Docente di greco e latino al Liceo Classico «Marco Minghetti» di Bologna. Scrivo sulla rivista online «Altri Territori»: www.altriterritori.com. Ho pubblicato per Barbera Editore una traduzione dei libri VIII e IX dell’«Etica Nicomachea» di Aristotele (2005)
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Il diritto dl più forte in Tucidide – Meli e Ateniesi
Dialogo dei Meli e degli Ateniesi
V – 89, 92-95, 102-105
Nell’estate del 416 a.C. una spedizione Ateniese si dirigeva contro la neutrale isola di Melo (l’odierna Milo con l’attuale pronuncia, dove è stata ritrovata la famosa statua di Venere) per intimarle, pena l’annientamento, di entrare nella lega navale Delio-Attica. Atene non poteva tollerare che qualcuno non si sottomettesse alla sua sfera di influenza prediletta, il mare. Tucidide riporta, in forma drammatica, i colloqui tra i delegati ateniesi e i rappresentanti meli; è una concessione, unica nell’opera di Tucidide, alle movenze tipiche del teatro, che si può spiegare con l’importanza ideologica che l’episodio riveste nel pensiero dello storiografo: qui infatti viene teorizzata la legge più importante della storia, che vale anche per i rapporti umani, cioè la legge del più forte.
I Meli alla fine decidono eroicamente di resistere, ma come previsto, vengono annientati: tutti i maschi adulti vengono uccisi, donne e bambini venduti come schiavi e l’isola viene assegnata a coloni ateniesi.
Euripide concepì in questa occasione le Troiane, che comunque compose nei mesi immediatamente successivi e rappresentò nella primavera del 415 a.C. come anatema contro la guerra dei forti contro i deboli: non poteva sfuggire agli Ateniesi il nesso con questo episodio.
89
ΑΘ. ἡμεῖς τοίνυν οὔτε αὐτοὶ μετ᾽ ὀνομάτων καλῶν, ὡς ἢ δικαίως τὸν Μῆδον καταλύσαντες ἄρχομεν ἢ ἀδικούμενοι νῦν ἐπεξερχόμεθα, λόγων μῆκος ἄπιστον παρέξομεν, οὔθ᾽ ὑμᾶς ἀξιοῦμεν ἢ ὅτι Λακεδαιμονίων ἄποικοι ὄντες οὐ ξυνεστρατεύσατε ἢ ὡς ἡμᾶς οὐδὲν ἠδικήκατε λέγοντας οἴεσθαι πείσειν, τὰ δυνατὰ δ᾽ ἐξ ὧν ἑκάτεροι ἀληθῶς φρονοῦμεν διαπράσσεσθαι, ἐπισταμένους πρὸς εἰδότας ὅτι δίκαια μὲν ἐν τῷ ἀνθρωπείῳ λόγῳ ἀπὸ τῆς ἴσης ἀνάγκης κρίνεται, δυνατὰ δὲ οἱ προύχοντες πράσσουσι καὶ οἱ ἀσθενεῖς ξυγχωροῦσιν.
At. «Noi dunque né offriremo noi stessi un’inaffidabile lunghezza di discorsi fatti con belle parole (dicendo) che o comandiamo giustamente in quanto abbiamo sconfitto il Persiano o giungiamo ora avendo subito un torto, né riteniamo giusto che voi pensiate di persuaderci dicendo o che, pur essendo coloni dei Lacedemoni, non avete combattuto insieme a loro o che non ci avete fatto nessun torto, ma (riteniamo giusto) che siano messe in pratica azioni possibili, a partire dalle quali entrambi ragioniamo con verità, essendo a conoscenza, nei confronti di persone che (a loro volta) sanno, che le cose giuste nel ragionamento umano sono giudicate a partire da una pari necessità, mentre quelli più forti fanno le cose possibili e i deboli cedono».
92
ΜΗΛ. καὶ πῶς χρήσιμον ἂν ξυμβαίη ἡμῖν δουλεῦσαι, ὥσπερ καὶ ὑμῖν ἄρξαι;
Me. «E come risulterebbe utile a noi asservirci, come anche a voi comandare»»
93
ΑΘ. ὅτι ὑμῖν μὲν πρὸ τοῦ τὰ δεινότατα παθεῖν ὑπακοῦσαι ἂν γένοιτο, ἡμεῖς δὲ μὴ διαφθείραντες ὑμᾶς κερδαίνοιμεν ἄν.
At. «per il fatto che per voi sottomettervi sarebbe al posto di subire le sorti più terribili, mentre noi guadagneremmo a non distruggervi».
94
ΜΗΛ. ὥστε [δὲ] ἡσυχίαν ἄγοντας ἡμᾶς φίλους μὲν εἶναι ἀντὶ πολεμίων, ξυμμάχους δὲ μηδετέρων, οὐκ ἂν δέξαισθε;
Me. «Sicché non accettereste che noi stando in pace fossimo amici invece che nemici, ma alleati di nessuno dei due?»
95
ΑΘ. οὐ γὰρ τοσοῦτον ἡμᾶς βλάπτει ἡ ἔχθρα ὑμῶν ὅσον ἡ φιλία μὲν ἀσθενείας, τὸ δὲ μῖσος δυνάμεως παράδειγμα τοῖς ἀρχομένοις δηλούμενον.
At. No, infatti la vostra ostilità non ci danneggia tanto quanto l’amicizia, che per i sudditi è un chiaro esempio di debolezza, mentre l’odio lo è di potenza.
102
ΜΗΛ. ἀλλ᾽ ἐπιστάμεθα τὰ τῶν πολέμων ἔστιν ὅτε κοινοτέρας τὰς τύχας λαμβάνοντα ἢ κατὰ τὸ διαφέρον ἑκατέρων πλῆθος: καὶ ἡμῖν τὸ μὲν εἶξαι εὐθὺς ἀνέλπιστον, μετὰ δὲ τοῦ δρωμένου ἔτι καὶ στῆναι ἐλπὶς ὀρθῶς.
