cose necessarie all’uso quotidiano, non manca di nessuna cosa; mancare di qualcosa infatti è proprio della necessità, niente è necessario per il sapiente».”
15. Summum bonum extrinsecus instrumenta non quaerit; domi colitur, ex se totum est; incipit fortunae esse subiectum si quam partem sui foris quaerit.
«15. Il sommo bene non richiede strumenti provenienti dall’esterno; si coltiva in casa, dipende tutto da se stesso; comincia a essere sottomesso alla sorte se cerca una qualche parte al di fuori di sé»2.
22. Non est autem quod verearis ne ad indignum res tanta perveniat: nisi sapienti sua non placent; omnis stultitia laborat fastidio sui.
«22. Non è però il caso di temere che una cosa così grande giunga a uno indegno: le proprie cose non piacciono se non al sapiente3; ogni stupidità soffre del disgusto di sé».
1 Anche Vico (Principi di scienza nuova, Libro primo, Sezione II, Degli elementi, CXIV) associa la sapienza all’utilità: «L'equità naturale della ragion umana tutta spiegata è una pratica della sapienza nelle faccende dell'utilità, poiché «sapienza», nell'ampiezza sua, altro non è che scienza di far uso delle cose qual esse hanno in natura».
Cfr. Senofonte, Economico, 1, 10-11; il problema posto è se le ricchezze siano un bene e Socrate risponde a Critobulo facendo la distinzione tra κεκτῆσθαι (possedere) e χρῆσθαι (usare), per cui ci vuole ἐπιστήμη (scienza, appunto): Ταὐτὰ ἄρα ὄντα τῷ μὲν ἐπισταμένῳ χρῆσθαι αὐτῶν ἑκάστοις χρήματά ἐστι, τῷ δὲ μὴ ἐπισταμένῳ οὐ χρήματα· ὥσπερ γε αὐλοὶ τῷ μὲν ἐπισταμένῳ ἀξίως λόγου αὐλεῖν χρήματά εἰσι, τῷ δὲ μὴ ἐπισταμένῳ οὐδὲν μᾶλλον ἢ ἄχρηστοι λίθοι, εἰ μὴ ἀποδιδοῖτό γε αὐτούς. τοῦτ' ἄρα φαίνεται ἡμῖν, ἀποδιδομένοις μὲν οἱ αὐλοὶ χρήματα, μὴ ἀποδιδομένοις δὲ ἀλλὰ κεκτημένοις οὔ, τοῖς μὴ ἐπισταμένοις αὐτοῖς χρῆσθαι. «le medesime cose che sono beni utili per chi sa fare uso di ciascuno di essi, per chi non ne sa fare uso sono beni inutili; come i flauti per chi sa suonarli in modo degno di considerazione sono beni utili, per chi non lo saa fare invece sono niente più che sassi inutili, a meno che non li venda. Questo dunque ci è chiaro: per coloro che non sanno usarli, i flauti sono beni utili se li vendono, ma se li possiedono senza venderli no».
Le ricchezze dunque sono utili solo in relazione all’uso che si è in grado di farne, come risulta anche da Tucidide II, 40, 1: πλούτῳ τε ἔργου μᾶλλον καιρῷ ἢ λόγου κόμπῳ χρώμεθα, usiamo la ricchezza più come occasione di agire che come vanteria di parole».
