venerdì 21 febbraio 2025

Nietzsche, La nascita della tragedia – Spiegazione e commento – CAPITOLO 16

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(in aggiornamento)

 

Capitolo 16


Con l’esempio storico trattato abbiamo tentato di chiarire come la tragedia perisca per il dileguarsi dello spirito della musica con la stessa certezza con cui soltanto da questo spirito può derivare la sua nascita.


Bisogna dunque ora volgere lo sguardo dai fenomeni della storia a quelli del presente, dove si combatte la lotta tra la sete ottimistica di conoscenza e il bisogno tragico dell’arte.


Parlerò soltanto della  più illustre opposizione alla concezione tragica del mondo […] la scienza, che nella sua più profonda essenza è ottimistica, con a capo il suo progenitore Socrate.


Ricapitoliamo le cognizioni acquisite: a differenza dei più che vedono all’origine dell’arte un principio unico,


Io tengo lo sguardo fisso alle due divinità artistiche dei Greci […] e vedo in loro i vivi e intuitivi rappresentanti di due mondi d’arte […] Apollo […] il genio trasfiguratore del  principium individuationis […] la liberazione nell’illusione; per contro al mistico grido di giubilo di Dioniso la catena dell’individuazione viene spezzata e si apre la via verso le Madri dell’essere, verso l’essenza intima delle cose.


L’unico ad aver compreso questa antitesi tra l’arte plastica in quanto apollinea e la musica in quanto dionisiaca è Schopenhauer (anche se non si avvale della simbologia delle due divinità), e il concetto è poi ripreso da Wagner con l’aggiunta che la musica non si può giudicare con le categorie che valgono per tutte le altri arti. Schopenhauer


ha riconosciuto alla musica un diverso carattere […] non è immagine dell’apparenza, bensì immediatamente immagine della volontà stessa, e dunque rappresenta, rispetto a ogni fisica del mondo, la metafisica, e rispetto a ogni apparenza la cosa in sé.


Bisogna porsi dunque il problema di quale sia l’effetto combinato nell’arte di apollineo e dionisiaco, cioè quale rapporto ci sia tra musica da una parte. immagine e concetto dall’altra. Segue il passo tratto da Il mondo come volontà e rappresentazione (III, 52, pp. 309-311) in cui la questione trova un’esposizione sommamente chiara. Riporto anche io il passo nella traduzione Einaudi, con delle parti evidenziate per chi voglia fare prima:


In conseguenza di tutto ciò, possiamo considerare il mondo fenomenico (la natura) e la musica come due espressioni diverse della stessa cosa, la quale costituisce perciò il solo termine medio nell’analogia tra l’uno e l’altra, la cui conoscenza viene richiesta per considerare quell’analogia. La musica quindi, se la consideriamo come espressione del mondo, è un linguaggio in altissimo grado universale, che addirittura sta all’universalità dei concetti pressappoco come questi ultimi stanno alle singole cose. La sua universalità non è però affatto la vuota universalità dell’astrazione: è di tutt’altro genere, ed è unita a una determinatezza perennemente chiara. È simile in ciò alle figure geometriche e ai numeri, che, in quanto forme universali di tutti i possibili oggetti dell’esperienza e a tutti applicabili a priori, non sono però astratti, ma intuitivi e determinati in generale. Tutte le possibili aspirazioni, eccitazioni ed espressioni della volontà, tutte quelle circostanze che appartengono all’interiorità dell’uomo, che la ragione getta nell’ampio concetto negativo di sentimento, possono essere espresse dalle molte, infinite melodie possibili, ma sempre nell’universalità della pura forma priva di materia, sempre e solo nell’in-sé, non nel fenomeno, quasi fossero l’anima più profonda di quest’ultimo priva del corpo. Questa intima relazione che la musica ha con la vera essenza di tutte le cose ci consente anche di spiegare il fatto che se, in una qualsiasi scena, azione, avvenimento, circostanza, risuona una musica adatta, quest’ultima sembra dischiudercene il senso più segreto e fornircene il commentario più corretto e più chiaro, e anche il fatto che, a chi si sia completamente abbandonato alle impressioni prodotte da una sinfonia, sembra come di vedere trascorrere dinanzi a sé tutte le possibili circostanze della vita e del mondo, sebbene costui non possa, se ci riflette, trovare alcuna somiglianza tra le note che vengono eseguite e le cose che gli passano davanti agli occhi. Questo perché la musica, come abbiamo detto, si distingue da tutte le altre arti nell’essere non un’immagine del fenomeno o, più esattamente, dell’oggettità adeguata della volontà, bensì l’immagine immediata della volontà stessa, e rappresenta perciò l’aspetto metafisico di tutto ciò che nel mondo vi è di fisico, la cosa in sé di tutti i fenomeni. Si potrebbe di conseguenza chiamare il mondo, con uguale legittimità, tanto musica incarnata quanto volontà incarnata; con il che si spiega anche perché la musica riesca a produrre in ogni quadro, anzi in ogni scena della vita e del mondo reali, un significato più alto, che sarà tanto maggiore quanto più la sua melodia sarà analoga all’intimo spirito del fenomeno che è dato. Di qui deriva anche la possibilità di adattare a una musica una poesia, producendo una canzone, una rappresentazione intuitiva sotto forma di pantomima, oppure l’una e l’altra cosa insieme sotto forma di opera lirica. Queste singole immagini della vita umana, adattate al linguaggio universale della musica, non le sono mai connesse né le corrispondono con una necessità stabile, ma stanno con essa solo nella relazione che ha un qualsiasi esempio con un concetto universale; rappresentano, nella determinatezza concreta della realtà, quello stesso che la musica testimonia nell’universalità della semplice forma: le melodie sono infatti, in un certo senso, come i concetti universali, un’astrazione della realtà. Quest’ultima, infatti, ossia il mondo delle cose particolari, fornisce l’intuitivo, il peculiare e l’individuale, il singolo caso, tanto all’universalità dei concetti quanto all’universalità delle melodie, due universalità che però, da un certo punto di vista, si contrappongono l’una all’altra: i concetti contengono solo le prime forme astratte dall’intuizione, quasi la vuota scorza delle cose, e sono dunque delle vere e proprie astrazioni; la musica, invece, ci dà il nocciolo più profondo che precede ogni formazione, ossia il cuore della cosa. Questa relazione può essere espressa correttamente nel linguaggio degli Scolastici dicendo: i concetti sono gli universalia post rem, mentre la musica fornisce gli universalia ante rem, e la realtà gli universalia in re. […] Tuttavia, il fatto che, in generale, sia possibile un rapporto tra una composizione e una raffigurazione intuitiva, poggia, come abbiamo detto, sulla circostanza che l’una e l’altra sono espressioni del tutto diverse della medesima intima essenza del mondo. Ora, qualora in un singolo caso si realizzi effettivamente un rapporto di questo genere, e dunque qualora il compositore abbia saputo esprimere nel linguaggio universale della musica quegli impulsi della volontà che costituiscono il nocciolo di un avvenimento, allora la melodia del Lied e la musica del melodramma risultano fortemente espressive. Quell’analogia che il compositore ha trovato tra questi due elementi deve però provenire dalla conoscenza immediata dell’essenza del mondo, non consapevole delle sue ragioni, e non dev’essere un’imitazione costruita in modo consapevolmente intenzionale, attraverso concetti, poiché in questo caso la musica non sarebbe in grado di esprimerne l’intima essenza, la volontà stessa, ma non farebbe altro che imitarne in modo inadeguato il fenomeno, come sempre fa la musica propriamente imitativa.


Dunque la musica è il linguaggio della volontà e stimola la fantasia a rappresentare quel mondo con un esempio analogo, sotto forma di immagine e concetto che a loro volta sono potenziati da un musica rispondente.


L’arte dionisiaca suole dunque esplicare effetti di due specie sulla facoltà artistica apollinea: la musica spinge all’intuizione simbolica dell’universalità dionisiaca, e in secondo luogo fa risaltare l’immagine simbolica in una suprema significazione […] Da questi fatti io deduco l’attitudine della musica a generare il mito, cioè l’esempio più significativo, e precisamente il mito tragico: il mito che parla per simboli della conoscenza dionisiaca.


Non si può far derivare il tragico dall’essenza dell’arte comunemente intesa, cioè secondo la categoria di bella parvenza, ma piuttosto dallo spirito della musica, grazie a cui solamente si può comprendere la gioia per l’annientamento dell’individuo. Infatti a fronte di ogni singolo esempio di annientamento noi scorgiamo l’eternità e immutabilità della vita nonostante ogni annientamento e ogni apparenza.


La gioia metafisica per ciò che è tragico è un traduzione della sapienza dionisiaca istintiva e inconscia nel linguaggio dell’immagine: l’eroe, la più alta apparenza della volontà, viene con nostra gioia negato, perché è comunque apparenza, e la vita eterna della volontà non viene toccata dalla sua distruzione.


Diversamente l’arte plastica usa la bellezza per vincere il dolore, che viene eliminato dalla natura. Nell’arte dionisiaca invece la natura ci parla direttamente:


«Siate come sono io! Nell’incessante mutamento delle apparenze, la madre primigenia, eternamente creatrice, che eternamente costringe all’esistenza, che eternamente ci appaga di questo mutamento dell’apparenza».



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