Me. «Ma noi sappiamo che le vicende della guerra talvolta comportano sorti più equilibrate che secondo il differente numero dei due contendenti: e per noi il cedere è subito privo di speranza, mentre con l’azione c’è ancora speranza di restare in piedi».
103
ΑΘ. [1] ἐλπὶς δὲ κινδύνῳ παραμύθιον οὖσα τοὺς μὲν ἀπὸ περιουσίας χρωμένους αὐτῇ, κἂν βλάψῃ, οὐ καθεῖλεν: τοῖς δ᾽ ἐς ἅπαν τὸ ὑπάρχον ἀναρριπτοῦσι (δάπανος γὰρ φύσει) ἅμα τε γιγνώσκεται σφαλέντων καὶ ἐν ὅτῳ ἔτι φυλάξεταί τις αὐτὴν γνωρισθεῖσαν οὐκ ἐλλείπει. [2] ὃ ὑμεῖς ἀσθενεῖς τε καὶ ἐπὶ ῥοπῆς μιᾶς ὄντες μὴ βούλεσθε παθεῖν μηδὲ ὁμοιωθῆναι τοῖς πολλοῖς, οἷς παρὸν ἀνθρωπείως ἔτι σῴζεσθαι, ἐπειδὰν πιεζομένους αὐτοὺς ἐπιλίπωσιν αἱ φανεραὶ ἐλπίδες, ἐπὶ τὰς ἀφανεῖς καθίστανται μαντικήν τε καὶ χρησμοὺς καὶ ὅσα τοιαῦτα μετ᾽ ἐλπίδων λυμαίνεται.
At. «La speranza, che è un conforto nel pericolo, quelli che la usano a partire da sovrabbondanza, anche se li danneggia, non li annienta; ma per coloro che la gettano in tutto ciò che hanno (è prodiga infatti per natura) è riconosciuta nel fallimento e proprio nel momento in cui uno potrà ancora guardarsene, non la abbandona, anche se è stata riconosciuta per quello che è. E voi, che siete deboli e avete una sola possibilità, non vogliate subire ciò né essere assimilati ai più, che pur avendo ancora la possibilità di salvarsi con mezzi umani, dopo che, schiacciati, li abbiano abbandonati le speranze visibili, si rivolgono a quelle invisibili, cioè la mantica e gli oracoli e quante cose del genere li rovinano insieme alle speranze».
104
ΜΗΛ. χαλεπὸν μὲν καὶ ἡμεῖς (εὖ ἴστε) νομίζομεν πρὸς δύναμίν τε τὴν ὑμετέραν καὶ τὴν τύχην, εἰ μὴ ἀπὸ τοῦ ἴσου ἔσται, ἀγωνίζεσθαι: ὅμως δὲ πιστεύομεν τῇ μὲν τύχῃ ἐκ τοῦ θείου μὴ ἐλασσώσεσθαι, ὅτι ὅσιοι πρὸς οὐ δικαίους ἱστάμεθα, τῆς δὲ δυνάμεως τῷ ἐλλείποντι τὴν Λακεδαιμονίων ἡμῖν ξυμμαχίαν προσέσεσθαι, ἀνάγκην ἔχουσαν, καὶ εἰ μή του ἄλλου, τῆς γε ξυγγενείας ἕνεκα καὶ αἰσχύνῃ βοηθεῖν. καὶ οὐ παντάπασιν οὕτως ἀλόγως θρασυνόμεθα.
Me. «Anche noi (sappiatelo bene) riteniamo difficile combattere contro la vostra potenza e contro la sorte, se non sarà alla pari; tuttavia confidiamo che nella sorte da parte della divinità non saremo da meno, in quanto da uomini pii ci opponiamo a uomini non giusti, e a ciò che manca della potenza si aggiungerà l’alleanza dei Lacedemoni che ha necessità, se non per altro, almeno per la comunanza di stirpe e senso dell’onore, di soccorrerci. E non così del tutto irrazionalmente siamo audaci».
105
ΑΘ. [1] τῆς μὲν τοίνυν πρὸς τὸ θεῖον εὐμενείας οὐδ᾽ ἡμεῖς οἰόμεθα λελείψεσθαι: οὐδὲν γὰρ ἔξω τῆς ἀνθρωπείας τῶν μὲν ἐς τὸ θεῖον νομίσεως, τῶν δ᾽ ἐς σφᾶς αὐτοὺς βουλήσεως δικαιοῦμεν ἢ πράσσομεν. [2] ἡγούμεθα γὰρ τό τε θεῖον δόξῃ τὸ ἀνθρώπειόν τε σαφῶς διὰ παντὸς ὑπὸ φύσεως ἀναγκαίας, οὗ ἂν κρατῇ, ἄρχειν: καὶ ἡμεῖς οὔτε θέντες τὸν νόμον οὔτε κειμένῳ πρῶτοι χρησάμενοι, ὄντα δὲ παραλαβόντες καὶ ἐσόμενον ἐς αἰεὶ καταλείψοντες χρώμεθα αὐτῷ, εἰδότες καὶ ὑμᾶς ἂν καὶ ἄλλους ἐν τῇ αὐτῇ δυνάμει ἡμῖν γενομένους δρῶντας ἂν ταὐτό.
At. «Quanto alla benevolenza verso la divinità nemmeno noi pensiamo di essere da meno: niente infatti pretendiamo o facciamo al di fuori dell’umana credenza nei confronti degli dèi e della volontà nei confronti di noi stessi. Riteniamo infatti che la divinità secondo l’opinione e l’umanità chiaramente in ogni circostanza per necessità di natura, dove sia più forte prevalga; e noi né avendo stabilito la legge né avendola usata per primi mentre vigeva, ma avendola ereditata che già c’era ed essendo destinati a lasciarla in eredità perché esista per sempre, la usiamo, sapendo che anche voi e altri, se foste nella nostra stessa condizione di potenza, fareste lo stesso».
