Euripide dunque misurò tutto secondo tale criterio e ciò di cui solito si rimprovera Euripide come regresso rispetto a Sofocle è dovuto a questa tendenza critica razionalizzante.
A questo punto però riferisco una di riflessione di Dodds (I Greci e l'irrazionale, pp. 224-5) che contesta tale pregiudizio:
Non so se il poeta, scrivendo la Medea, avesse in mente Socrate. Ma un ripudio cosciente della teoria socratica è stato riconosciuto, secondo me con ragione, nelle famose parole che egli pose in bocca a Fedra tre anni più tardi.
Vediamo i passi in questione.
Medea, 1078-80 (rappresentata nel 431 a.C.), dove la protagonista, combattuta tra l’amore per i figli e la sete di vendetta, si risolve per la vendetta con la seguente considerazione:
καὶ μανθάνω μὲν οἷα τολμήσω κακά,
θυμὸς δὲ κρείσσων τῶν ἐμῶν βουλευμάτων,
ὅσπερ μεγίστων αἴτιος κακῶν βροτοῖς.
«e comprendo quali mali oserò, / ma più forte delle mie riflessioni è la passione, / la quale è causa dei massimi mali per i mortali».
Tre anni più tardi, nel 428, nell’Ippolito cosi si esprime Fedra (380-83):
τὰ χρήστ᾽ ἐπιστάμεσθα καὶ γιγνώσκομεν,
οὐκ ἐκπονοῦμεν δ᾽, οἱ μὲν ἀργίας ὕπο,
οἱ δ᾽ ἡδονὴν προθέντες ἀντὶ τοῦ καλοῦ
ἄλλην τιν᾽.
«conosciamo il bene e lo comprendiamo, / ma non ci impegniamo a metterlo in pratica, alcuni per pigrizia, / altri preferendo al bello un qualche altro / piacere».
Effettivamente queste parole di Fedra sembrano proprio voler controbattere alla teoria di Socrate. Sentiamo ancora Dodds (pp. 225-7):
Euripide, nelle sue ultime opere, si preoccupa non tanto dell'importanza della ragione umana, quanto del dubbio più vasto, se sia possibile discernere un qualche fine razionale nell'ordinamento della vita umana... credo ancora che la parola «irrazionalista», da me un tempo suggerita, sia quella che meglio si addice a Euripide.
[…]
Euripide dunque, se vedo giusto, riflette non soltanto l'Illuminismo, ma anche la reazione contro l’Illuminismo.
Esempio tipico del nuovo metodo razionalistico è il prologo euripideo, che dandoci tutte le informazioni sui contorni dell’azione drammatica contrasta totalmente con la concezione moderna del dramma in quanto elimina ogni tensione. Si sa già ciò che accadrà e nessuno vorrà attendere,
dato che qui in nessun modo si presenta lo stimolante rapporto fra un sogno profetico e una realtà che si verificherà più tardi.
Euripide ragionava in modo diverso:
l’effetto della tragedia era basato… su quelle grandi scene retorico-liriche, in cui la passione e la dialettica del protagonista si gonfiavano in un fiume largo e potente. Tutto disponeva al pathos, non all’azione.
Ciò che in effetti ostacolava il pieno godimento di tali scene era proprio una lacuna nell’antefatto, che impediva di inquadrare con precisione il significato di una personaggio, i moventi delle sue decisioni e quindi di immedesimarsi soffrendo e temendo con lui.
La tragedia eschileo-sofoclea impiegava i mezzi artistici più ingegnosi per dare come per caso in mano allo spettatore, nelle prime scene, tutti i fili necessari alla comprensione: in tale caratteristica si conferma quella maestria che per così dire maschera e fa apparire come casuale ciò che è necessario.
Una tale simulata casualità ricorda la sui neglegentia del Caio Petronio, l’elegantiae arbiter descritto da Tacito (Annales, XVI, 18) la cui raffinatezza era talmente ricercata da apparire semplicità:
illi dies per somnum, nox officiis et oblectamentis uitae transigebatur; utque alios industria, ita hunc ignauia ad famam protulerat, habebaturque non ganeo et profligator, ut plerique sua haurientium, sed erudito luxu. Ac dicta factaque eius quanto solutiora et quandam sui neglegentiam praeferentia, tanto gratius in speciem simplicitatis accipiebantur. Pro consule tamen Bithyniae et mox consul uigentem se ac parem negotiis ostendit. Dein reuolutus ad uitia seu uitiorum imitatione inter paucos familiarium Neroni adsumptus est, elegantiae arbiter, dum nihil amoenum et molle adfluentia putat, nisi quod ei Petronius adprobauisset.