2 Un concetto simile è applicato da Platone alla memoria nel Fedro, in particolare nel mito di Theuth (675): ὦ τεχνικώτατε Θεύθ, ἄλλος μὲν τεκεῖν δυνατὸς τὰ τέχνης, ἄλλος δὲ κρῖναι τίν᾽ ἔχει μοῖραν βλάβης τε καὶ ὠφελίας τοῖς μέλλουσι χρῆσθαι: καὶ νῦν σύ, πατὴρ ὢν γραμμάτων, δι᾽ εὔνοιαν τοὐναντίον εἶπες ἢ δύναται. τοῦτο γὰρ τῶν μαθόντων λήθην μὲν ἐν ψυχαῖς παρέξει μνήμης ἀμελετησίᾳ, ἅτε διὰ πίστιν γραφῆς ἔξωθεν ὑπ᾽ ἀλλοτρίων τύπων, οὐκ ἔνδοθεν αὐτοὺς ὑφ᾽ αὑτῶν ἀναμιμνῃσκομένους: οὔκουν μνήμης ἀλλὰ ὑπομνήσεως φάρμακον ηὗρες. σοφίας δὲ τοῖς μαθηταῖς δόξαν, οὐκ ἀλήθειαν πορίζεις: πολυήκοοι γάρ σοι γενόμενοι ἄνευ διδαχῆς πολυγνώμονες εἶναι δόξουσιν, ἀγνώμονες ὡς ἐπὶ τὸ πλῆθος ὄντες, καὶ χαλεποὶ συνεῖναι, δοξόσοφοι γεγονότες ἀντὶ σοφῶν. «Oh tecnicissimo Theuth, uno è capace di partorire i ritrovati della tecnica, un altro di giudicare quale parte ha di danno e di vantaggio per quelli che hanno intenzione di farne uso: e tu, sicome sei padre della scrittura, per benevolenza hai detto il contrario di ciò di cui è capace. Questa cosa infatti procurerà oblio nelle anime di chi l’ha appresa per trascuratezza della memoria, in quanto per fiducia nella scrittura da fuori a partire da modelli estranei, non da dentro essi stessi da se stessi ricordamo: non dunque un farmaco della memoria hai trovato ma del ricordo. Offri ai discepoli apparenza di sapienza, non verità; infatti divenuti tuoi ascoltatori, senza insegnamento crederanno di essere molto sapienti, essendo invece per lo più ignoranti, e difficili da frequentare, essendo divenuti apparentemente sapienti invece che sapienti».
3 Cioè: solo il sapiente gode delle sue cose, lo stolto al contrario è infastidito da se stesso.
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Euripide, Baccanti – testo traduzione e commento – Maturità 2026 – 1° stasimo: introduzione (1)
Primo stasimo – vv. 370-431
Si presenta come un commento lirico all’episodio precedente in due coppie strofiche. Le strofi sono direttamente collegate al contesto drammatico: στρ. α denuncia la ὕβρις che Penteo ha appena mostrato e contro di essa si appella allo spirito di Santità (Ὁσία); στρ. β esprime il πόθος, il desiderio inappagato del Coro di fuggire in terre dove i suoi riti non siano banditi come accade a Tebe. Le antistrofi distolgono lo sguardo dalla situazione immediata per illustrare il conflitto di fondo in termini più generali, per mezzo di una serie di γνῶμαι: la lotta tra penteo e il nuovo dio diventa il modello di tutte le lotte tra l’arrogante “ingegnosità” (Dodds usa cleverness) degli intellettuali atei e l’istintivo sentimento religioso della gente. La medesima struttura – strofe drammatica e antistrofe universalizzante – si trova nel terzo stasimo (862 sqq.) e nel quarto (977 sqq.), sebbene in altri cori euripidei il pensiero muova più spesso dall’universale al particolare, come per esempio in Medea, 410 sqq. (il primo stasimo): ἄνω ποταμῶν ἱερῶν χωροῦσι παγαί, / καὶ δίκα καὶ πάντα πάλιν στρέφεται. / ἀνδράσι μὲν δόλιαι βουλαί, θεῶν δ’ / οὐκέτι πίστις ἄραρε· / τὰν δ’ ἐμὰν εὔκλειαν ἔχειν βιοτὰν στρέψουσι φᾶμαι· / ἔρχεται τιμὰ γυναικείῳ γένει· / οὐκέτι δυσκέλαδος φάμα γυναῖκας ἕξει. // μοῦσαι δὲ παλαιγενέων λήξουσ’ ἀοιδῶν / τὰν ἐμὰν ὑμνεῦσαι ἀπιστοσύναν. / οὐ γὰρ ἐν ἁμετέρᾳ γνώμᾳ λύρας / ὤπασε θέσπιν ἀοιδὰν / Φοῖβος, ἁγήτωρ μελέων· ἐπεὶ ἀντάχησ’ ἂν ὕμνον / ἀρσένων γέννᾳ. μακρὸς δ’ αἰὼν ἔχει / πολλὰ μὲν ἁμετέραν ἀνδρῶν τε μοῖραν εἰπεῖν, «In alto scorrono le sorgenti dei sacri fiumi, / e giustizia e tutte le cose si torcono a rovescio; / agli uomini appartengono i consigli fraudolenti, e degli dèi / non è più salda la fede. / La fama stravolgerà la mia vita così da avere gloria; / giunge onore alla genere femminile; / non più una infamante reputazione avrà le donne. // Le Muse degli antichi cantori cesseranno / di inneggiare alla mia infedeltà. / Infatti nel nostro spirito non / accordò suono ispirato di lira / Febo signore dei canti; poiché avrei levato un inno di risposta / al genere maschile. Una lunga età ha / molte cose da dire sul destino nostro e degli uomini»; dopo questi pensieri di carattere generale il coro passa a considerare la situazione particolare di Medea.