[3] καὶ πρὸς μὲν τὸ θεῖον οὕτως ἐκ τοῦ εἰκότος οὐ φοβούμεθα ἐλασσώσεσθαι: τῆς δὲ ἐς Λακεδαιμονίους δόξης, ἣν διὰ τὸ αἰσχρὸν δὴ βοηθήσειν ὑμῖν πιστεύετε αὐτούς, μακαρίσαντες ὑμῶν τὸ ἀπειρόκακον οὐ ζηλοῦμεν τὸ ἄφρον. [4] Λακεδαιμόνιοι γὰρ πρὸς σφᾶς μὲν αὐτοὺς καὶ τὰ ἐπιχώρια νόμιμα πλεῖστα ἀρετῇ χρῶνται: πρὸς δὲ τοὺς ἄλλους πολλὰ ἄν τις ἔχων εἰπεῖν ὡς προσφέρονται, ξυνελὼν μάλιστ᾽ ἂν δηλώσειεν ὅτι ἐπιφανέστατα ὧν ἴσμεν τὰ μὲν ἡδέα καλὰ νομίζουσι, τὰ δὲ ξυμφέροντα δίκαια. καίτοι οὐ πρὸς τῆς ὑμετέρας νῦν ἀλόγου σωτηρίας ἡ τοιαύτη διάνοια.
«Anche in relazione alla divinità, così come è verosimile, non temiamo di essere da meno; quanto invece all’opinione sui Lacedemoni, secondo la quale confidate che vi soccorreranno per senso dell’onore, felicitandoci per la vostra ingenuità non invidiamo la follia. I Lacedemoni infatti nei confronti propri e delle istituzioni locali per lo più praticano la virtù; invece nei confronti degli altri uno pur potendo dire molte cose su come si comportano, riassumendo al massimo potrebbe dimostrare come la cosa più evidente che sappiamo, che chiamano belle le cose piacevoli e utili quelle giuste. E di certo un tale pensiero non è dalla parte della vostra ora irrazionale speranza di salvezza».
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Giustizia Legge Diritto del più forte – Maturità 2025
109. Stiamo all’erta! Guardiamoci dal dire che esistono leggi della natura. Non vi sono che necessità: e allora non c’è nessuno che comanda, nessuno che presta obbedienza, nessuno che trasgredisce.
(Nietzsche, La gaia scienza, Libro terzo)
Legge e giustizia
Platone, nel I libro de La repubblica(338c) riferisce l'opinione di Trasimaco, uno dei personaggi del dialogo, secondo cui τὸ τοῦ κρείττονος σύμφερον δίκαιον εἶναι, il giusto è l'utile del più forte. Socrate chiede spiegazioni ulteriori, allora Trasimaco spiega che ogni potere organizza il proprio governo secondo il proprio vantaggio (σύμφερον), le democrazie facendo leggi democratiche, le oligarchie oligarchiche, le tirannidi tiranniche. Quindi hanno spiegato che questo è giusto, cioè ciò che è loro utile, punendo i trasgressori. Infine poi ribadisce che il giusto è appunto l'utile del più forte. Naturalmente Socrate ribatte secondo il solito procedimento dialettico e conclude dicendo che chi legifera deve tenere presente non il proprio utile ma quello dei sudditi.
L'argomentazione di Socrate è più nobile ma quella di Trasimaco è sicuramente più affascinante.
Platone scrisse il dialogo nel I quarto del IV secolo a.C.; pochi decenni prima, nell'ultimo quarto del V secolo, in piena guerra del Peloponneso, Tucidide, padre della storia laica e politica (sulla quale ἐνομοθέτησεν, legiferò, come dice Luciano in Come si deve scrivere la storia), racconta un episodio accaduto nel 416, l'anno che precedette la spedizione in Sicilia degli Ateniesi e in cui vigeva la pace di Nicia (421); in quel periodo Atene e Sparta non si scontravano direttamente ma c'era una specia di guerra fredda. Ebbene l'isola di Melo, che si trova nell'Egeo centroorientale, era rimasta fino a quel momento neutrale. Atene però basava la sua egemonia all'interno della lega Delio-attica e la sua forza contro la lega Peloponnesiaca, sul controllo del mare e sulla potenza navale: non poteva ammettere che un'isola potesse rimanere neutrale. Allora viene inviata un'ambasciata a Melo con un ultimatum: l'isola deve allearsi con Atene. Naturalmente gli abitanti sono riluttanti.
Tucidide, nel V libro delle sue storie riporta il dialogo tra gli ambascitori ateniesi e i capi dell'isola. I secondi tirano in ballo concetti come lealtà, giustizia etc.; gli Ateniesi invece si limitano a una constatazione: δίκαια μὲν ἐν τῷ ἀνθρωπείῳ λόγῳ ἀπὸ τῆς ἴσης ἀνάγκης κρίνεται, δυνατὰ δὲ οἱ προύχοντες πράσσουσι καὶ οἱ ἀσθενεῖς ξυγχωροῦσιν, le cose giuste nel ragionamento umano sono giudicate a partire da una pari necessità, mentre sono quelli superiori che fanno le cose possibili e i deboliaccossentono (89). Viene tirata poi in ballo la speranza, per esempio che gli Spartani arriveranno in aiuto; gli Ateniesi ribattono che gli Spartani non hanno una flotta e tagliano corto dicendo: ἡγούμεθα γὰρ τό τε θεῖον δόξῃ τὸ ἀνθρώπειόν τε σαφῶς διὰ παντὸς ὑπὸ φύσεως ἀναγκαίας, οὗ ἂν κρατῇ, ἄρχειν: καὶ ἡμεῖς οὔτε θέντες τὸν νόμον οὔτε κειμένῳ πρῶτοι χρησάμενοι, ὄντα δὲ παραλαβόντες καὶ ἐσόμενον ἐς αἰεὶ καταλείψοντες χρώμεθα αὐτῷ, εἰδότες καὶ ὑμᾶς ἂν καὶ ἄλλους ἐν τῇ αὐτῇ δυνάμει ἡμῖν γενομένους δρῶντας ἂν ταὐτό, noi crediamo infatti che la divinità, secondo un'opinione e l'umanità, con chiarezza, in ogni caso per necessità di natura, dove sia più forte comandi. E noi né avendo posto la legge né avendola usata per primi mentre era in vigore, ma avendola ricevuta che già c'era la usiamo lasciandola in eredità destinata ad esistere per sempre, sapendo che anche voi e altri essendo nella medesima condizione di potenza fareste lo stesso (105, 2).