«Egli trascorreva il giorno nel sonno, la notte negli affari e nei piaceri della vita; e come l’operosità aveva portato alla fama gli altri, questo ve lo aveva portato l’indolenza, ed era considerato non un debosciato e uno scialacquatore, come i più che danno fondo alle loro sostanze, ma uno dalla raffinatezza ricercata. E le sue parole e azioni quanto più erano disinvolte e presentavano una certa trascuratezza di sé, con tanto maggior favore erano accolte come manifestazione di semplicità. Tuttavia come proconsole in Bitinia e subito dopo come console si dimostrò energico e all’altezza dei compiti. Poi ritornato ai vizi o anche per imitazione dei vizi, fu ammesso tra i pochi intimi di Nerone, come arbitro di eleganza, tanto che il principe niente riteneva bello e delicato se non ciò che Petronio gli avesse approvato».
Torniamo a Nietzsche.
Euripide credette di notare che, durante quelle prime scene, lo spettatore era in particolare agitazione per risolvere il problemino di aritmetica dell’antefatto, sicché le bellezze artistiche e il pathos dell’esposizione andavano per lui perduti.
Da qui l’esigenza di far pronunciare il prologo a una divinità che garantiva sullo svolgimento dei fatti e toglieva ogni dubbio sulla realtà del mito, come rilevava Aristofane (Rane, 946-47):
ἀλλ᾽ οὑξιὼν πρώτιστα μέν μοι τὸ γένος εἶπ᾽ ἂν εὐθὺς
τοῦ δράματος.«ma quello che entrava all'inizio per me soleva dire subito l’origine / del dramma».
Così pure se l’era cavata Descartes, per dimostrare la realtà del modo empirico, si era appellato alla veridicità di Dio. Così il filosofo francese nella IV delle Meditazioni metafisiche (pagg. 53-54 A.-T.):
Experior quandam in me esse judicandi facultatem, quam certe, ut & reliqua omnia quae in me sunt, a Deo accepi; cùmque ille nolit me fallere, talem profecto non dedit, ut, dum eâ recte utor, possim unquam errare.
«Sento che in me c'è una certa facoltà di giudicare, che certamente, come tutte le altre cose che sono in me, ho ricevuto da Dio; e siccome egli non vuole ingannarmi, non l'ha data certamente tale che, finché la uso correttamente, io possa mai errare».
Non è un caso che il rappresentante del socratismo estetico sia associato al padre del razionalismo moderno. Riferimenti critici all’espediente cartesiano si trovano anche in Pascal (Pensieri , C 194-B 77):
Je ne puis pardonner à Descartes ; il voudrait bien, dans toute sa philosophie, se pouvoir passer de Dieu, mais il n’a pu s’empêcher de lui faire donner une chiquenaude pour lettre le monde en mouvement ; après cela il n’a plus que faire de Dieu.
«Non posso perdonare Cartesio: egli avrebbe pur voluto, in tutta la sua filosofia, poter fare a meno di Dio; ma non ha potuto esimersi di fargli dare un colpetto, per mettere il mondo in movimento; dopo di che non sa più che farsene di Dio».
E in Schopenhauer (Parerga e paralipomena I, Schizzo di una storia della teoria dell’ideale e del reale):
Cartesio è considerato a buon diritto il padre della filosofia moderna, anzitutto e in generale poiché ha avviato la ragione a reggersi sulle sue gambe… è divenuto cosciente per la prima volta del problema dell’ideale e del reale… cioè della questione di cosa vi sia di oggettivo e cosa di soggettivo nella nostra conoscenza… l’ideale, cioè quanto appartiene solo alla nostra conoscenza come tale, dal reale, cioè quanto sussiste indipendentemente dalla conoscenza stessa… Egli dunque scoprì l’abisso che separa il subiettivo, o ideale, dall’obiettivo, o reale, ed espresse questa sua tesi nel dubbio sull’esistenza del mondo esterno: senonché con il suo misero espediente per uscirne ─ affermando cioè che il buon Dio non ci vorrà certo ingannare ─ egli mostrò quanto fosse profondo e difficile a risolversi il problema.
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