Torniamo a Platone che, nonostante sia il primo censore del teatro1, su questo punto è in piena sintonia con i tragediografi: troviamo una chiara confutazione della tecnica disgiunta dalla morale in due dialoghi2.
Nel Fedro (275a-b) Theuth, il corrispondente egizio di Prometeo, illustra al faraone le sue invenzioni, tra cui spiccano le lettere, definite μνήμης τε καὶ σοφίας φάρμακον, «farmaco della memoria e della sapienza» (274e); segue la risposta del faraone:
ὦ τεχνικώτατε Θεύθ, ἄλλος μὲν τεκεῖν δυνατὸς τὰ τέχνης, ἄλλος δὲ κρῖναι τίν᾽ ἔχει μοῖραν βλάβης τε καὶ ὠφελίας τοῖς μέλλουσι χρῆσθαι· καὶ νῦν σύ, πατὴρ ὢν γραμμάτων, δι᾽ εὔνοιαν τοὐναντίον εἶπες ἢ δύναται. τοῦτο γὰρ τῶν μαθόντων λήθην μὲν ἐν ψυχαῖς παρέξει μνήμης ἀμελετησίᾳ, ἅτε διὰ πίστιν γραφῆς ἔξωθεν ὑπ᾽ ἀλλοτρίων τύπων, οὐκ ἔνδοθεν αὐτοὺς ὑφ᾽ αὑτῶν ἀναμιμνῃσκομένους· οὔκουν μνήμης ἀλλὰ ὑπομνήσεως φάρμακον ηὗρες. σοφίας δὲ τοῖς μαθηταῖς δόξαν, οὐκ ἀλήθειαν πορίζεις· πολυήκοοι γάρ σοι γενόμενοι ἄνευ διδαχῆς πολυγνώμονες εἶναι δόξουσιν, ἀγνώμονες ὡς ἐπὶ τὸ πλῆθος ὄντες, καὶ χαλεποὶ συνεῖναι, δοξόσοφοι γεγονότες ἀντὶ σοφῶν.
«O tecnicissimo Theuth, uno è capace di partorire i ritrovati della tecnica, un altro di giudicare quale parte di danno e di vantaggio hanno per coloro che intendono usarli: e ora tu, siccome sei il padre delle lettere, per benevolenza hai detto il contrario di quello che possono fare. Questo sapere infatti procurerà oblio nelle anime di chi apprende per trascuratezza della memoria, in quanto per fede nella scrittura richiamano alla memoria da fuori a partire da modelli esterni, non dall’interno essi stessi da sé stessi3; hai trovato un farmaco non certo della memoria ma del ricordo. Tu procuri ai discepoli l’opinione della sapienza, non la verità: divenuti tuoi assidui ascoltatori penseranno di essere, senza insegnamento, molto colti, essendo invece per lo più ignoranti, e difficili da frequentare, divenuti apparentemente sapienti, anziché sapienti».
Nel Protagora (320c-322d) il sapere tecnologico è subordinato alla dimensione politica, oltre che morale: Prometeo κλέπτει Ἡφαίστου καὶ Ἀθηνᾶς τὴν ἔντεχνον σοφίαν σὺν πυρί, «ruba la sapienza tecnica di Efesto e di Atena insieme al fuoco» e la dona agli uomini. Ἐπειδὴ δὲ ὁ ἄνθρωπος θείας μετέσχε μοίρας, «dopo che l’uomo partecipò di sorte divina», cominciò, unico tra gli esseri viventi, a venerare gli dèi e infine costruì città. Tuttavia gli uomini si uccidevano a vicenda: ἠδίκουν ἀλλήλους ἅτε οὐκ ἔχοντες τὴν πολιτικὴν τέχνην, «erano ingiusti gli uni con gli altri poiché non possedevano l’arte politica». Zeus allora inviò Ermes dagli uomini affinché portasse pudore e giustizia, αἰδῶ τε καὶ δίκην, con la raccomandazione che “πάντες μετεχόντων· οὐ γὰρ ἂν γένοιντο πόλεις, εἰ ὀλίγοι αὐτῶν μετέχοιεν ὥσπερ ἄλλων τεχνῶν· καὶ νόμον γε θὲς παρ' ἐμοῦ τὸν μὴ δυνάμενον αἰδοῦς καὶ δίκης μετέχειν κτείνειν ὡς νόσον πόλεως.”, «“tutti ne partecipino: non ci sarebbero infatti città, se pochi ne partecipassero come delle altre tecniche; poi stabilisci una legge garantita da me che impone di uccidere come malattia della città chi non sia capace di partecipare di pudore e giustizia”».