Docente di greco e latino al liceo classico «Minghetti» di Bologna
sabato 29 novembre 2025
Imperialismo, romano e non – intero e con PDF
La logica dell’imperialismo viene chiaramente espressa da Tucidide: è l’ultimo dei tre discorsi di Pericle, il quale mette in guardia gli Ateniesi dal desistere da una politica imperialistica, la quale, una volta intrapresa, non lascia la libertà di abbandonarla senza la rovina di chi l’abbandona.
II, 63, 2
ἧς οὐδ' ἐκστῆναι ἔτι ὑμῖν ἔστιν, εἴ τις καὶ τόδε ἐν τῷ παρόντι δεδιὼς ἀπραγμοσύνῃ ἀνδραγαθίζεται· ὡς τυραννίδα γὰρ ἤδη ἔχετε αὐτήν, ἣν [3] λαβεῖν μὲν ἄδικον δοκεῖ εἶναι, ἀφεῖναι δὲ ἐπικίνδυνον… τὸ γὰρ ἄπραγμον οὐ σῴζεται μὴ μετὰ τοῦ δραστηρίου τεταγμένον, οὐδὲ ἐν ἀρχούσῃ πόλει ξυμφέρει, ἀλλ' ἐν ὑπηκόῳ, ἀσφαλῶς δουλεύειν.«E non vi è neppure più possibile rinunciarvi1, se uno, avendo paura nel momento presente, si comporta da uomo per bene anche in questo, volendo stare in pace; infatti ormai possedete un impero che è come una tirannide, che sembra ingiusto aver conquistato, ma rischioso lasciar andare… la pace infatti non si salva se non si è schierata insieme all’attività energica, ed essere schiavi nella sicurezza non conviene in una città che comanda, ma in una sottomessa».
Il concetto è poi ribadito da Cleone in III, 37, 2. Mitilene si è ribellata e bisogna dare una punizione esemplare per impedire il ripetersi di tali episodi, essendo la natura del potere tale da dover essere esercitato in modo spietato: l’epigono di Pericle dunque invita gli Ateniesi a considerare ὅτι τυραννίδα ἔχετε τὴν ἀρχὴν καὶ πρὸς ἐπιβουλεύοντας αὐτοὺς καὶ ἄκοντας ἀρχομένους, οἳ οὐκ ἐξ ὧν ἂν χαρίζησθε βλαπτόμενοι αὐτοὶ ἀκροῶνται ὑμῶν, ἀλλ' ἐξ ὧν ἂν ἰσχύι μᾶλλον ἢ τῇ ἐκείνων εὐνοίᾳ περιγένησθε, «che possedete un impero che è una tirannide e che è imposto a uomini che tramano e si sottomettono contro la propria volontà, i quali vi ubbidiscono non per le cose di cui voi stessi, danneggiandovi, li gratificate, ma per il fatto che siete superiori più per la forza che per la loro benevolenza». Dunque il meccanismo del potere è che per conservarsi deve continuamente essere esercitato.
Polibio presenta l’imperialismo romano come il fine a cui tende la storia e ne dà una specie di giustificazione per esempio in Storie VI, dove nel capitolo 50, nel parlare della costituzione di Licurgo, Polibio ne tesse l’elogio, ma solo se si vuole preservare la sicurezza e la libertà; poi prosegue:
εἰ δέ τις μειζόνων ἐφίεται, κἀκείνου κάλλιον καὶ σεμνότερον εἶναι νομίζει τὸ πολλῶν μὲν ἡγεῖσθαι, πολλῶν δ' ἐπικρατεῖν καὶ δεσπόζειν, πάντας δ' εἰς αὐτὸν ἀποβλέπειν [4] καὶ νεύειν πρὸς αὐτόν, τῇδέ πῃ συγχωρητέον τὸ μὲν Λακωνικὸν ἐνδεὲς εἶναι πολίτευμα, τὸ δὲ Ῥωμαίων διαφέρειν καὶ δυναμικωτέραν ἔχειν τὴν σύστασιν (50, 3-4),«se invece uno aspira a imprese maggiori, e ritiene che sia più bello e nobile di quello guidare molti, dominare e signoreggiare molti, che tutti guardino a lui e pieghino il capo davanti a lui, in questo caso bisogna ammettere che la forma di governo spartana è difettosa, mentre quella romana è superiore e ha una costituzione più forte».