Qui Tucidide enuncia con la massima chiarezza e semplicità possibili la legge del diritto del più forte; del resto come dice Euripide nelle Fenicie (496) ἀπλοῦς ὁ μῦθος τῆς ἀληθείας ἔφυν, semplice è per natura il racconto della verità.
Abbiamo confrontato Platone, che naturalmente non si riconosce nel pensiero di Trasimaco e Tucidide. Nietzsche, nel Crepuscolo degli idoli (p. 125-6) consiglia Tucidide, in opposizione a Platone, come terapia contro l'idealismo: “Il mio ristoro, la mia predilezione, la mia terapia contro ogni platonismo è sempre stato Tucidide. Tucidide, e forse, Il Principe di Machiavelli mi sono particolarmente affini per l'assoluta volontà di crearsi delle mistificazioni e di vedere la ragione nella realtà – non nella “ragione”, e tanto meno nella “morale” … In lui la cultura dei sofisti, voglio dire la cultura dei realisti giunge alla sua compiuta espressione: questo movimento inestimabile, in mezzo alla truffa morale e ideale delle scuole socratiche prorompenti allora da ogni parte. La filosofia greca come décadance dell'istinto greco: Tucidide come il grande compendio, l'ultima rivelazione di quella forte, severa, dura oggettività che era nell'istinto dei Greci più antichi. Il coraggio di fronte alla realtà distingue infine nature come Tucidide e Platone: Platone è un codardo di fronte alla realtà – conseguentemente si rifugia nell'ideale; Tucidide ha il dominio di sé – tiene quindi sotto il suo dominio anche cose”.
In Aurora (p. 124) aggiunge: “Un modello. Che cosa amo in Tucidide, che cosa fa sì che io lo onori più di Platone? Egli gioisce nella maniera più onnicomprensiva e spregiudicata di tutto quanto è tipico negli uomini e negli eventi, e trova che ad ogni tipo compete un quantum di buona ragione: è questa che egli cerca di scoprire. Egli possiede più di Platone una giustizia pratica: non è un denigratore e un detrattore degli uomini che non gli piacciono, o che nella vita gli hanno fatto del male … rivolge lo sguardo soltanto ai tipi; che cosa se ne farebbe, poi, l'intera posterità cui egli consacra la sua opera di ciò che non è tipico? Così in lui, pensatore di uomini, giunge alla sua estrema, splendida fioritura quella cultura della più spregiudicata conoscenza del mondo che aveva avuto in Sofocle il suo poeta, in Pericle il suo uomo di stato, in Ippocrate il suo medico, in Democrito il suo scienziato della natura: quella cultura che merita di essere battezzata col some dei sui maestri: i Sofisti”.
Per quanto riguarda cultura della più spregiudicata conoscenza del mondo che il filosofo tedesco attribuisce anche a Machiavelli si può citare il capitolo XV del Principe: “Sendo l'intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla imaginazione di essa. E molti si sono imaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché egli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare impara piuttosto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo, che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene ruini infra tanti che non sono buoni”.
Torniamo a Platone e vediamo un sofista, appunto, di nome Callicle che sotiene il giusto predominio della forza, come gli Ateniesi e lo sparviero di Esiodo.
Callicle è uno dei personaggi del Gorgia e sta discutendo con Socrate se sia meglio infliggere o subire ingiustizia; secondo lui in natura che ciò che è brutto è anche malvagio, come subire ingiustizia, mentre secondo la legge è il contrario. Prosegue dicendo che è meglio morire se, maltrattati e offesi, non si è capaci di aiutare se stessi e gli altri. Quindi formula il concetto secondo cui Φύσις αὐτὴ ἀποφαίνει αὐτό, ὅτι δίκαιόν ἐστιν τὸν ἀμείνω τοῦ χείρονος πλέον ἔχειν καὶ τὸν δυνατώτερον τοῦ ἀδυνατωτέρου. δηλοῖ δὲ ταῦτα πολλαχοῦ ὅτι οὕτως ἔχει, καὶ ἐν τοῖς ἄλλοις ζῴοις καὶ τῶν ἀνθρώπων ἐν ὅλαις ταῖς πόλεσι καὶ τοῖς γένεσιν, ὅτι οὕτω τὸ δίκαιον κέκριται, τὸν κρείττω τοῦ ἥττονος ἄρχειν καὶ πλέον ἔχειν, la natura stessa mostra ciò, vale a dire che è giusto che il migliore abbia più del peggiore e il più capace del meno capace. Mastra che queste cose stanno così ovunque, sia tra gli altri animali sia tra gli uomini nelle città intere e nelle famiglie (483d).
Le leggi allora sono un prodotto della maggioranza fatta di deboli invidiosi che non icapaci di realizzare le proprie ambizioni, caratteristica invece dei forti (491b) ἀνδρεῖοι, ἱκανοὶ ὄντες ἃ ἂν νοήσωσιν ἐπιτελεῖν, καὶ μὴ ἀποκάμνωσι διὰ μαλακίαν τῆς ψυχῆς, valorosi, capaci di compiere ciò che pensano, e non si scoraggiano per debolezza d'animo.