Concludo con un famoso verso di Orazio, commentato da Schopenhauer, che ponendo la σοφία anche alla base del linguaggio, sembra ricomporre l’antico dissidio tra filosofia e poesia (in fondo altre due possibili declinazioni del binomio iniziale) di cui parla Platone4:
Scribendi recte sapere est et principium et fons5
La semplicità è sempre stata un indice non soltanto di verità, ma altresì di genialità. Lo stile riceve bellezza dal pensiero[...] Perciò la prima regola, e forse l’unica, del buono stile, è che si abbia qualcosa da dire […] Nel discorso di un uomo d’ingegno troviamo in ogni parola, come in ogni pennellata, un’intenzione specifica [...] la testa superiore crea ogni frase appositamente per il caso specifico. […] Colui che scrive in modo affettato somiglia a colui che si mette in ghingheri per non essere scambiato e confuso col volgo; è questo un pericolo che il gentlemen non corre mai [...] così lo stile prezioso rivela la testa volgare6. Piuttosto, ogni stile di scrittura deve rivelare una certa affinità con lo stile lapidario, che è infatti l’antenato di tutti gli stili […] L’oscurità, la mancanza di chiarezza nell’espressione è sempre e dovunque un sintomo assai brutto. Poiché in novantanove casi su cento essa deriva dalla mancanza di chiarezza nel pensiero [...] Quando in una testa sorge un pensiero giusto, cerca subito la chiarezza e la raggiungerà ben presto […] Ogni parola superflua agisce proprio in modo contrario al suo scopo [...] La verità quando è nuda è più bella, e l’impressione che essa fa è tanto più profonda quanto più semplice ne è l’espressione [...] bisogna evitare ogni ornamento retorico non necessario [...] bisogna industriasi per uno stile casto7.
Come amava ripetere Schopenhauer, ἁπλοῦς ὁ μῦθος τῆς ἀληθείας ἔφυ8.
1 In Repubblica, 475d Platone contrappone agli spettacoli del teatro quello della verità: egli biasima gli amanti degli spettacoli (οἵ τε φιλοθεάμονες) e delle audizioni (οἵ τε φιλήκοοι): ἀτοπώτατοί τινές εἰσιν ὥς γ' ἐν φιλοσόφοις τιθέναι, «sono certo ben strani da porre tra i filosofi», tutte persone che invece che partecipare a discorsi razionali ὥσπερ δὲ ἀπομεμισθωκότες τὰ ὦτα ἐπακοῦσαι πάντων χορῶν περιθέουσι τοῖς Διονυσίοις οὔτε τῶν κατὰ πόλεις οὔτε τῶν κατὰ κώμας ἀπολειπόμενοι, «come se avessero dato in affitto le orecchie, corrono ad ascoltare tutti i cori alle Dionisie senza tralasciare né quelle di città né quelle dei villaggi»; lo spettacolo della verità è invece quello che amano i filosofi (τοὺς τῆς ἀληθείας φιλοθεάμονας, 475e). In Leggi, 701a se la prende con lo strapotere dei teatri: τὰ θέατρα ἐξ ἀφώνων φωνήεντ' ἐγένοντο, ὡς ἐπαΐοντα ἐν μούσαις τό τε καλὸν καὶ μή, καὶ ἀντὶ ἀριστοκρατίας ἐν αὐτῇ θεατροκρατία τις πονηρὰ γέγονεν, «i teatri da silenziosi sono diventati risonanti di voci, come se comprendessero ciò che è bello e ciò che non lo è nelle opere poetiche, e si è prodotta al posto di un’aristocrazia del gusto una maligna teatrocrazia».