Sallustio nell’Epistola di Mitridate lo condanna: Namque Romanis cum nationibus, populis, regibus cunctis una et ea vetus causa bellandi est, cupido profunda imperi et divitiarum, «e infatti i Romani hanno quell’unica e antica causa di fare la guerra con tutte le nationi, i popoli e i re, la brama illimitata di potere e ricchezza». Viene dunque smontata ogni possibile nobiltà delle ragioni dell’imperialismo.
Anche Tacito lo condanna in Agricola, 30:
Romani, quorum superbiam frustra per obsequium ac modestiam effugias. Raptores orbis, postquam cuncta vastantibus defuere terrae, et mare scrutantur: si locuples hostis est, avari, si pauper, ambitiosi, quos non Oriens, non Occidens satiaverit: soli omnium opes atque inopiam pari adfectu concupiscunt. Auferre, trucidare, rapere, falsis nominibus imperium, atque, ubi solitudinem faciunt, pacem appellant,
«I Romani, dei quali invano puoi evitare la superbia con la sottomissione e la docilità2. Rapinatori del mondo, dopo che a loro che devastano tutto sono mancate le terre, scrutano il mare: se il nemico è ricco sono avidi, se è povero bramosi di potere, essi che non l’Oriente, non l’Occidente possono saziare: soli tra tutti bramano con uguale slancio ricchezza e povertà. Rubare, massacrare, rapire lo chiamano con falsi nomi impero e dove fanno un deserto lo chiamano pace3».
Lo giustifica però nelle Historiae (IV, 73-74):
Siamo tra la fine del 69 e l’inizio del 70, Vitellio è morto e gli è succeduto Vespasiano, ma la situazione scaturita dalla guerra civile ancora non è stabile (bellum magis desierat quam pax coeperat, «era finita la guerra più che cominciata la pace», Hist., IV, 1, 1). La ribellione dei Germani (strenui sostenitori di Vitellio) si espande tra i Galli, a domare i quali viene inviato il generale Petilio Ceriale. Quello che segue è il discorso che egli rivolge ai Galli dopo averli sedati.
Eadem semper causa Germanis transcendendi in Gallias, libido atque avaritia et mutandae sedis amor, ut relictis paludibus et solitudinibus suis fecundissimum hoc solum vosque ipsos possiderent: ceterum libertas et speciosa nomina praetexuntur; nec quisquam alienum servitium et dominationem sibi concupivit ut non eadem ista vocabula usurparet. Regna bellaque per Gallias semper fuēre donec in nostrum ius concederetis. Nos, quamquam totiens lacessiti, iure victoriae id solum vobis addidimus, quo pacem tueremur; […] quo modo sterilitatem aut nimios imbris et cetera naturae mala, ita luxum vel avaritiam dominantium tolerate. Vitia erunt, donec homines, sed neque haec continua et meliorum interventu pensantur [...] Nam pulsis, quod di prohibeant, Romanis quid aliud quam bella omnium inter se gentium existent? octingentorum annorum fortunā disciplināque compages haec coaluit, quae convelli sine exitio convellentium non potest: sed vobis maximum discrimen, penes quos aurum et opes, praecipuae bellorum causae. Proinde pacem et urbem, quam victi victoresque eodem iure obtinemus, amate colite: moneant vos utriusque fortunae documenta ne contumaciam cum pernicie quam obsequium cum securitate malitis.