(492a) ἀλλὰ τοῦτ᾽ οἶμαι τοῖς πολλοῖς οὐ δυνατόν: ὅθεν ψέγουσιν τοὺς τοιούτους δι᾽ αἰσχύνην, ἀποκρυπτόμενοι τὴν αὑτῶν ἀδυναμίαν, ma ai più credo, questo non è possibile: perciò biasimano siffatti individui, per vergogna, nascondendo la proria incapacità.
A sostegno della sua tesi Callicle cita anche Pindaro νόμος πάντων βασιλεύς, la legge è regina di tutte le cose (su cui torneremo più avanti).
Callicle aggiunge poi che pessima è la filosofia, perché anche chi per natura è ben dotato, se continua a filosofare anche da adulto, non fa esperienza del mondo reale rimanendo inesperto delle passioni degli uomini, τῶν ἠθῶν παντάπασιν ἄπειροι γίγνονται, diventano assolutamente inesperti dei tipi.
Socrate ribatte naturalmente che bisogna seguire la temperanza e la morale, ma riconosce a Callicle di aver parlato con franchezza οὐκ ἀγεννῶς, in quanto ha detto quello che gli altri pensano senza avere in coraggio di dirlo.
Vediamo ora alcune condanne del diritto del più forte. Innanzitutto Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis (4 dicembre 1878): “Quando doveri e diritti stanno sulla punta della spada, il forte scrive le leggi col sangue e pretende il sacrificio della virtù”.
Manzoni nella parte finale dell'Adelchi (atto quinto, scena ottava, vv. 349-354)fa dire al protagonista: “Godi che re non sei; godi che chiusa/all'oprar t'è ogni via: loco a gentile,/ad innocente opra non v'è: non resta/che far torto o patirlo. Una feroce/forza il mondo possiede, e fa nomarsi/dritto”.
Leopardi invece nell'Ultimo canto di Saffo dice ai vv. 50-54 “alle sembianze il Padre,/alle amene sembianze eterno regno/diè nelle genti; e per virili imprese,/dotta lira o canto/virtù non luce in disadorno ammanto”, identificando il diritto del più forte con quello del più bello.
Infine sentiamo cosa disse Don Milani in L'obbedienza non è più una virtù: “Non posso dire ai miei ragazzi che l'unico modo di amare la legge è di obbedirla. Posso solo dire che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano combattute”.
Torniamo a Pindaro. Callicle lo aveva citato per significare che la legge, quella naturale, è regina di tutte le cose. Anche Erodoto cita lo stesso verso, ma dando alla parola legge un significato diverso. Erodoto è caratterizzato da quello che viene definito relativismo e questo è un tratto che può assimilarlo al relativismo di stampo sofistico di Protagora. A questo viene infatti attribuito, per esempio nel Cratilo di Platone (385e), il concetto che l'uomo è misura di tutte le cose ὥσπερ Πρωταγόρας ἔλεγεν λέων πάντων χρημάτων μέτρον εἶναι ἄνθρωπον. Ebbene Erodoto nel III libro delle Storie al cap 38 racconta un episodio che afferma il valore della tolleranza. Sta parlando di quando Dario era re dei Persiani e un giorno chiese a dei Greci a che prezzo avrebbero mangiato i cadaveri dei genitori; questi si sdegnarono e dissero che non lo avrebbero fatto a nessun prezzo. Quindi Dario chiese a degli Indiani Callati, uno dei popoli che abitavano il suo impero e che avevano l'usanza di mangiare i cadaveri dei genitori, a quale prezzo avrebbero seppellito i genitori morti e questi si sdegnorono profondamente. Quindi Erodoto trae la conclusione che la consuetudine è regina di tutte le cose.
Come si vede lo storiografo intende diversamente il frammento di Pindaro giocando sui diversi significati assunti dalla parola νόμος. Ora tale parola può essere fonte di ambiguità, come per esempio succede nell'Antigone di Sofocle, rappresentata nel 442 (tale fu il successo del dramma che l'autore fu eletto stratego l'anno successivo). Al centro della vicenda sta la sepoltura del cadavere di Polinice. Creonte, fratello di Giocasta e zio di Antigone, ha promulgato un editto (k»rugma, v. 8) secondo cui il cadavere di Polinice, traditore della patria, deve rimanere insepolto; Antigone, sorella di Polinice, contesta la legittimità di tale provvedimento, contrapponendo alle leggi scritte (νόμους … τοὺς προκειμένους v. 481) rappresentate dall’editto, le leggi scritte e incrollabili degli dei (ἄγραπτα κἀσφαλῆ θεῶν / νόμιμα, vv. 454-5) che tutelano il legame di sangue e alle quali attribuisce il primato. Il contesto è la spedizione dei sette conto Tebe (raccontata nell’omonima tragedia da Eschilo) guidata da Polinice, che vi trova la morte assieme al fratello Eteocle; per Creonte solo quest’ultimo, che era re di Tebe in quel momento, ha diritto agli onori funebri. Siccome Antigone esegue i riti in onore di Polinice, viene condannata a morte, come previsto dall’editto; da questo atto derivano il suicidio di Emone, figlio di Creonte e fidanzato di Antigone, e quello di Euridice, moglie del re. Solo alla fine, ma comunque troppo tardi, Creonte riconosce che è meglio compiere la vita rispettando le leggi stabilite.