2 «Il dialogo platonico fu per così dire la barca su cui la poesia antica naufraga si salvò con tutte le sue creature» (Nietzsche, La nascita della tragedia, 14).
3 È la famosa condanna della scrittura associata alla dottrina della conoscenza in quanto reminiscenza formulata in Menone, 81b-c: l’anima è immortale, quindi nascendo più volte impariamo tutto nel corso delle varie vite; ἅτε γὰρ τῆς φύσεως ἁπάσης συγγενοῦς οὔσης, καὶ μεμαθηκυίας τῆς ψυχῆς ἅπαντα, οὐδὲν κωλύει ἓν μόνον ἀναμνησθέντα ὃ δὴ μάθησιν καλοῦσιν ἄνθρωποι τἆλλα πάντα αὐτὸν ἀνευρεῖν, ἐάν τις ἀνδρεῖος ᾖ καὶ μὴ ἀποκάμνῃ ζητῶν· τὸ γὰρ ζητεῖν ἄρα καὶ τὸ μανθάνειν ἀνάμνησις ὅλον ἐστίν, «siccome infatti la natura è tutta imparentata con se stessa e l’anima ha appreso tutto, nulla impedisce che ricordando una sola cosa, ciò che gli uomini appunto chiamano apprendimento, riscopra tutte le altre cose, qualora sia un uomo di valore e non si stanchi di cercare; infatti il cercare e l’apprendere sono nel complesso reminiscenza». A questa idea si può contrapporre quanto dice Schopenhauer (Parerga e paralipomena II, Milano, Adelphi, 1983, p. 736: «Quanto grandi e degni di ammirazione sono stati quei primi spiriti del genere umano i quali… inventarono la più meravigliosa delle opere d’arte, la grammatica della lingua… tutto questo nella nobile intenzione di avere un organo materiale adeguato e sufficiente per la piena e degna espressione del pensiero umano».
4 παλαιὰ μέν τις διαφορὰ φιλοσοφίᾳ τε καὶ ποιητικῇ, «c’è un’antica discordia tra filosofia e poesia» (Repubblica, 607b).
5 «Sapere è il principio e la fonte dello scrivere bene», Ars poetica, 309.
6 Erit ergo etiam obscurior quo quisque deterior, «Inoltre ciascuno sarà tanto più oscuro quanto è di minor valore» (Quintiliano, II, 3, 7).
7 Parerga e paralipomena II, pp. 687-696 passim.
8 Euripide, Fenicie, 469: «il discorso della verità è semplice per natura», κοὐ ποικίλων δεῖ τἄνδιχ’ ἑρμηνευμάτων· / ἔχει γὰρ αὐτὰ καιρόν· ὁ δ’ ἄδικος λόγος / νοσῶν ἐν αὑτῷ φαρμάκων δεῖται σοφῶν, «e ciò che è giusto non ha bisogno di intricate interpretazioni: / ha in sé ciò che è opportuno; il discorso ingiusto invece / avendo il vizio dentro di sé ha bisogno di espedienti sofisticati» (470-472). Seneca li cita nell’epistola 49 (12): ut ait ille tragicus, “veritatis simplex oratio est”, ideoque illam implicari non oportet; nec enim quicquam minus convenit quam subdola ista calliditas animis magna conantibus, «come dice quel famoso tragico, “il discorso della verità è semplice”, e quindi non è il caso di complicarlo; e infatti non c’è alcuna cosa che convenga meno di questa furbizia subdola agli animi che si preparano a grandi imprese». Del resto etiam sine ratione ipsa veritas lucet, «anche senza spiegazioni la verità da sola splende» (Seneca, Epistulae, 94, 43).
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