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(in aggiornamento)
Capitolo 9
Edipo e Prometeo
Tutto ciò che viene alla superficie nella parte apollinea della tragedia greca, nel dialogo, appare semplice, trasparente, bello.
Così comincia il capitolo. Il dialogo è un immagine del Greco, la cui natura si rivela nella danza e nei suoi movimenti. In particolare è sorprendente la lingua degli eroi sofoclei per la sua limpidezza, al punto da credere di poter penetrare al fondo della loro essenza con inaspettata facilità. Ma se prescindiamo dal carattere dell’eroe che è ciò che emerge sulla superficie e che, in modo inverso rispetto al mito della caverna di Platone, è un’immagine luminosa proiettata su fondo scuro, e penetriamo nel mito allora sperimentiamo un effetto inverso a un noto fenomeno ottico.
Quando noi, dopo un fermo tentativo di fissare il sole, ci rivolgiamo abbagliati, abbiamo allora davanti agli occhi, quasi come un rimedio, scure macchie colorate; inversamente, quelle proiezioni luminose dell’eroe sofocleo, insomma l’apollineo della maschera, sono prodotti necessari di uno sguardo gettato nell’intimità e terribilità della natura, per così dire macchie luminose per sanare l'occhio offeso dall'orrenda notte. Solo in questo senso possiamo credere di comprendere rettamente il concetto serio e importante della «serenità greca».
Edipo, la figura più dolorosa del mondo greco, è stato concepito da Sofocle come l’uomo nobile che soffre nonostante la sua saggezza, ma in virtù della sua immensa sofferenza esercita intorno a sé un benefico influsso.
In effetti alla fine dell’ Edipo re (1414-15) leggiamo questa orgogliosa rivendicazione:
τἀμὰ γὰρ κακὰ
οὐδεὶς οἷός τε πλὴν ἐμοῦ φέρειν βροτῶν.
«i miei mali / nessuno è capace tranne me di sopportarli tra i mortali».
come del resto all’inizio (396-98) avevamo visto la rivendicazione della proprie capacità intellettuali, grazie alle quali aveva risolto l’enigma, ma che, escludendo la dimensione divina, sono anche causa della sua rovina:
ἀλλ' ἐγὼ μολών,
ὁ μηδὲν εἰδὼς Οἰδίπους, ἔπαυσά νιν,
γνώμῃ κυρήσας οὐδ' ἀπ' οἰωνῶν μαθών·
«ma io dopo essere giunto, / io Edipo che non sapevo niente, la feci cessare, / avvalendomi dell'intelligenza e non avendo appreso nulla dal volo degli uccelli»
Quello che ci vuole dire il poeta è che l’uomo nobile in fondo non pecca: se anche con le sue azioni vengono infrante tutte le leggi morali e religiose, è proprio dagli effetti superiori e magici del suo agire che nasce un nuovo mondo sulle rovine del vecchio. Qui il riferimento è alla fine dell’Edipo a Colono.
Ciò vuol dirci il poeta, in quanto è insieme pensatore religioso.
Nietzsche analizza ora la storia di Edipo fondendo le due tragedie di Sofocle.
In quanto poeta ci mostra una vicenda processuale che si sbroglia a poco a poco portandolo alla rovina:
la gioia genuinamente ellenica per questo scioglimento dialettico è così grande, che in tal modo spira su tutta l’opera un soffio di superiore serenità.
Nell’Edipo a Colono c’è la medesima serenità ma talmente elevata da apparire trasfigurata: contrapposta alla sofferenza del vecchio abbandonato a tutto ciò che lo colpisce c’è la serenità ultraterrena che si irradia dalla sfera divina
e ci accenna come l’eroe possa raggiungere, con il suo comportamento puramente passivo, la sua più alta attività […] mentre tutti i suoi sforzi della vita precedente l’avevano condotto solo alla passività.
Nella tragedia, ai vv. 266-267, leggiamo:
ἐπεὶ τά γ᾽ ἔργα μου
πεπονθότ᾽ ἐστὶ μᾶλλον ἢ δεδρακότα
«giacché le mie azioni / sono state subite piuttosto che compiute».
Questa spiegazione rende giustizia al poeta ma non è sufficiente per il mito;
e ora si vede che tutta la concezione del poeta non è niente altro se non appunto quell’immagine luminosa, che la natura risanatrice ci mostra dopo che abbiamo gettato uno sguardo nel baratro.
Parricidio, incesto ed enigma della Sfinge: qual è il significato di questa triade? Un’antica credenza popolare narra che un mago può nascere solo da un incesto; questa affermazione trae spunto da un carme di Catullo (90, 3-4):
nam magus ex matre et gnato gignatur oportet,
si vera est Persarum impia religio
«Infatti bisogna che un mago sia generato da una madre e da un suo figlio, / se è vera l’empia superstizione dei Persiani».
Nel caso di Edipo bisogna interpretare tale credenza nel senso che dove sono stati violati i segreti della natura, l’ordine del presente e del futuro, la legge dell’individuazione e in genere l’incantesimo della natura, là deve essere stata commessa un forte trasgressione contro la natura;
giacché come si potrebbe costringere la natura ad abbandonare i suoi segreti se non contrastandola vittoriosamente, ossia mediante ciò che è innaturale?
In effetti, come diceva Eraclito (123 D-K):
φύσις κρύτπτεσθαι φιλεῖ
«la natura ama nascondersi».
Per violare l’enigma della natura (la Sfinge) deve agire contro natura (uccidere il padre e unirsi alla madre).
Sì, il mito sembra volerci bisbigliare che la sapienza, e proprio la sapienza dionisiaca, è un orrore contro natura, che colui che col suo sapere precipita la natura nel baratro dell’annientamento deve sperimentare la dissoluzione della natura su se stesso. «La punta della sapienza si rivolge contro il sapiente; la sapienza è un delitto contro natura».
Queste ultime parole sembrano riecheggiare quelle di Tiresia nell’Edipo re (316-317) al suo ingresso in scena:
Φεῦ φεῦ, φρονεῖν ὡς δεινὸν ἔνθα μὴ τέλη
λύῃ φρονοῦντι.
«Ahi ahi, come è terribile sapere quando non / giova a chi sa».
Sul motivo antiintellettualistico cfr. anche Eraclito, 40 D-K:
πολυμαθίη νόον ἔχειν οὐ διδάσχει.
«sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza»
[…] ma il poeta ellenico tocca come un raggio di sole la sublime e terribile colonna memnonica del mito, sicché esso comincia subitamente a risuonare – di melodie sofoclee!
Memnone, mitico re degli Etiopi, oggetto di tragedie sia di eschilo sia di Sofocle, aveva due statue che lo raffiguravano. Di una si dice che risuonasse quando era colpita dal sole. La stessa immagine è usata da Schopenhauer (Supplementi a «Il mondo come volontà e rappresentazione, cap. 3, pag. 34) per descrivere la capacità delle menti dotate:
in costoro, ogni pensiero risveglia con […] grande facilità tutti i pensieri analoghi o affini; […] a loro le somiglianze, le analogie e le relazioni tra le cose in generale vengono in mente così rapidamente e così facilmente che la stessa occasione che milioni di teste comuni hanno avuto prima di loro li conduce a quel pensiero, a quella scoperta che gli altri – coloro i quali sanno sì riflettere sul già pensato, ma non pensare autonomamente – si stupiscono, dopo esserne venuti a conoscenza, di non aver fatto loro stessi: così il sole risplendeva su tutte le colonne, ma risuonava solo su quella di Memnone.
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