Come si vede νόμος è parola chiave nella tragedia, e lo sviluppo della vicenda ruota intorno al significato che i due protagonisti le attribuiscono; l’ambiguità della parola serve all’autore per produrre un effetto di ironia tragica, come nota Vernant: “Tutti i tragici greci ricorrono all’ambiguità come mezzo di espressione e come modo di pensiero. Ma il doppio senso assume un ruolo ben diverso secondo il posto che occupa nell’economia del dramma e il livello della lingua a cui lo pongono i diversi tragici. Può trattarsi di un’ambiguità nel vocabolario, corrispondente a ciò che Aristotele chiama ὁμονυμία (ambiguità lessicale); questo tipo di ambiguità è reso possibile dalle oscillazioni o dalle contraddizioni della lingua1. Il drammaturgo gioca su queste per esprimere la sua visione del mondo in urto con se stesso, lacerato dalle contraddizioni. In bocca ai diversi personaggi le stesse parole acquistano significati differenti od opposti, perché il loro valore non è lo stesso nella lingua religiosa, giuridica, politica, comune. Così per Antigone νόμος designa il contrario di ciò che Creonte, nelle circostanze in cui è posto, chiama anche lui νόμος. Per la fanciulla il termine significa “norma religiosa”; per Creonte, “editto promulgato dal capo dello stato”. E in realtà il campo semantico di νόμος è sufficientemente esteso per comprendere, con altri, ambedue i sensi2. L’ambiguità traduce allora la tensione tra certi valori avvertiti come inconciliabili nonostante la loro omonimia. Le parole scambiate sullo spazio scenico, anziché stabilire la comunicazione e l’accordo fra i personaggi, sottolineano viceversa l’impermeabilità degli spiriti, il blocco dei caratteri; segnano le barriere che separano i protagonisti, fanno risaltare le linee conflittuali. Ciascun eroe, chiuso nell’universo che gli è proprio, dà alla parola un senso e uno solo. Contro questa unilateralità urta violentemente un’altra unilateralità. L’ironia tragica potrà consistere nel mostrare come nel corso dell’azione l’eroe si trovi letteralmente «preso in parola», una parola che si ritorce contro di lui arrecandogli l’amara esperienza del senso ch’egli si ostinava a non riconoscere. Solamente al di sopra della testa dei personaggi si allaccia tra l’autore e lo spettatore un altro dialogo ove la lingua ricupera la sua capacità di comunicazione e per così dire la sua trasparenza. Ma ciò che il messaggio tragico trasmette, quando è compreso, è appunto che nelle parole scambiate fra uomini esistono zone di opacità e incomunicabilità. Nel momento in cui vede sulla scena i protagonisti aderire esclusivamente a un senso, lo spettatore è portato a comprendere che esistono in realtà due sensi, o più. Il messaggio tragico gli diviene intelligibile nella misura in cui, strappato alle sue certezze e alle sue limitazioni antiche, egli riconosce l’ambiguità dei termini, dei valori, della condizione umana. Riconoscendo l’universo come conflittuale, aprendosi a una visione problematica del mondo, egli stesso si fa, attraverso lo spettacolo, coscienza tragica”3.
Volendo citare anche qualche Latino, Cornelio Nepote nel preoemio al Liber de excellentibus ducibus exterarum gentium di che dalla sua opera si può imparare che non eadem omnibus esse honesta atque turpia.
Di questo relativismo culturale un altro esempio si trova sempre in Erodoto, nel I libro, cap. 196 dove racconta come le donne babilonesi trovano marito.
Del rapporto dialettico tra lex e mos parla anche Sallustio, all'inizio del de Catilinae coniuratione, XII ius bonumque apud eos non legibus magis quam natura valebat, quando descrive i boni mores dell'antica repubblica in opposizione alla corruzione dei suoi tempi.
1 “I nomi sono in numero finito, mentre le cose sono infinite. Quindi è inevitabile che un nome unico abbia più sensi”: Aristotele, Confutazione dei sofisti, I, 165 a 11.
2 Benveniste (Noms d’agent et noms d’action en indo-europeén, Paris 1948, pp. 79 sg.) ha dimostrato che νέμειν racchiude l’idea di un’attribuzione regolare, di una spartizione regolata dall’autorità del diritto consuetudinario. Questo senso rende conto delle due grandi serie nella storia semantica della radice *nem. Νόμος, attribuzione regolare, regola d’uso, consuetudine, rito religioso, legge divina o civica, convenzione; νόμος attribuzione territoriale fissata dalla consuetudine, pascolo, provincia. L’espressione τὰ νομιζόμενα designa l’insieme di ciò che è dovuto agli dèi; τὰ νόμιμα le norme con valore religioso o politico;τὰ νομίσματα le consuetudini o la moneta avente corso in una città.
3 J.P. Vernant, Ambiguità e rovesciamento in Mito e tragedia nell’antica Grecia, pp. 88-90.
mercoledì 19 febbraio 2025
Nietzsche, La nascita della tragedia – Spiegazione e commento – CAPITOLO 15 – 1° parte
Qui il percorso completo in PDF
(in aggiornamento)
Capitolo 16
Con l’esempio storico trattato abbiamo tentato di chiarire come la tragedia perisca per il dileguarsi dello spirito della musica con la stessa certezza con cui soltanto da questo spirito può derivare la sua nascita.
Bisogna dunque ora volgere lo sguardo dai fenomeni della storia a quelli del presente, dove si combatte la lotta tra la sete ottimistica di conoscenza e il bisogno tragico dell’arte.
Parlerò soltanto della più illustre opposizione alla concezione tragica del mondo […] la scienza, che nella sua più profonda essenza è ottimistica, con a capo il suo progenitore Socrate.
Ricapitoliamo le cognizioni acquisite: a differenza dei più che vedono all’origine dell’arte un principio unico,
Io tengo lo sguardo fisso alle due divinità artistiche dei Greci […] e vedo in loro i vivi e intuitivi rappresentanti di due mondi d’arte […] Apollo […] il genio trasfiguratore del principium individuationis […] la liberazione nell’illusione; per contro al mistico grido di giubilo di Dioniso la catena dell’individuazione viene spezzata e si apre la via verso le Madri dell’essere, verso l’essenza intima delle cose.