«È sempre lo stesso il motivo per i Germani di passare nelle Gallie, la brama e l’avidità e la voglia di cambiare sede, per possedere, abbandanate le loro paludi e desolazioni, questo terreno fertilissimo e voi stessi: del resto sono addotte come copertura la libertà bei nomi; e non c’è nessuno che ha desiderato per sé l’asservimento altrui e il dominio in modo da non servirsi di quei medesimi vocaboli. Regni e guerre ci sono sempre stati per le Gallie finché non siete finiti sotto la nostra autorità. Noi, seppure tante volte provocati, per diritto di vittoria abbiamo aggiunto solo ciò con cui proteggere la pace; […] come fate con la sterilità o le piogge eccessive e le altre calamità naturali, così sopportate il lusso e l’avidità dei dominatori. I vizi ci saranno, finché ci saranno uomini, ma né queste cose sono continue e sono compensate dall’alternanza di momenti migliori […] Infatti una volta cacciati i Romani, che gli dèi lo impediscano, cosa altro rimarrà se non le guerre di tutti i popoli tra di loro? Questa struttura si è sviluppata grazie alla fortuna e alla disciplina di ottocento anni, e non può essere abbattuta senza la distruzione di chi la abbatte: ma il pericolo più grande è per voi, presso i quali ci sono oro e ricchezze, le principali cause delle guerre. Perciò amate, curate la pace e la città che vinti e vincitori otteniamo con parità di diritti: vi siano di monito gli insegnamenti della sorte di entrambi, affinché non preferiate una ribellione con rovina a una obbedienza con sicurezza».
Maneat, quaeso, duretque gentibus, si non amor nostri, at certe odium sui, quando urgentibus imperii fatis nihil iam praestare fortuna maius potest quam hostium discordiam.
«Rimanga, io prego, e perduri tra le genti, se non l’amore verso di noi, quanto meno l’odio tra di loro, dal momento che incalzando le sorti dell’impero niente ormai la fortuna può fornire di più grande che la discordia dei nemici».
L’altro si trova in Annales, II, 26. Si sta parlando di Tiberio che dopo aver inviato Germanico contro i Germani lo richiama dopo le prime vittorie dicendo che Posse et Cheruscos ceterasque rebellium gentis, quoniam Romanae ultioni consultum esset, internis discordiis relinqui, «si potevano lasciare alle loro discordie interne i Cherusci e gli altri popoli ribelli, poiché si era provveduto alla vendetta di Roma», ma lo storico attribuisce tendenziosamente tale strategia all’invidia di Tiberio: Haud cunctatus est ultra Germanicus, quamquam fingi ea, seque per invidiam parto iam decŏri abstrahi intellegeret, «Germanico non indugiò oltre, sebbene capisse che quegli argomenti erano falsi, e che per invidia veniva strappato alla gloria già raggiunta». Tacito lascia intendere che se Tiberio non avesse richiamato Germanico, questi avrebbe potuto conquistare la libera Germania ricoprendosi di gloria. Quello che è cambiato tra la Germania e gli Annales è il contesto storico: nel primo caso siamo subito dopo la morte di Domiziano, per cui Tacito dice (Germania, 37) proximis temporibus triumphati magis quam victi sunt, «Nei tempi recenti [i Germani] sono stati oggetto di trionfo più che di vittoria», manifestando sfiducia nelle possibilità di vittoria; nel secondo caso siamo sotto il principato di Traiano che aveva ripreso energicamente la politica espansionistica facendo raggiungere all’impero la sua massima estensione.
1 All’egemonia, nominata prima.
2 Qui Tacito sembra voler smascherare la celebrazione dell’imperialismo romano che si trova in Virgilio, Eneide, VI, vv. 851-853: tu regere imperio populos, Romane, memento / (hae tibi erunt artes), pacique imponere morem, / parcere subiectis et debellare superbos, «Tu, Romano, ricorda di regnare sui popoli con imperio / (queste saranno le tue arti), imporre il costume della pace, / risparmiare chi si è sottomesso e sterminare i superbi». Sono le parole con cui Anchise sintetizza la missione che spetterà al figlio Enea in Italia, fondando la stirpe romana.
3 La condanna dell’imperialismo pronunciata dal nemico esterno («obiettività epica») possiamo riscontrarla anche nelle Troiane di Euripide (vv. 764-765): ὦ βάρβαρ’ ἐξευρόντες Ἕλληνες κακά, / τί τόνδε παῖδα κτείνετ’ οὐδὲν αἴτιον;, «Oh Greci che avete inventato barbare atrocità, / perché uccidete questo bambino che non ha nessuna colpa?». Questi versi pronunciati da una troiana contro i Greci (non Achei o Danai) nel 415 a.C. ad Atene non potevano non significare per gli spettatori Ateniesi una condanna dell’imminente, e destinata al disastro, spedizione in Sicilia (415-413 a.C.).
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Docente di greco e latino al liceo classico «Minghetti» di Bologna