L’unico ad aver compreso questa antitesi tra l’arte plastica in quanto apollinea e la musica in quanto dionisiaca è Schopenhauer (anche se non si avvale della simbologia delle due divinità), e il concetto è poi ripreso da Wagner con l’aggiunta che la musica non si può giudicare con le categorie che valgono per tutte le altri arti. Schopenhauer
ha riconosciuto alla musica un diverso carattere […] non è immagine dell’apparenza, bensì immediatamente immagine della volontà stessa, e dunque rappresenta, rispetto a ogni fisica del mondo, la metafisica, e rispetto a ogni apparenza la cosa in sé.
Bisogna porsi dunque il problema di quale sia l’effetto combinato nell’arte di apollineo e dionisiaco, cioè quale rapporto ci sia tra musica da una parte. immagine e concetto dall’altra. Segue il passo tratto da Il mondo come volontà e rappresentazione (III, 52, pp. 309-311) in cui la questione trova un’esposizione sommamente chiara. Riporto anche io il passo nella traduzione Einaudi, con delle parti evidenziate per chi voglia fare prima:
In conseguenza di tutto ciò, possiamo considerare il mondo fenomenico (la natura) e la musica come due espressioni diverse della stessa cosa, la quale costituisce perciò il solo termine medio nell’analogia tra l’uno e l’altra, la cui conoscenza viene richiesta per considerare quell’analogia. La musica quindi, se la consideriamo come espressione del mondo, è un linguaggio in altissimo grado universale, che addirittura sta all’universalità dei concetti pressappoco come questi ultimi stanno alle singole cose. La sua universalità non è però affatto la vuota universalità dell’astrazione: è di tutt’altro genere, ed è unita a una determinatezza perennemente chiara. È simile in ciò alle figure geometriche e ai numeri, che, in quanto forme universali di tutti i possibili oggetti dell’esperienza e a tutti applicabili a priori, non sono però astratti, ma intuitivi e determinati in generale. Tutte le possibili aspirazioni, eccitazioni ed espressioni della volontà, tutte quelle circostanze che appartengono all’interiorità dell’uomo, che la ragione getta nell’ampio concetto negativo di sentimento, possono essere espresse dalle molte, infinite melodie possibili, ma sempre nell’universalità della pura forma priva di materia, sempre e solo nell’in-sé, non nel fenomeno, quasi fossero l’anima più profonda di quest’ultimo priva del corpo. Questa intima relazione che la musica ha con la vera essenza di tutte le cose ci consente anche di spiegare il fatto che se, in una qualsiasi scena, azione, avvenimento, circostanza, risuona una musica adatta, quest’ultima sembra dischiudercene il senso più segreto e fornircene il commentario più corretto e più chiaro, e anche il fatto che, a chi si sia completamente abbandonato alle impressioni prodotte da una sinfonia, sembra come di vedere trascorrere dinanzi a sé tutte le possibili circostanze della vita e del mondo, sebbene costui non possa, se ci riflette, trovare alcuna somiglianza tra le note che vengono eseguite e le cose che gli passano davanti agli occhi. Questo perché la musica, come abbiamo detto, si distingue da tutte le altre arti nell’essere non un’immagine del fenomeno o, più esattamente, dell’oggettità adeguata della volontà, bensì l’immagine immediata della volontà stessa, e rappresenta perciò l’aspetto metafisico di tutto ciò che nel mondo vi è di fisico, la cosa in sé di tutti i fenomeni. Si potrebbe di conseguenza chiamare il mondo, con uguale legittimità, tanto musica incarnata quanto volontà incarnata; con il che si spiega anche perché la musica riesca a produrre in ogni quadro, anzi in ogni scena della vita e del mondo reali, un significato più alto, che sarà tanto maggiore quanto più la sua melodia sarà analoga all’intimo spirito del fenomeno che è dato. Di qui deriva anche la possibilità di adattare a una musica una poesia, producendo una canzone, una rappresentazione intuitiva sotto forma di pantomima, oppure l’una e l’altra cosa insieme sotto forma di opera lirica. Queste singole immagini della vita umana, adattate al linguaggio universale della musica, non le sono mai connesse né le corrispondono con una necessità stabile, ma stanno con essa solo nella relazione che ha un qualsiasi esempio con un concetto universale; rappresentano, nella determinatezza concreta della realtà, quello stesso che la musica testimonia nell’universalità della semplice forma: le melodie sono infatti, in un certo senso, come i concetti universali, un’astrazione della realtà. Quest’ultima, infatti, ossia il mondo delle cose particolari, fornisce l’intuitivo, il peculiare e l’individuale, il singolo caso, tanto all’universalità dei concetti quanto all’universalità delle melodie, due universalità che però, da un certo punto di vista, si contrappongono l’una all’altra: i concetti contengono solo le prime forme astratte dall’intuizione, quasi la vuota scorza delle cose, e sono dunque delle vere e proprie astrazioni; la musica, invece, ci dà il nocciolo più profondo che precede ogni formazione, ossia il cuore della cosa. Questa relazione può essere espressa correttamente nel linguaggio degli Scolastici dicendo: i concetti sono gli universalia post rem, mentre la musica fornisce gli universalia ante rem, e la realtà gli universalia in re. […] Tuttavia, il fatto che, in generale, sia possibile un rapporto tra una composizione e una raffigurazione intuitiva, poggia, come abbiamo detto, sulla circostanza che l’una e l’altra sono espressioni del tutto diverse della medesima intima essenza del mondo. Ora, qualora in un singolo caso si realizzi effettivamente un rapporto di questo genere, e dunque qualora il compositore abbia saputo esprimere nel linguaggio universale della musica quegli impulsi della volontà che costituiscono il nocciolo di un avvenimento, allora la melodia del Lied e la musica del melodramma risultano fortemente espressive. Quell’analogia che il compositore ha trovato tra questi due elementi deve però provenire dalla conoscenza immediata dell’essenza del mondo, non consapevole delle sue ragioni, e non dev’essere un’imitazione costruita in modo consapevolmente intenzionale, attraverso concetti, poiché in questo caso la musica non sarebbe in grado di esprimerne l’intima essenza, la volontà stessa, ma non farebbe altro che imitarne in modo inadeguato il fenomeno, come sempre fa la musica propriamente imitativa.
Nietzsche, La nascita della tragedia – Spiegazione e commento – CAPITOLO 15
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(in aggiornamento)
Capitolo 15
L’uomo teoretico
Bisogna ora spiegare come l’influenza di Socrate si sia allargata sulla posterità […] simile a un’ombra che diventa sempre più grande nel sole della sera, e come essa costringa sempre di nuovo a ricreare l’arte.
Prima di riconoscere il primato dei Greci nell’arte, è capitato a noi nei confronti dei Greci quello che capitò agli Ateniesi nei confronti di Socrate. Quasi sempre si è tentato di liberarsi dei Greci perché rispetto a loro tutto il resto era sbiadito e si riduceva a copia mal riuscita, anzi caricatura. Disturbava l’arroganza di un popolo che qualificava gli altri come barbari.
Chi sono costoro […] che pretendono poi fra i popoli la dignità e il privilegio che spetta al genio fra la massa? Purtroppo non si fu così fortunati da trovare il bicchiere di cicuta […] E così ci si vergogna e si ha paura dei Greci; a meno che uno non stimi la verità sopra tutte le cose e non osi anche dirsela, questa verità, che i Greci cioè tengono in mano come aurighi la nostra e qualsiasi cultura, ma quasi sempre cocchi e cavalli sono di qualità troppo scadente e inadeguati alla gloria dei loro aurighi, i quali considerano allora uno scherzo il cacciare tali cavalli in un abisso, che essi stessi superano col salto d’Achille.
La dignità che a Socrate deve essere riconosciuta per la sua posizione di guida va individuata nell’aver incarnato per la prima volta la forma di esistenza dell’uomo teoretico, che è nostro compito comprendere e analizzare. Egli come l’artista prova un infinito appagamento per ciò che esiste: l’artista gode nel disvelamento della verità, rimanendo però con lo sguardo fisso a ciò che rimane soltanto velo.
L’uomo teoretico gode e si appaga nel togliere il velo e trova il suo supremo fine e piacere nel processo di un disvelamento sempre felice […] Non ci sarebbe nessuna scienza, se a essa importasse solo quell’unica dea nuda… In tal caso infatti i suoi seguaci dovrebbero sentirsi come individui che volessero scavare un foro diritto attraverso la terra.
Non basterebbe cioè una vita per giungere dall’altra parte e inoltre i suoi sforzi sarebbero vanificati da chi, di fianco a lui, scavando il suo buco ,colmasse la parte già scavata. Sarebbe allora comprensibile che ci fosse un terzo a scavare altrove. Se però si dimostrasse che questa via diretta non può giungere agli antipodi, nessuno vorrebbe più scavare, se non accontentandosi di trovare intanto qualche pietra preziosa o legge fisica. Così si svela il segreto della scienza, cioè che l’obiettivo non è la verità ma la sua ricerca.
Accanto a questa conoscenza isolata […] sta però una profonda idea illusoria, che venne al mondo per la prima volta nella persona di Socrate, ossia quell’incrollabile fede che il pensiero giunga, seguendo il filo conduttore della causalità, fin nei più profondi abissi dell’essere, e che il pensiero sia in grado non solo di conoscere, ma addirittura di correggere l’essere. Questa sublime illusione metafisica è data alla scienza come istinto e la conduce sempre di nuovo ai suoi limiti, dove deve convertirsi in arte.
Se guardiamo ora a Socrate in questa chiave ci appare come il primo che seguendo l’istinto scientifico seppe non solo vivere, ma persino morire. La figura di Socrate che muore tranquillo in quanto la scienza ha eliminato la paura della morte indica la strada che ha davanti la scienza, quella cioè che porta a giustificare la vita rendendola comprensibile. A tal scopo comunque quando non basta la ragione deve comunque intervenire il mito. Socrate dunque è il mistagogo della scienza. Il μυσταγωγός è colui che inizia ai misteri. Dopo di lui la scienza assume una dimensione universale e grazie a ciò si diffonde in tutta l’umanità una rete di pensiero comune fino ad arrivare all’altissimo vertice del sapere attuale. Se si considera bene tutto ciò non si può evitare di considerare Socrate come il vertice e il cardine della storia universale: tale forza immane , infatti, impiegata al servizio della conoscenza per scopi universali, se fosse assoggettata a fini pratici ed egoistici avrebbe provocato un susseguirsi di guerre con conseguente indebolimento del piacere di vivere, fino al punto da rendere auspicabile il suicidio e addirittura un’etica del genocidio per pietà.
Di fronte a questo pessimismo pratico, Socrate è il prototipo dell’ottimista teorico che… concede al sapere e alla conoscenza la forza di una medicina universale e vede nell’errore il male in sé… Perfino i fatti morali più sublimi… e quella tranquillità dell’anima… che il Greco apollineo chiamava sophrosyne, derivano… dalla dialettica del sapere […] Chi ha sperimentato in sé il piacere di una conoscenza socratica […] non avvertirà da allora in poi nessun pungolo che possa spingere alla vita più fortemente della brama di perfezione della conquista […] Il Socrate di Platone appare allora come il maestro di una forma del tutto nuova di «serenità greca».
La scienza però, spinta dalle sue illusioni, giunge ai limiti della conoscenza dove il suo ottimismo connaturato alla logica naufraga. L’orrore che scaturisce dalla presa di consapevolezza dei limiti della logica rende allora necessaria la conoscenza tragica, che per essere sopportata ha bisogno del balsamo dell’arte.